domenica 15 novembre 2020

20 11 15   Aprire l'animo, sentire insieme.

Queste due esperienze, quando possono avvenire, costituiscono l'amicizia.

Quando sono impedite, o quando c'è incapacità o nonvolontà di aprire e sentire, l'amicizia è impossibile. Rimane estraneità, solitudine amara, se non avversione.

Aprire e sentire sono le condizioni fondanti della relazione umana positiva, buona, felice, ad ogni scala: dai buoni rapporti personali, alla grande pace delle civiltà e delle politiche.

Aprire l'animo è possibile quando un altro animo rispetta, accoglie, ascolta, accompagna. Non si apre la propria intimità davanti ad un invasore. Ma aprire la porta di casa può anche svegliare un animo addormentato.

Ognuno sente più o meno, secondo la capacità di vibrare delle proprie corde intime. Chi sente da solo la bellezza della natura, o dell'arte, o dell'azione umana, vive un bene costruttivo. Chi sente queste bellezze insieme ad un'altra persona vive una costruzione comune, interpersonale. Sui successivi gradi di ampiezza dei rapporti, ciò fonda amicizia, amore, socialità, politica umana, civiltà planetaria. Il con-sentire sorge dalle profondità degli animi, non da regole sovrapposte o ideologie imposte.

L'antipatia è crisi di chi prova antipatia, ben più che dell'antipatico. Difetti e limiti di ciascuno chiedono ampiezza umana, capacità di tollerare e sostenere, pur senza concessioni indebite, senza dipingere di bello quel che è brutto, senza cessare di elaborare alternative.


sabato 14 novembre 2020

 Diario frammentario 20 11 14

Stare nelle cose, e gridare tutta l'insufficienza delle cose.

Stare nelle cose: politica, economia, medicina, tecnica....

Gridare tutta l'insufficienza delle cose: le domande di senso, il mistero che avvolge il prima e il dopo, le domande delle filosofie (più importanti delle risposte), quel che intravedono i profeti, quel che ascoltano i poeti, quel che creano gli artisti, quel che attendono i bambini, quel che hanno imparato i vecchi se hanno tenute accese le domande.

Una società umana ha questi due compiti, entrambi necessari: stare e gridare; lavorare e interrogarsi; essere qui, essere oltre; ottenere risultati, non quietarsi nei risultati.

Distribuirsi i lavori e i compiti, ma saper fare tutti, in qualche misura, l'uno e l'altro genere di compiti: e che nessuno dica "il mio lavoro è più importante del tuo"; e che ognuno sappia che lavora per sé solo se lavora anche per tutti.

si sono alzati in piedi.

E ci vorranno alcuni, scelti per capacità pratica e sensibilità dell'umanità incontenibile, incaricati di sovrintendere. Purché essi  sappiano anzitutto che potere è dovere, che l'incarico è un carico, e purché sappiamo tutti che avere una dote è avere un debito. Perché siamo animali terrestri verticali, a cui la terra sta stretta, che dalla terra riprendono energia, e coi piedi sulla terra  respirano e scrutano lo spazio infinito.

-- 

 

I - Diminuire consentendo

Enrico Peyretti

Pubblicato su Rocca n. 14, 15 luglio 2020

Michele Do (1918-2005), grande spirito cristiano e universalista, discepolo di Mazzolari e di Sorella Maria, era un prete vissuto per cinquant'anni a St. Jacques d'Ayas, villaggio valdostano, come rettore di quella piccola chiesa. Quando vi andò, nel 1945, non c'era ancora la strada, ma non visse affatto isolato. Attorno a lui nacque una grande rete, non solo italiana, di amicizia tra persone di ogni viva spiritualità, anche non credenti. Non scrisse nulla, ma qualcosa delle sue riflessioni e preghiere è stato raccolto dagli amici, in alcuni libri. È noto e diffuso il suo Credo (pubblicato anche su Rocca). In età avanzata, espresse la sua preparazione a morire nel motto: «Diminuire consentendo. Consentire con animo sereno. Distacco appassionato». Non dice qui la sua fede nella vita in Dio, ma una dignità umana che né resiste né cede alla fatalità del morire. «Diminuire consentendo»: chi, come me, vive il cammino di invecchiamento, trova qui una guida saggia. Consentire alla diminuzione delle forze e delle possibilità non è facile. Ma non è rinuncia a vivere né rassegnazione passiva, semmai è l'opposto della ostinazione ridicola e ribelle alla natura; non è distacco dalle buone passioni, non è rinuncia ad esprimersi (sia pure in un mondo che parla linguaggi sempre più differenti dal nostro), non è sentirsi inutili, pur lasciando spazio alle generazioni successive, anche col desiderio, senza presunzione, di dare qualcosa di vivo a chi cresce dopo di noi. Consentire al diminuire è accettare di stare al margine, di tacere un po' (se ci riesci…), di lasciar fare a chi viene, di continuare a imparare, di cambiare i propri schemi. Michele Do lo ha fatto: ogni incontro con lui, fino agli ultimi, era un ricevere vita da uno spirito vivo.

L'ultimo De senectute è quello di Bobbio, ma è pensiero di tutti. Si leggono sia elogi che disprezzi della vecchiaia, ed entrambi ci lasciano perplessi. Il timore più grande non è la morte, ma la malattia lunga e la decadenza. Il maggiore desiderio è conservare la dignità e il rispetto, tanto più in questi tempi di cambiamenti vorticosi. La sapienza popolare, in tutte le tradizioni, se ne è presa cura: «Anche se perdesse il senno, compatisci tuo padre e non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore» (Bibbia, Siracide 3,13). Quando l'evoluzione culturale era lenta o lentissima, il vecchio era un tesoro di esperienza a favore di tutti. Oggi resta indietro, come il ciclista che ha bucato. La vita è velocità, e la lentezza è condannata. Se è anche un po' sordo, per lui è solitudine. In alcuni casi si è lasciato che la pandemia ripulisse la società dai più vecchi e deboli. Giustamente si segnala l'emarginazione sociale di chi non ha saputo o voluto imparare l'uso della rete. Fino al cellulare arrivano molti, ma a internet non tutti. Magari l'escluso ne ostenta disprezzo, ma si sente più analfabeta del nipotino alle elementari. È una più grande pena vedere persone intelligenti, colte, a volte anche studiosi e docenti, perdere la memoria e la comunicazione. Il rischio è di tutti ed è sempre molto penoso: troppo difficile consentire interiormente! Conosco un tale che prega Dio contro la propria decadenza chiedendo «vita lunga e morte breve». Lo sa anche lui che è una preghiera un po' pretenziosa.... Ho letto che Jacques Maritain scrisse sulla porta della sua stanza: «Se la sua testa non funziona più lasciatelo ai suoi sogni». L'ho scritto anch'io sulla mia porta. Almeno sognare… Si fa con quel che ci resta, come dice Zanardi.

