domenica 23 aprile 2017

Quando l'intelligenza è pericolosa

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Quando l'intelligenza è pericolosa
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«Se tutti pensassimo che le persone più intelligenti non reclamano il diritto di governare (….) o che i più intelligenti di tutti fossero quelli che si ritirano a meditare e poi tornano a portare la pace e l'illuminazione, avremmo ancora paura dei robot più intelligenti di noi?». Conclude così il suo articolo, La ragione dei forti, Stephen Cave, filosofo britannico, direttore a Cambridge di un centro per il futuro dell'intelligenza (Internazionale, 7 aprile 2017, da Aeon, Regno Unito).
Egli dice che «l'intelligenza è un concetto politico». In tutta la storia occidentale, le persone considerate meno intelligenti sono state dominate, schiavizzate (e persino mangiate, se includiamo gli animali non umani). Per Platone, e già per Socrate, il massimo valore umano è il pensiero. Solo un filosofo è in grado di stabilire il giusto ordine delle cose, perciò di governare. Per Aristotele alcuni per nascita sono destinati alla soggezione, altri al comando, ed è l'elemento razionale che contraddistingue chi comanda. Nella filosofia occidentale, fino ad oggi, l'intelligenza si identifica con l'uomo maschio, istruito, europeo, che ha diritto di predominare sulle donne, sulle classi inferiori, sui non civilizzati, sugli animali. Il dualismo dominante/dominato sembra ovvio e naturale. Per Cartesio animali e natura, non avendo intelligenza, erano puri strumenti. Per alcuni evoluzionisti, bisognava impedire ai meno intelligenti di riprodursi. Ma, aggiungiamo noi, i “maestri del sospetto” hanno messo in dubbio che l'intelligenza sia la più alta e libera qualità umana. Don Milani ha denunciato bene quanto la scala sociale determina il successo scolastico, che fa sembrare intelligenti i ricchi e stupidi i poveri. Ma già un messaggio antico suggerisce che il massimo valore umano non è il pensiero acuto o scaltro, ma la capacità di amare, aiutare, sollevare il tuo prossimo, perciò la vita che ti trovi vicina. È più importante analizzare e capire, o fare e dare ciò che è giusto? Daremo responsabilità di guida della nostra società, del vivere insieme, piuttosto a chi è giusto o a chi è intelligente, parla brillando, seduce le voglie più correnti?
Dal momento che l'intelligenza ha giustificato privilegi e predominio, ora ci terrorizza l'arrivo di robot superintelligenti, che si solleveranno contro di noi, cacceranno noi intelligenti in fondo alla scala sociale, ci schiavizzeranno. Ma tutto ciò non sta già avvenendo con lo “choc tecnologico”, che annulla posti di lavoro, sostituito dalle macchine, e ci toglie ruoli umani intelligenti? Ci perderanno di più, in questo processo, i dominatori di oggi o i condannati a lavori passivi? Saremo capaci di mantenere l'intelligenza creativa? Il punto forse è proprio questo: quale intelligenza umana?
L'intelligenza usata per comandare è più che altro astuzia e carattere imperativo, che viene scambiato per visione chiara e decisa. Ma questa qualità è molto ambigua: si impone ad alcuni, mentre si rende strumento utile a giochi più freddi e nascosti. Tipico il comando militare. Si parla di persone che hanno la “virtù del comando” perché si fanno obbedire, e non sanno di obbedire essi stessi, come soldatini di piombo, alla politica che li usa. Ma anche l'uomo politico che esibisce sicurezze e promesse certe, e non si rende conto di essere una rotella di una macchina che gli sfugge.
Allora sarà intelligente chi decide i grandi disegni strategici, chi vede gli interessi della propria nazione (We first)? Se intelligenza è veder chiaro, vedere “dentro” le cose, qual è l'intelligenza dei potenti? Sono potenti perché intelligenti, o sono creduti intelligenti perché sono potenti? Le politiche degli imperi, degli stati, nella storia hanno davvero visto e fatto quel che rendeva più felici i popoli? In qualcosa forse sì, ma a quali e quanti prezzi?
