giovedì 7 ottobre 2021

 

6 ottobre 2021 - Alcuni appunti sull'aborto: quando è vita umana?

Ritengo che l'aborto volontario sia in-giudicabile dalla società. Mi pare chiaro, però, che sarebbe sentito da tutti come un triste male il rigetto del concepito soltanto per egoismo, oppure quando è già vicino a nascere, atto più brutto dell'abbandono del neonato sperando che qualcuno lo raccolga, come avveniva, tra disperazione e pietà, nella "ruota" dei conventi.

Ritengo anch'io che la società non possa intervenire (se non altro per evitare mali maggiori) sulla donna nel rapporto così tanto singolare e insostituibile con il concepito.

Ovviamente, l'umo e la donna hanno il dovere di evitare in anticipo, come oggi è praticamente e moralmente possibile, una gravidanza indesiderata.

Eppure, penso che la vita intrauterina (non prima che l'ovulo fecondato si sia annidato nell'utero, e quindi sia cominciata davvero la formazione di un corpo umano) sia veramente una vita umana crescente, vita di una persona umana in cammino.

Anche noi vecchi continuiamo a nascere, nell'utero dell'umanità che ci sorregge, ci nutre, ci porta e sopporta, per un certo tempo, poi ci consegna al tempo, ad altro, forse ad un altro tipo di vita, come tutte le culture umane per lo più hanno pensato. Viviamo sempre da nascituri. La stessa parola "natura", che pare la contrazione di "nascitura", suggerisce l'idea di nascita continua, come propone la teoria dell'evoluzione naturale continua.

Ci dice la psicologia che noi abbiamo tutti memoria profonda e costitutiva, felice o meno felice, di quel tempo vissuto dentro nostra madre, in un rapporto vitale e personale con lei e col suo mondo. E' stato un tempo della nostra vita. La nostra personale umanità, la nostra "persona", è cominciata davvero in quel tempo. Noi siamo nati non solo nel momento di uscire dall'utero e dalla vagina, ma già nella preparazione e desiderio, o timore, di uscire. Le nostre esperienze fisiche e psichiche pre-natali, positive o negative, costituiscono il fondo originario della nostra psiche, sono già un tempo della nostra vita umana. In quel periodo di tempo siamo già persona umana. Quel tempo - mi pare che la psicologia ce lo dica chiaro - costituisce un vero primo tempo della nostra storia psicologica, della nostra personalità in cammino: siamo già soggetti con una iniziale sensibilità psichica propriamente umana.

Mi piace dire che abbiamo tutti nell'ombelico la firma carnale della mamma, memoria del tempo vissuto in lei, cicatrice dell'unità e del distacco, e mi piace vedere d'estate le ragazze che lo portano scoperto, come un punto bello del loro corpo, né vergognoso né esibizionista.

Mi piace anche pensare che abbiamo vissuto, e abbiamo nel fondo della psiche, un trauma simile a quello che sarà il nostro morire: un uscire nel freddo e nell'ignoto, ma non nel nulla. Ci siamo accorti allora, forse con sgomento, oppure con senso di liberazione, di cambiare casa: non siamo nati dopo la nascita, eravamo già vivi, con impressioni umane, che abbiamo ancora dentro. Nascere è un atto della vita, non l'inizio primissimo della vita. Comunque, se abbiamo vissuto e ricordiamo inconsapevolmente ma profondamente quel tempo, eravamo la persona che siamo oggi, che ha vissuto tutto il tempo successivo sulla base di quel tempo, di quei mesi in comunione intima con la mamma, con l'umanità che ci ha preceduto e ci ha accolti e riforniti di vita.

Non sono donna, non sono madre, non ho né concepito, né partorito, né abortito. Non voglio giudicare. Ma sono, come tutti, uno che, dentro una donna, si è progressivamente formato fino ad uscirne, come atto e distacco in un cammino davvero cominciato grazie a lei (e ad un padre) e al suo lavoro, dentro il suo corpo, sul mio corpo e sulla mia psiche.

Il momento in cui il concepito diventa persona umana è, secondo una tesi, il momento in cui sarebbe in grado di respirare autonomamente, se venisse staccato dal corpo della madre. La domanda è: ma prima di questo momento di relativa autonomia vitale, non c'è già una vita psichica di tipo umano, che rimane nel profondo della nostra successiva coscienza?

Anche dopo la nascita, dopo il distacco corporeo, quando ho cominciato effettivamente a respirare da solo, ero ancora incompiuto: e quando sarei compiuto? Oggi, a 86 anni, sono forse compiuto? Nei nove mesi non ero solo un "futuro possibile ma incompiuto", come dice qualcuno: a me pare chiaro che ero un essere umano in formazione. Se ci pensiamo anche oggi come "nascituri", sempre in via di nascere, riconosciamo il nascituro come un vero essere umano. Da quale momento?

Il nostro "nascere" sta essenzialmente nel poter fare a meno fisicamente degli altri perché sappiamo procurarci l'aria da soli? Non è un po' poco?