Ma quel motto di don Michele è triplice: «Diminuire consentendo. Consentire con animo sereno. Distacco appassionato». L'ho incollato sul mio computer. Non solo consentire, ma «con animo sereno». Non da vinti, non con rabbia. Cosa vuol dire mantenere serenità dell'animo acconsentendo a diminuire? Qui finisce lo spazio della pagina. Ci sarebbe anche da intendere «distacco appassionato». Cosa può significare? Chi per caso legge, rifletta, e semmai ne riparleremo.

 




III - Distacco appassionato

Enrico Peyretti

(pubblicato su Rocca 15 settembre 2020)


Di fronte al nostro morire, abbiamo sentito che Michele Do proponeva: «Diminuire consentendo. Consentire con animo sereno. Distacco appassionato». Già lette, in questa rubrica, le prime due espressioni, provo ora, timidamente, ad ascoltare la terza. Che cosa può voler dire “distacco appassionato”? Sarà un distacco, anche uno strappo, forse tragico, forse lungo e penoso. Non illudiamoci che sia sempre un passaggio liscio. Eppure, diciamo no ad una religione che esalti il distacco, la rinuncia sacrificale, il culto del dolore, l’abbandono di questa vita come un rottame. Questa vita mortale ci piace e ha valore. Prima di ogni prodigio, la vita stessa è un miracolo. La sopravvivenza è il primo lavoro continuo di ogni vita. Difendere la vita, in tutte le sue espressioni, è il primo compito morale, culturale, politico. Non sarà facile morire: ne soffriremo. «Mi dispiace tanto morire!», diceva negli ultimi anni Benedetto Calati, grande monaco, che alla fine mormorava: «Andiamo in pace». Svalutare la vita non è una buona accoglienza della morte, ma un falso coraggio per un passaggio difficile. Non sarebbe gratitudine e rispetto per la vita ricevuta. Si dice che la madre di Leopardi quasi si rallegrasse per i bambini che le erano morti piccoli: «Ho un altro angioletto in cielo per me!». Così, è un’indecenza osare di abbellire la morte come atto di conquista autodistruttiva: la “bella morte” fascista e guerriera. Invece, il distacco ci costerà. E quando la morte è inflitta, è il massimo orrore. Nella mia città c’è un bellissimo grande parco della Rimembranza, dal 1925, a celebrare la disastrosa vittoria del 1918. Su piccoli cippi di legno si leggono i nomi dei 4.800 caduti torinesi, fatti morire per superbia statale e poi “onorati”, cioè ulteriormente offesi, con l’oscena retorica dannunziana nel monumento alla Vittoria. Morire può essere un generoso fare spazio ad altri, ma ci costerà. Cerchiamo che il nostro morire non sia un freddo lasciare ciò che finisce, ma senta la sofferenza di una perdita, insieme a una tensione appassionata verso ciò che può venire. Che cosa può venire? Sempre, in tanti modi, l'umanità ha pensato (immaginato, sperato, anche disperato o negato) la nostra vita come avvolta in una più grande vita, di cui siamo parte: le energie dell'universo, i regni minerale, vegetale, animale, l'intero cammino dell'umanità, il mondo spirituale: prima e dopo di noi. Possiamo in tanti modi coltivare una passione per l'ignoto che supponiamo, una tensione in ascolto e desiderio se mai ci sia un paesaggio mai visto, di là dal colle, una patria sconosciuta. Che il distacco sia dunque appassionato, e non rinunciatario. Ogni passione è patire una mancanza e desiderare una bellezza. Se questa vita non ha passioni è già morta. Che la vita arrivi ricca di passioni a quel limite: ogni passione è viva, attiva, pur nella sua povertà. Se la vita fosse ricca senza limite non avrebbe desiderio di nulla (il progetto transumanista rischia questo): poiché è povera e finita, desidera ogni bene. Platone ha parlato così di Eros, che non è opposto al Bene, ma cresce fino a cercarlo, oltre se stesso. Il desiderio vede una porta nel muro. Chi ascolta l'evangelo di Cristo sente che la vita eterna, senza caduta, è già nel seno di questa vita caduca, e nascerà in un distacco, come avviene nel parto: perdita e inizio, caduta e nuovo cammino, uscita da un tempo chiuso ed entrata in una via aperta. Siamo nati perdendo nostra madre, in una specie di morte feconda. Molto perderemo, e la verità della vita emergerà, come nel grido del neonato, il primo di tanti respiri. Un respiro che un giorno cesserà, ma avrà alimentato vita, col perdere e col trovare. «Facciamo cose che meritino di non morire», diceva Michele Do, e forse così lasciamo nascere in noi, oltre noi, cose vive, più vive di noi ora. Se un Vivente-più-vivo-di-noi avvolge come una madre questa nostra vita nel tempo, staccarsi da questo tempo non sarà un cadere nel vuoto.


 

II - … con animo sereno

Enrico Peyretti

(pubblicato su Rocca 15 agosto e 1 settembre 2020)


Seguendo quel trinomio che Michele Do proponeva a se stesso, in età avanzata, nell'avvicinarsi della morte, abbiamo già cercato di intendere “diminuire consentendo”. Proviamo ora ad ascoltare il “consentire con animo sereno”, cioè non passivo e ostile. (Poi verrà “distacco appassionato”). Serenità o turbamento dicono stati del nostro animo con immagini del cielo, limpido e luminoso, oppure oscurato, minaccioso. Siamo parte della natura, e in essa ci riflettiamo per esprimere l'intimo nostro. L'animo è sereno quando può guardare alla realtà, al tempo che scorre, anche alla morte che verrà, senza essere oppresso dalla mancanza di luce. La luce è il primo respiro sia degli occhi nostri sul mondo, sia delle più profonde condizioni del nostro essere, sia dell'esistenza stessa dell'universo che ci contiene. È un grande bene la serenità intima di un animo che gode di una luce sufficiente. Ci affanniamo per mille cose, ma più di ogni bene e della stessa salute fisica, desideriamo serenità: l'animo come un lago vivo e tranquillo, un prato luminoso, abitato da buone compagnie, da relazioni positive, un ambiente in discreta pace. Quel che più ci turba, e ci sembra una morte, è l'agitazione profonda, le ferite intime, il deserto attorno, la solitudine non scelta, il futuro oscuro. Ora, ci chiediamo se si può essere sereni pensando al nostro inevitabile morire. Sappiamo solo che verrà, ma non quando (il tempo lo avvicina) né come. È un bene la lunga vita, ma la pretesa di rimuovere indefinitamente la nostra mortalità, come fa il paradigma tecnicistico del trans-umanesimo, è probabilmente stoltezza. Di tutto, anche della pandemia, possiamo farci una facile immagine ottimistica: “andrà tutto bene”. Ma del morire? È desiderio molto profondo immaginare le condizioni migliori per riconsegnarci alla natura: senza dolore, col conforto di cura e affetti, in pace con la vita vissuta. Ma temiamo la morte angosciosa. Da sempre, nell'umanità, le religioni e la saggezza hanno soccorso gli umani in questo timore, proponendo una visione del nostro morire almeno sopportabile, verso una quiete senza pena. La morte è vista come momento naturale della vita, sensata nella sua limitatezza, specialmente se lascia qualche buona traccia. Oppure può essere l'ultimo lavoro (travaglio), come il nascere, come la fatica di valicare un colle. Quando la tempesta batte qui, una linea di sereno può aprirsi all'orizzonte. Le religioni discese da Abramo osano accogliere la morte come un passaggio ad un'altra forma di esistenza, come incontro con un Vivente-più vivo-di-noi, che ci accoglie, come all'inizio ci ha dato vita. Più come severo giudice, secondo alcune immagini, più come padre accogliente secondo altri accenti: in entrambi i casi, la morte non è una caduta nel nulla. Si intuisce questa nostra vita come un tale miracolo, una realtà così nuova, chiamata ad essere unica, che non può scomparire. Purtroppo, per secoli, il discorso religioso sulla morte (mi limito ora al cattolicesimo) è stato più pauroso che fiducioso. Con l'arma della paura, la minaccia dell'inferno, la chiesa ha dominato le coscienze. Vendeva cara la serenità, da comprare con la sottomissione alle sue regole e al suo potere salvifico. In una spiritualità cristiana più seria, più umana, più evangelica, il pensiero della morte non suscita paura di Dio e del suo giudizio, chiede certamente vigilanza e serietà, ma soprattutto fede nella promessa di un Vivente che ci accoglie in un respiro totale. Gesù, l'uomo che più di tutti ha vissuto in se stesso la presenza piena dello Spirito divino vitale, ha promesso «vita eterna» a chi s'incammina sulla sua via buona. Egli è stato colpito da un rifiuto feroce e mortale, ma possiamo sentirlo presente, più vivo del male potente. In ogni caso, il nostro animo, pur sospeso su quel passo che ci attende, può invocare e sperare una serenità non banale da chi ci consegna una vita di luce.

lunedì 9 novembre 2020

 

A cosa serve?   19 04 01

A che serve la poesia? Vecchia domanda. Che cosa è? È tutto il gran lusso superfluo dell'arte. I ricchi la comprano, credendo di potersene servire. Re, papi e imperatori hanno comprato arte, e, al di là delle loro intenzioni di fregiarsene (salvo casi eccezionali di potenti intelligenti), l'hanno aiutata, favorita, sostenuta, alimentando artisti. L'arte è più ricca di loro, perché non si chiede che cosa può e che cosa vale. È, e basta. Si tocca l'arte quando si è più di quel che si è. C'è arte nel disegno di un bambino, anche nei più goffi tentativi, come se io mi mettessi a disegnare. C'è bellezza in un sasso sulla via, senza il quale non c'è la bellezza del Cervino. Dal disegno di un bimbo, fino alle opere che vivono millenni, e fanno vivere. Sappiamo che c'è differenza, certamente. Differenza entro uno stesso fenomeno. Ci sono varie teorie, eccome, sull'arte. L'importante è che è inutile, non serve. Perciò è necessaria come il pane. Tanti lo hanno già detto. Ma tanti continuano a chiederselo, a non saperlo. La cultura non si mangia, indimenticabile detto di un ministro di governo. Infatti, l'umanità degli esseri umani non si mangia. Eppure servono, le opere d'arte. Servono a dire che non tutto serve. A dire che c'è libertà, e che nulla è più necessario della non-necessità. Tutto comincia lì. Questo è il bello.

e. p.



 

La guerra a papa Francesco   19 09 12

Quale dio


C'è un dio inventato da noi, che somiglia troppo a noi. Domina, comanda, sceglie e scarta a suo capriccio. Ingiudicabile, giudica e condanna. Oppure premia e beatifica chi piace a lui. Forse è un altro nome del destino cieco, del caso oscuro. Dà la vita e dà la morte. Padre-padrone, così alto e lontano, che non sai se è protettore o nemico. Averne paura, è la prima convenienza. Così, l'abbiamo adorato, l'abbiamo servito e pagato. Per lui ci siamo svenati, abbiamo tradito per lui il valore della nostra vita, fino a distruggerla per piacere a lui: sacrifici di sangue, prima dei nostri primogeniti, vita nostra, poi di animali, poi della gioia di vivere. Ma era il dio che volevamo, adatto a noi, che, per paura di vivere, ci disprezzavamo per esser nati (infatti, - tiè! - sei nato colpevole del peccato di Adamo!). Così, o uccidevamo gli altri (odio privato o guerra santa, è la stessa cosa, in nome dell'assoluto), oppure umiliavamo noi stessi per farci servi del Potentissimo, ipostasi delle oscure forze ctonie, o astrali.

C'era pure un mistero tralucente nuova luce, ma abbiamo trovato più sicuro consegnarci a servire la forza di quel dio sicuro e oscuro. Uomini fieri, donne ribelli, ci hanno deriso. Noi li abbiamo compatiti, o condannati, o commiserati, come perduti, fuori dall'ombra di quel nostro dio. Del quale siamo anche andati superbi.