E mi pare che non valga dire che, nell'utero, non abbiamo vita autonoma, ma completamente dipendente e collegata di necessità alla vita della madre, al suo respiro. Siamo forse vita autonoma dopo la nascita? E' sufficiente avere la capacità di respirare per essere vita autonoma? Per molti mesi e anni, non viviamo neppure fisicamente, e neppure psicologicamente, una vita umana, se altri (la madre o altri) non ci nutrono, non ci toccano come corpo, non ci guardano negli occhi, non ci parlano e non ci sorridono.

Gli psicologi citano il celeberrimo "esperimento" di Federico II «che diede ordine di occuparsi dei bisogni materiali di un gruppo di bambini - nutrirli e pulirli - limitando al massimo ogni contatto fisico, vocale e visivo con essi. Morirono tutti» (cfr Servitium, Il vuoto, n. 253, luglio-settembre 2021, p. 56, nell'articolo "Sul senso di vuoto e di perdersi nel vuoto"). Quei bambini sapevano respirare ma morirono per un altro soffocamento.

Quindi, noi, anche già nati dalla mamma, in realtà siamo ancora nel grembo dell'umanità, indefinitamente: nessuno vive, anche da adulto, se non è "nutrito" dalla relazione umana. Il "respiro" non è solo l'andare e venire dell'aria nei polmoni dell'individuo, ma è - come diciamo abitualmente - la buona o sufficiente relazione vitale con i nostri simili vicini. Il vecchio abbandonato o accantonato come come un rottame, decade al di sotto della vita umana, come un bambino abortito. Il recluso nella solitudine, soffoca, anche se ha buoni polmoni. Lo schiavo schiacciato nel lavoro, non respira. George Floyd, soggetto ad un potere legale violento, è morto di soffocamento fisico, ma anche morale, di offesa alla sua persona assoggetta: «Non posso respirare».

E ciò va detto con tutte le riserve, con tutto il rispetto e il non-giudizio sulle vicende intime e personali-relazionali della donna-madre, in quella formazione così immedesimata nella sua persona. Si capisce bene che la società, e la legge di tutti, ci "veda" solo quando siamo nati, e ci identifichi con la data di nascita, ma noi sappiamo bene, e lo sa ogni madre, che "eravamo" anche prima di nascere. Questo non assolutamente per ristabilire un controllo della legge sociale sulla gravidanza, e sulla donna gravida, ma semplicemente - e non è poco - per sapere, tutti insieme, chi siamo, quando siamo, come siamo, e che siamo tutti e ciascuno nelle mani degli altri, e che c'è un'umanità anche dove non la vediamo ancora.

Non è forse lo straniero, il "selvaggio", l'incapace, per la nostra cecità umana, un non-ancora-nato? Scoprendo l'America noi civili dicevamo che quelli non avevano l'anima, lo spirito, il respiro. Allora davvero siamo noi i "non ancora umani" quanto alla capacità di riconoscimento del volto del "prossimo"! Siamo esseri che hanno bisogno di "rinascere" per diventare umani.

Possiamo vedere nel nascituro-nascente (che siamo tutti) quell' "uomo inedito" di cui Ernesto Balducci ci ha parlato profeticamente? La donna-madre è il simbolo vivo della intera umanità che ci ha concepito e avviato alla vita, responsabili, nei nostri limiti e possibilità, gli uni degli altri, non staccati gli uni dagli altri, vitalmente dipendenti gli uni dagli altri, come il concepito e il neonato dipendono dalla mamma e dalla famiglia umana. Ci aiuteremo tutti, maternamente, a nascere, a continuare a nascere? Siamo tutti madri, gli uni degli altri.

La legge italiana sull'aborto, che anche legislatori cristiani (come Raniero La Valle) hanno contribuito a formulare, non legittima semplicemente l'aborto, ma lo "depenalizza" rispetto alla precedente penalizzazione, inefficace e causa di altri mali. Quindi la legge non istituisce un "diritto" della donna sul concepito (come afferma un femminismo estremo), perché non c'è alcun diritto di una persona su un'altra persona, e semmai un dovere di cura che abbiamo tutti verso tutti. Ma c'è un diritto della donna a non essere giudicata, e ad essere assistita sanitariamente, in questa decisione personale sulla sua intera possibilità di portare a compimento il frutto umano concepito: possibilità che solo lei - ma non lasciata sola in questa responsabilità - può valutare e decidere.

Ricordiamo che Etty Hillesum, donna di altissima sensibilità spirituale, decise di abortire, drammaticamente, nel tempo di guerra, consapevole della vicina deportazione, sapendo di malattie ereditarie in famiglia, per non «aggiungere un altro infelice a quelli che già vivono su questa terra» (Diario 1941-1943, Adelphi 1985, pp. 81-85).

Papa Francesco, recentemente e più di una volta, ha usato un linguaggio che molti hanno giudicato troppo duro verso le donne, per dire sostanzialmente le cose espresse qui. Forse ha dovuto concedere qualcosa alla pressione dei conservatori ecclesiastici duri, quelli della legge superiore alla persona (al contrario di quel che diceva Gesù), oppure forse pensa veramente così. Quelle parole - omicidio, sicari - crediamo che vadano commisurate non solo alla misericordia, ma alla realtà difficile e alle condizioni in cui una donna diventa o non diventa madre: realtà che, specialmente un uomo, deve guardare con immensa delicatezza, e distanza rispettosa.

*** E. P.