Ma c'è un altro Dio, che ci sorprende, perché troppo imprevisto, troppo diverso da noi, troppo nuovo, irregolare. Un Dio che ama ingrati e cattivi: «Prestate senza sperare restituzione, e allora sarete figli di Dio, che è buono anche verso gli ingrati e i cattivi» (vangelo di Luca). Un Dio che gioca in perdita: preferisce che ci amiamo tra noi al ricevere culto da noi (Isaia 58); si fa solidale a noi nel dolore; non solo avvicina, ma si immerge carnalmente nella nostra umanità, e sfida le religioni di quell'altro dio. Al contrario di costui, questo Dio-sorpresa sceglie gli scartati del mondo. Se per un attimo ci apriamo all'ascolto della sua parola sconcertante, che filtra dovunque tra gli spiriti umani più fini, una cosa nuova cresce in noi. Il nostro male, la nostra malvagità meschina non ci spaventa più, perché l'Innocente si è fatto solidale con noi colpevoli: sulla croce della nostra condanna, scopriamo che lui è inchiodato nella croce accanto, e ci dice parole di vita pura e liberata.

Il suo profeta, tra altri profeti, che, nella nostra esperienza, ce lo porta più vicino, più incredibilmente intimo, è per noi Gesù di Nazareth. «Quando al “tu devi” corrisponde un “non posso” creaturale, questo diventa un appello irresistibile di cui il Dio vivente si fa carico, e “la giustizia diventa grazia, l'inesorabile misericordia”. Allora, il Regno è già qui e ora, il banchetto è “per tutti”. La parola profetica si fa carne: entrare nel Regno diventa aderire quasi fisicamente a questa persona» (Pier Cesare Bori). Per altre vie spirituali, nella “pluralità delle vie”, il Dio vivente arriva a tanti altri.

Questo altro Dio emerge lentamente nella coscienza che generazioni e generazioni hanno registrata nella Bibbia e in altri testi venerati. La sua immagine rimane a lungo confusa col dio padrone duro, e se ne libera lentamente, anche attraverso profondi conflitti spirituali, evoluzioni faticose, rischiose. Conflitti che durano anche oggi, anche dentro la tradizione aperta da Gesù: tra i suoi discepoli c'è ancora il virus del vecchio dio, perché credere al Dio di Gesù dà troppa libertà e troppa responsabilità. Obbedire è più comodo che creare, dare inizio, assumere iniziative.

Nelle chiese che si richiamano a Gesù c'è questa battaglia, ci sarà a lungo, perché camminare stanca, viene la voglia di fermarsi, tornare indietro al sicuro.

La “guerra” a papa Francesco, la guerra alla riforma evangelica e teologica del Concilio, guerra che cardinaloni e politiconi e ricconi e paurosoni (guardiamoli con pietà e misericordia, ma combattiamoli) fanno al papa evangelico, nasce tutta dal dilemma interiore, che si combatte, a ben guardare, anche nell'intimo di ognuno di noi, tra quel dio di morte, immobile, marmoreo, e questo Dio di vita, che sfugge alla presa, come la vita vera; «più intimo a noi della vena giugulare».

e. p.


 

Per un compleanno (è su il foglio n. 465, ottobre 2019)

Noi diciamo “compleanno”, cioè: “hai completato un altro anno; ce l'hai fatta; avanti!”. E ti facciamo gli auguri, insieme ai complimenti, perché tu possa campare ancora, e anche meglio: “Ad multos annos!”.

I tedeschi e gli inglesi dicono “giorno della nascita”, cioè natale, quello che noi diciamo solo di Gesù di Nazareth. Quella tua data annuale è il tuo natale. È festa perché sei nato. Non c'eri, eri niente, e poi sei nato. Ma questo è straordinario. Non è tanto che sei sopravvissuto, seppure invecchiando, un anno ancora, un anno in più. Lo straordinario è che sei nato. Sei comparso dal nulla. Certo, biologicamente lo sappiamo bene: i gameti dei tuoi genitori. Ma di te anche loro non sapevano nulla: potevano desiderare un figlio, una figlia. Ma del tuo intero essere, di persona unica, nessuno poteva sapere, prevedere nulla. Nessuno è uguale a te, né prima, né dopo.

L'origine è mistero. Non ti appartiene. Tutto il seguito, il concepimento, i nove mesi, la prima poppata, il primo passo, fino ad oggi, tutto questo sei tu. Ma la tua origine non sei tu. Tu sei e resti mistero, prima di ogni possibilità di dire. Ogni origine è unica, assoluta, e tutte le origini sono origini, di una stella come di una formica. Il fenomeno è afferrabile, l'origine no.

Noi non possiamo risalire alla nostra nascita, all'origine, o – se volete – all'Origine. L'origine ci è data. Noi siamo dati, dati a noi stessi, e all'esistenza. Siamo creati, dice la tradizione, quindi siamo creature, contingenti, per nulla necessari. Poi siamo anche noi creatori, aggiungiamo realtà, agiamo e mutiamo, cambiamo le cose, e noi stessi. Possiamo fare mille cose, eccetto la nostra origine. Questo ci segna essenzialmente.

Raimon Panikkar dice che questo fatto è la fede di tutti, che coincide con la vita, con l'esistenza. Respiriamo e viviamo perché ci affidiamo a quel fatto unico, primo, che è il nostro essere fatti, il nascere. Qualunque cosa facciamo, noi poggiamo su quella base tutta previa, ci fidiamo, ci consegniamo continuamente ad essa. Non sappiamo dire cosa sia. Sappiamo dire che appare quando appariamo noi, anche se non possiamo risalire a vederla, a toccarla.

Solo se abbiamo una vita così disgraziata da maledirla, come Giobbe - “Maledetta la notte che ha detto: è stato concepito un uomo!” - solo allora (forse) non abbiamo fede. Se nel prossimo minuto continui a respirare, tu hai fede nella vita, nell'origine della tua vita, nelle possibilità positive di quell'evento che ti ha estratto non tanto dall'utero di tua madre, ma dal nulla che tu eri. Se lotti per galleggiare sopra la malasorte, per sopravvivere, per un po' di felicità, è perché credi nella tua origine. La puoi chiamare in tanti modi: Dio, la natura, il caso, l'evoluzione, l'ātman, il brahman, come pensi tu, con il linguaggio in cui sei nato o arrivato. In tante lingue e visioni dici una radicale gratitudine di cui sei fatto, che è il tuo fondamentale fatto vitale. Sei vivo perché credi nella tua origine e nello sviluppo di quel mistero. La scienza che vede e tocca, parla del seguito, ma quell'inizio è mistero, quel silenzio che precede la parola, quel terreno invisibile della parola, del tentativo di dire ciò che non si poteva dire, non si sapeva dire. Abbiamo e non abbiamo la nostra origine.

Questa fede coincide con la vita, prima di essere detta con una parola, una immagine, una credenza, una storia, un simbolo, ed è fede universale. Tu non lasciare che lottino tra loro le tante diverse parole umane che cercano di dar nome a quello zampillo originario che è in te, a quella assoluta sorpresa, origine mai vista, che sei tu. Lascia che sia detto e pensato in tanti modi: le vie per guardare lontano, all'ultimo - o al primo - orizzonte, sono tante, e tutte mormorano un tentativo, e nessuna lo afferra, nessuna lo de-finisce. Vie gloriose delle sapienze umane, e tutte vie balbettanti.

Festeggiamo il tuo compleanno, il tuo natale, la tua origine, che di nuovo ci sorprende, anche se sei già carico di anni. E non allontaniamoci, non allontanarti tu dalla tua nascita. Cammina oltre, dovunque puoi, ma non allontanarti da là. Là tu sei, dovunque tu vada. Là, nell'origine, tu consisti, qualunque singola unica persona tu sia diventata in seguito. Tu, come me, come tutti, sei quell'origine, eppure tu non puoi afferrare e tenere in mano quel tuo inizio. Siamo tutti al contempo ricchi e poveri di quella scintilla creatrice, sorta da un campo di mille origini, una dall'altra, eppure ognuna unica e nuova. Tu sei solo tu, ma non sei assolutamente solo tu. Tu, io, tutti siamo figli. Dunque, anche fratelli e sorelle. Stiamo cercando chi siamo, anche dopo tanti compleanni. Se siamo fatti di origine, di inizio, di aggiunta, di nuovo, e se abbiamo proseguito ad aggiungere, a dar vita, ad essere vivi, se è così, che cosa ancora si compirà di questa sorpresa che è la vita?

(e. p.)

 

Un'idea per la sinistra  (2019 10 30)

Già, un'idea. Pare che ci voglia, per proporsi in politica. C'è anche chi ne fa a meno: propone una faccia, una maniera di fare, un “cambiamento” (per dove? su quale binario?). Un'idea non si improvvisa. Deve venire da lontano, ed anche essere attuale, presente, deve guardare al domani. Deve toccare dentro, evocare qualcosa di profondo. Anche l'orgoglio nazionale e razziale tocca nel profondo, ma quale profondo…

Parliamo di un'idea per la sinistra, non una idea qualunque. Dicono che non ha più senso destra e sinistra. Invece sì. Io sto con Bobbio: «Ritengo che il politico di sinistra deve essere in qualche modo ispirato da ideali, mentre il politico di destra basta che sia ispirato da interessi: ecco la differenza» (dall'intervista "Che cos'è la democrazia?", Torino, Fondazione Einaudi, 28 febbraio 1985). «La differenza [fra sinistra e destra] è fra chi prova un senso di sofferenza di fronte alle disuguaglianze e chi invece non lo prova e ritiene, in sostanza, che al contrario esse producano benessere e quindi debbano essere sostenute. In questa contrapposizione vedo il nucleo fondamentale di ciò che è sinistra e di ciò che è destra». «Sarei tentato di dire che la distinzione va al di là delle semplici idee politiche, è un elemento quasi antropologico» (AA. VV. La sinistra nell’era del karaoke, I libri di Reset, Donzelli 1994, p. 51 e p. 47).

Tutto cambia, ma niente cambia nel fondamentale. La politica non è meccanica, ma etica, se è l'opera della convivenza umana. Guardiamo indietro, lontano. «Tutti gli uomini hanno un animo sensibile all'altrui sofferenza. (…) Non sono uomini [cioè, non vivono a livello umano] quanti sono privi di animo sensibile ai sentimenti della partecipazione e della compassione» (Mencio, filosofo confuciano, IV-III sec a. C.) «Il sentimento dell'umanità si esprime nel “non sopportare le sofferenze altrui”» (Cfr P. C. Bori, Per un percorso etico tra culture, Carocci 2003, p. 59). Non è forse, quello di Mencio, lo stesso pensiero di Bobbio sulla differenza etica in politica? Possiamo vedere altri testi etici, attraverso i tempi, che Bori ha raccolto nell'antologia citata, a seguito del lavoro teorico Per un consenso etico tra culture, Marietti 1995.

Certo, ci sono momenti in cui la politica deve conservare il presente, pur difettoso e carente, o ingiusto, e difenderlo da pericoli maggiori. Ci sono tempi e luoghi in cui la vita di una società è sottomissione ad un potere oppressivo e violento: chiamiamo politica anche questa, ma è politica?

Il progresso umano, l'umanizzazione delle relazioni sociali, è una dinamica, anche faticosa e accidentata, ma diretta ad un obiettivo, un orizzonte che guida l'azione. Senza un obiettivo umano, la politica è un potere contro la vita comune. Un'istanza radicale, l'anarchia etica, disconosce le istituzioni politiche in quanto tali. Una continua ricerca etico-politica vuole e spera che anche le istituzioni realizzino migliore umanità. La modernità, con le sue rivoluzioni, pur con gravi contraddizioni (p. es. il cosiddetto “socialismo reale”, ovvero il comunismo sovietico, ed ogni altra forma oppressiva, fino all'oscura tecno-finanzo-crazia), ha mirato ad un modello più umano. Vi mira ancora?

Riferendosi alla rivoluzione per eccellenza, quella francese, Jean-Paul Sartre, poco prima di morire (il 15 aprile 1980), completava la terna emblematica Liberté, Égalité, Frtaernité. Cercando «un'idea per la sinistra», prendeva proprio il terzo termine, il più dimenticato, e così lo completava: «fraternité sans terreur». La rivoluzione francese completata, senza la fase del Terrore e della restaurazione imperiale (lunga intervista su Repubblica, 13-14 aprile 1980, data a Benny Lévy, da Le Nouvel Observateur, marzo 1980).

Dunque fraternità: «La fraternità non è un mito: è il rapporto della società tra i suoi membri». «Le persone hanno un rapporto primario, che è appunto il rapporto di fraternità». «Due uomini che parlano tra loro hanno la stessa madre». Ma Sartre aggiunge l'esclusione del Terrore, della violenza.

Egli non matura il pensiero fino alla proposta-esperienza della forza nonviolenta gandhiana, ma è questa, nel pieno del Novecento orribile, la rivoluzione nuova, e Sartre la intravede e la propone alla sinistra. È l'idea che permette di pensare e volere libertà e uguaglianza insieme a rapporti e istituzioni di pieno rispetto della pari dignità degli umani, senza alcuna violenza sociale, e qundi in realizzazione dei diritti, nei reciproci doveri. Le dichiarazioni e le costituzioni dopo i fascismi lo dichiarano, ma l'attuazione è contrastata e si direbbe persino smarrita. Un'idea per la sinistra è questa. L'art. 3 della nostra Costituzione è in questa liena, dimenticato come la Fraternité. Ecco il compito della sinistra, per scartare la nuova minaccia fascista.

Enrico Peyretti, 30 0tt0bre 2019

 

20 11 01 - Seconda versione

LIBERTA’ DI PAROLA, DOVERE DI RISPETTO

2650 caratteri


Nell’attacco di musulmani fanatici alla Francia illuminista, non c’è bisogno di dire che non c’è paragone possibile fra le vignette offensive e l’uccisione di persone: l’offesa delle stragi è infinitamente più grave di quella delle vignette.

All’origine della fase recente, sul terreno scivoloso dell’immigrazione senza integrazione, e della compresenza di culture senza cultura del pluralismo, stanno le vignette di Charlie Hebdo, irridenti Muhammed e l’Islam, con le risposte violente e il clima di terrorismo.

Il reale conflitto è tra due valori: libertà di parola e dovere di rispettare e non offendere. Non c'è legge che possa stabilire una gerarchia tra questi due valori uguali. Entrambi devono stare insieme. La questione non è teorica, né giuridica, ma di saggezza pratica. Occorre un discernimento sapiente, prudente e buono, con responsabilità delle conseguenze.

Mi pare che oggi sia alla Francia liberale sia ai musulmani fanatici, in maniera estremamente diversa, manchi questa virtù, necessaria per vivere in pace e giustizia.

La libertà assoluta di parola, di immagine, di derisione, che la Francia ferita rivendica per la propria tradizione, non giova alla pace e alla giustizia, non giova al superamento della violenza, non rieduca i fanatici. Una “visione quasi religiosa della Repubblica”, quella parte della tradizione repubblicana che ammette “il diritto alla blasfemia” (così scrive Anthony Smarani, giornalista libanese, Internazionale, 30 ottobre, pp. 43-44), non giova né alla convivenza plurale in Francia, né a vincere il fanatismo religioso islamico.

Calmando le polemiche esasperate, dobbiamo dire che quel discernimento sapiente e buono, quella composizione di libertà e rispetto, con responsabilità delle conseguenze, è la virtù civile oggi necessaria. La libertà di parola è regolata dalla giustizia, cioè dal dovere di non offendere. Ogni persona va rispettata, prima e indipendentemente dalle sue idee. Tutto si può criticare, ma il disprezzo non promuove civiltà e convivenza, non modera e non educa il fanatico, non accresce conoscenza né intelligenza, non costruisce civiltà interculturale. Tanto più questa saggezza civile e politica è necessaria di fronte a chi, in condizioni di debolezza culturale ed eccitazione strumentale, risponde con la violenza anche estrema.

Noi cristiani abbiamo offeso e perseguitato gli ebrei, con una immagine caricaturale e maligna della loro civiltà morale. Abbiamo fatto guerre sante ai musulmani, abusando del nome di Dio. Oggi ci stiamo correggendo. L’orgoglio europeo non conosce davvero l’Islam, la sua spiritualità e cultura, ne ha un’immagine da colonizzatore. Non è giusto e non conviene a nessuno.

Enrico Peyretti, 1 novembre 2020



 

20 11 06 [ Versione migliorata ] Incanto e disincanto

Si parla di disincanto per dire la scristianizzazione, e in generale l'uscita dall'illusione religiosa, dalla religione come illusione, quindi la desacralizzazione della società. Cerco in Google alla voce "disincanto" e trovo: <<Liberazione da, o cessazione di, uno stato d’incantesimo; condizione di chi è ormai privo d’illusioni: ormai pensa al passato con disincanto>>

Dunque, uscita da un "incanto". Quando avviene che ci “incantiamo”? che cosa ci incanta? “Incanto” viene definito etimologicamente anche come invocazione di mali spiriti, per dominare un soggetto, mediante canti, canzoni, cantilene magiche. Il soggetto incantato è ammutolito, la sua voce e la sua ragione libera è tacitata dagli effetti di un'altra voce dominante, con poteri nuovi e segreti, che lo "incanta".

Così, la "vendita all'incanto", alcuni la spiegano col latino "in quantum?", cioè: “fino a quale prezzo” offri? Non so valutare se sia una etimologia fondata.

Però c'è un altro significato di incanto: io resto incantato davanti ad una eccezionale bellezza, della natura, o di una persona fisica, o di un'opera d'arte, di una musica. Resto incantato, cioè ammutolito: taccio. Oppure canto, parlo un linguaggio che non avevo, che non fa parte della vita normale, quotidiana. Non sono passivo, ma molto attivo nel recepire quella bellezza, che mi sovrasta beneficamente, questa volta, non maleficamente come nell'incantesimo dominante. Ora sono incantato, nel senso che non ho più da chiedere altro, ed esulto, sono saziato nei miei più alti desideri, non mi muovo perché non ho più bisogno di nulla. Ho già tutto. Non sono dominato, ma liberato, portato ad identificarmi con un valore di bellezza.

Si tratta di quella "attenzione" (Simone Weil) per cui tutta la bellezza e la verità in questo incantesimo vengono a me, indipendentemente da altre loro manifestazioni, ad altre persone, o a me in altri momenti. Per cui Simone arriva a dire: "Ogni religione è l'unica vera", come ogni quadro di grande bellezza è tutta la bellezza per me, mentre lo ammiro. Non nego altre bellezze, ma non ne cerco altre. L'ammirare sostituisce la parola: nell'ammirare taccio, ma ho udito e visto, ho risposto, ho comunicato, ho cantato.

Allora, incanto, disincanto, non sono solo un inganno o una liberazione dall'inganno: l'incanto può essere una vera esperienza di vita, di valori della vita; e l'uscire da questo incanto cercandone uno più luminoso è pure una esperienza positiva, di ricerca, di nuova luce, non di annullamento.

Per tornare al punto iniziale: le religioni sono illusioni, o esperienze di qualche valore? Per l'una o l'altra persona, possono essere l'una o l'altra cosa. Non sono certezze afferrabili e inoppugnabili. La stessa bellezza artistica può incantare te e non dire nulla a me. Ma nemmeno possono essere identificate, le religioni, come pure e semplici illusioni. La famosa frase di Marx, "la religione è l'oppio dei popoli", può signficare che è molto utile per addormentare la coscienza del popolo e dominarlo meglio; e può significare anche - diceva Ernesto Balducci - che il popolo oppresso e sofferente si anestetizza il dolore con l'oppio, per soporavvivere, ma quindi reagisce, agisce, ha una volontà.

La consapevolezza di una unità di significato in tutta la realtà, che mi permette di viverne con un senso tutti i momenti, e non subirne alla cieca i casi, e di inserirmi personalmente attivo in questo significato, questa consapevolezza è illusione o realtà? La verifica sarà nell'esistenza. Se in quella religione senti più sensata la tua vita, con uno scopo positivo, allora sei "incantato" (nel senso migliore) da questa verità e bellezza. Se non fai questa esperienza positiva, ti liberi da quella proposta religiosa e cerchi un significato più valido della tua vita. Sarai disincantato da una illusione non valida per te, ma potrai forse rinunciare a cercare un significato, possibilmente una bellezza, che ti appaghi? Chi non rinuncia, e non si appaga di poco, cerca una luce incantevole. Se sei vivo hai diritto a vivere. Il desiderio è seme di luce.



E. P.

domenica 8 novembre 2020

 

Bori commenta Simone Weil: «Ogni religione è l'unica vera»
di Enrico Peyretti (Centro Studi Sereno Regis, www.serenoregis.org , Torino)

maggio 2019

Inviato su richiesta il 25 maggio 2019 a <daniela.deleo@unisalento.it> direttrice della rivista del Salento “Rivista scientifica Segni e Comprensione”.

«Ogni religione è l'unica vera»: su questa formula provocatoria di Simone Weil, scrisse un saggio importante Pier Cesare Bori (1937-2012), l' intraprendente e acuto studioso dell'universalismo religioso e culturale. 1 La formula è scelta da Bori come insegna di quell'universalismo che, per Simone Weil, è un imperativo del tempo presente. Per Bori, la Lettera a un religioso permette anche di vedere quale sia il cristianesimo della Weil.

«Ogni religione è l'unica vera» si legge in un Quaderno del 1941, in polemica contro l'«ortodossia totalitaria della Chiesa», che è «mancanza di fede», scrive la Weil. «Ogni religione è l'unica vera, nel senso che, nel momento in cui la si pensa, è necessario applicarle così tanta attenzione, come se non vi fosse nient'altro». 2 Allo stesso modo, ogni paesaggio, ogni poesia, ogni bellezza è l'unica, è tutta la bellezza, se vi poniamo l'attenzione piena. Al contrario, «la “sintesi“ delle religioni implica una qualità di attenzione inferiore», dice con riferimento a quegli esperimenti, che vanno dalla gnosi antica, al Rinascimento, fino a Tolstoj. Nell'attenzione l'oggetto diventa unico. Una cosa perfettamente bella, è l'unica bellezza. Ogni oggetto è unico.

Oggi l'universalità deve essere esplicita, nel linguaggio e nella maniera di essere (è questa la vocazione culturale di Bori, che ne trova belle radici anche nella Weil). Il comandamento dell'amore è anonimo, perciò universale. L'universalismo non è una superlingua. Cambiare religione è come cambiare lingua per uno scrittore, e può essere funesto.

Viene a proposito un confronto con Gandhi, che, contrario ad ogni proselitismo, ammetteva il cambiamento di religione come approdo spirituale autonomo, ma esortava ciascuno ad approfondire la propria fede per giungere alla «vera Religione», a quel centro comune di tutte le fedi, che sono tutte vere perché hanno ognuna un punto di vista sulla verità. Del cristianesimo e dell’islam Gandhi diceva: «Considero tutt’e due le religioni ugualmente vere quanto la mia. Ma la mia mi soddisfa pienamente (...). La mia costante preghiera è pertanto che il cristiano e il musulmano diventino un migliore cristiano e un migliore musulmano».3

Per la Weil, la religione cattolica contiene esplicitamente verità che altre religioni contengono implicitamente, e queste contengono esplicitamente verità che nel cristianesimo sono soltanto implicite. Il cristiano meglio istruito può imparare molto sulle cose divine anche da altre tradizioni religiose, sebbene la luce interiore possa fargli percepire tutto attraverso la propria tradizione. E tuttavia, se le altre religioni sparissero, la perdita sarebbe irreparabile. «I missionari ne hanno già fatte sparire troppe», scrive la Weil al religioso cattolico al quale confida le ragioni per cui quando legge il vangelo sente che quella fede è sua, ma quando legge il Catechismo del Concilio di Trento le sembra di non avere niente in comune. Perciò non volle il battesimo, pur sentendosi sulla soglia della chiesa cattolica.

Simone Weil cercava di aprire il cristianesimo dall'interno attraverso la lettura simultanea di fonti cristiane e non cristiane. L'indologo Max Müller (che forse influì su di lei) osservava che per ognuno la religione è come la lingua materna, né eguale né rivale di altre lingue, ma da vedere come parte di un vasto insieme. Per vedere bene il cristianesimo nella storia universale, tra le religioni dell'umanità, bisogna paragonarlo non solo con il giudaismo ma con le aspirazioni religiose del mondo intero.

La Weil vede una identità profonda, essenziale, tra le religioni, al di sotto della differenza linguistica, come vede Gandhi. Essa si riferisce a Giovanni 1,9: «... la luce che viene con ogni uomo». Lei intende con piuttosto che in. Questo versetto è fondamentale nella spiritualità dei Quaccheri, a cui Pier Cesare Bori aderì nel 1993, pur senza rinnegare la chiesa cattolica di origine.4

Quel versetto evangelico contraddice, per Simone Weil, la teoria cattolica del battesimo. Il Verbo abita in segreto in ogni persona, battezzata o no. È luce, da fuori, che disperde la “tenebra”; ed è seme, innato, che è nesso di continuità tra ordine naturale-creaturale e ordine della grazia, tra Vecchio e Nuovo Testamento. Il cristianesimo può impregnare tutto senza essere totalitario solo se riconosce che la luce naturale è la luce soprannaturale discesa nella natura; che il profano è ispirato dal sacro; che l'arte, la bellezza, discende ed è mossa dalla fede. L'illuminazione è necessaria e sufficiente, anche se non è necessaria l'identificazione della luce del Verbo nel Gesù storico, attraverso la Chiesa. Si va al Padre solo mediante il Verbo, ma non è necessario dare un nome al Verbo, forse neppure a Dio. Per la salvezza è necessario e sufficiente il Logos, lo Spirito, la Luce, che nasce con ogni uomo. Riconoscere il Cristo in Gesù è frutto del Logos stesso, ma non è necessario che accada per ognuno, e comunque può accadere anche fuori e prima della Chiesa e del cristianesimo.

Troviamo una grande professione di fede di Simone Weil: «C'è una realtà fuori del mondo, cioè fuori dello spazio e del tempo, fuori da ogni portata delle facoltà umane. A questa realtà corrisponde al centro del cuore dell'uomo questa esigenza di un bene assoluto che vi abita sempre e che non trova alcun oggetto in questo mondo». 5 È la luce del Prologo di Giovanni, luce del Bene (come quella che attira fuori dalla caverna di Platone). La conoscenza essenziale, la verità essenziale, riguardo a Dio, è che Dio è il Bene. Tutto il resto è secondario . «Dio solo è buono» (Marco 10,18). Il Bene è al di sopra dell'Essere.

Questo pensiero è talmente contrario alla natura che può sorgere solo in un'anima divorata dal fuoco dello Spirito Santo (idea già trovata nei pitagorici, prima di Platone, che non lo apprende da Mosè). Questa categoria del Bene permette alla Weil di criticare la storia di Israele e la storia cristiana, e lo stesso testo biblico, dove c'è la forza, l'idolatria sociale-nazionale di Israele. In Agostino l'idea del bene dipende da un regime teologico ed ecclesiologico, in Simone Weil invece giudica la teologia, Israele e la Chiesa.

Il suo è un cristianesimo critico. La pietra di paragone dell'armonia tra individui e collettività, tra persone e chiesa, è la situazione dell'intelligenza: «La funzione propria dell'intelligenza esige una libertà totale, che implica il diritto di negare tutto, e l'assenza di ogni forma di predominio». Perciò è necessario un cristianesimo in cui la verità e la veracità non siano subordinate all'adesione religiosa, ma siano esse il principio normativo. Non c'è il cristiano e gli altri, ma solo la verità e l'errore.

Su cristianesimo e veracità, Bori richiama la famosa opposizione tra Dostoevskij (preferire Cristo, più della stessa verità) e Tolstoj, che, nella Risposta al Sinodo, scrive: «Chi comincia con l'amare il cristianesimo più della verità amerà poi la sua setta o chiesa più del cristianesimo e finirà per amare se stesso più di ogni altra cosa». Simone Weil denuncia un «totalitarismo della fede» per cui «l'intelligenza deve essere imbavagliata». I mistici accettano l'insegnamento della Chiesa non come verità, ma come un velo dietro cui si trova la verità. Cioè intendono i dogmi non come teoremi ma come metafore. Ci sarebbe una religione dei mistici e l'altra religione. Le tendenze mistiche, razionalistiche, critiche, attorno al cristianesimo, coprono un'area molto vasta (tipico Spinoza). Bori osserva: «Forse è qui la casa spirituale di Simone Weil, e forse qui occorrerebbe ritornare ad imparare».

Quale universalismo dovrà impregnare il nostro linguaggio e il nostro modo d'essere? Non un universalismo di una sola verità, non di chi non ha radici e passione di verità; ma quello di chi aderisce alla propria tradizione, alla luce che ne trae, mentre riconosce la presenza della stessa luce in altre tradizioni.

Conclude Bori dicendo che Simone Weil si allinea ad altri mistici che hanno trasceso dall'interno il proprio limite culturale. Per esempio Al-Hallaj: «Le religioni sono molti rami di un'unica fonte. Non pretendere dunque dall'uomo che ne professi una, ché così si allontanerebbe dalla fonte sicura». E l'induista Kabir Das : i nomi del Signore sono tutti verità; Egli attira tutti i diversamente devoti, che non osano avventurarsi fuori dal tempio e dalla moschea; Egli non dimora nel tempio né nella moschea: «Egli è presente in ogni cosa e in essi stessi».

Enrico Peyretti



Molte religioni, una sola luce


La verità dai molti raggi

tocca ciascuno

con un raggio appena.

Io sarò fedele

a questo mio

che sia piccolo o grande.

Se invidiassi il tuo raggio

e lasciassi questo

forse cadrei nel buio.

Solamente salendo

sulla scala di luce

nella mia verità

incontrerò la tua.


Vedi quanta pace

con milioni di raggi

stende il sole sul prato

e nessun fiore offende l'altro.

Luca Sassetti

(dal mensile il foglio, n. 190, maggio 1992, www.ilfoglio.info)


1 Bori pubblicò questo saggio in Filosofia e teologia, 8 (1994), pp. 393-403, e in versione ridotta in Testimonianze, 12 (1994), pp. 45-52. Ne parlò in una conferenza a Torino, nel gennaio di quell'anno, della quale resi conto in Rocca, 15 febbraio 1994. Il saggio di Bori esce ora nuovamente, insieme allo scritto di Simone Weil, del 1942, Lettera a un religioso (Castelvecchi, 2019, purtroppo in una edizione spoglia, priva di ogni presentazione sulla filosofa francese e su Bori, e con alcuni errori di stampa, alle pp. 47, 57, 82, 84, 87, 90).


2Simone Weil, Quaderni, II, a cura di G. Gaeta, Milano 1985, p. 153.

3Gandhi, Young India, 4 settembre 1924.

4Cfr Pier Cesare Bori, CV, 1937-2012. Un curriculum sui generis. (Autobiografia scritta negli ultimi mesi di vita, seguita da bibliografia completa fino al 2012), Il Mulino 2012, pp. 128-135

5Nella Professione di fede, scritta a Londra, cfr S. Pétrement, La vie de S. Weil, II, 453 s.