Allora forse sono intelligenti i pensatori critici, i filosofi, che non si impegnano nell'agire, ma giudicano chi agisce, e tutta la realtà. Il loro pensiero è importante, va ascoltato perché non si fermano alla superficie delle cose. Forse sono loro i capaci di intus-legere, leggere dentro, arrivare alle essenze, oltre le apparenze. Però, presto ci accorgiamo, ascoltandoli, che le loro visioni, i loro pareri e consigli sono i più disparati: tot capita, tot sententiae. Alcuni ci convincono, tutti insieme rischiano di renderci scettici. Ad un certo punto, la forza del pensiero si confessa debole. E chi può giudicare qualcosa senza esporre al giudizio se stesso? Vale davvero la nostra intelligenza più critica e profonda?
Ci troviamo nei pasticci. Chi non ha studiato i grandi pensatori quasi non ha diritto di prendere la parola, perché è ingenuo, non è “critico”. Chi appartiene alla classe intellettuale interviene con sicurezza, parla su tutto, mette un po' a tacere gli altri, poi scopriamo che fa anche lui errori sonori, e causa conseguenze infelici. Dobbiamo non fidarci della nostra testa? Che vuol dire: agire a naso, di pancia. Anche naso e pancia sanno sbagliare solennemente.
È intelligente la modestia. Sapere che è necessario agire, ma evitando il più possibile di produrre conseguenze irreparabili, avviando solo processi correggibili. Ritorna Socrate: intelligenza è sapere di non sapere. Siamo noi consapevoli di agire incisivamente sul mondo e sulla vita, ignorando molto degli effetti della nostra azione? Questo raccomandava sempre il saggio Nanni Salio. Non per nulla la violenza produce l'effetto più irreparabile e più stolto che si possa immaginare, e la ricerca nonviolenta è l'agire più intelligente, nel tempo lungo.
Dunque, che farne e che dirne della nostra intelligenza? E, peggio, che pensare dei robot così intelligenti da non interrogarsi sulla loro intelligenza , come noi stiamo cercando di fare sulla nostra?
C'è un punto di Raimon Panikkar che qui vorrei richiamare: l'intelletto scarnifica e seziona la realtà, nell'intento di penetrarla la divide, la perde nella specializzazione utilitaria. Panikkar arriva a dire che «la scienza moderna è perversa», perché non è comunione con la realtà, ma solo la quantifica e la usa, non la conosce (si veda meglio in Ecosofia: la nuova saggezza, Cittadella, Assisi 1993, pp. 21 e ss.).
Non sarà la bontà, cioè l'approccio favorevole alla realtà e alla vita, la vera intelligenza, cioè conoscenza e comprensione vitale, la vera con-vivenza? Non sarà meglio essere sempliciotti, persino un po' scemi a confronto coi furbi, piuttosto che distruttivi, dominatori, cattivi? Non è forse intelligente quella esultanza evangelica (Matteo (11,25): «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli»? Gli intellettuali, chi lavora con l'intelletto - come presumiamo di fare anche noi su queste pagine, che offriamo a (pochi) lettori – sono o possono essere davvero gli illuminati che suggeriscono o insegnano la via alla società, a chi si sporca le mani nelle decisioni? Tornando allo spunto di Stephen Cave da cui siamo partiti in questo girovagare, non può essere che i più intelligenti siano tra noi quelli che contemplano e meditano, che così meglio “intuiscono” (intus ire, entrare) e “sentono” la realtà e l'esistenza, per partecipazione più che per analisi e presa? Non sarà che la conoscenza per immedesimazione (l'affetto, la vicinanza, l'ascolto dell'eco poetica e l'abbraccio delle cose) sia la più vera, la più vicina al vero? E la più vera “filosofia” sarà più nel desiderio e brama (e orgoglio) di sapere, oppure nel saper amare, nella scienza vissuta dell'amicizia (sofofilia)?
A proposito di intellettuali (intelligenti di mestiere): fanno simpatia quando discutono sui giornali, nei libri, in tv, per capire un po' di più, per intaccare le conclusioni coi dubbi euristici, che aprono confini e strade, non i dubbi scettici, scoraggianti. Non fanno simpatia quando vogliono (o credono di) “avere” ragione. Si agitano in schermaglie con fioretti acuminati per conquistare una verità, che ne esce pesta e ferita. La ragione posseduta è come un amore violento: non è amore, e perde l'amata/o. La gara a chi è più furbo con le parole e più sorprendente coi ragionamenti, è piuttosto penosa, non aiuta l'intelligenza degli spettatori. La ragione è quel “lumicino” modesto che diceva Norberto Bobbio, non è uno strumento potente, tanto meno un'arma. Bene i sapienti, grazie, ma chi davvero mi è maestro e genitore, chi mi aiuta a vivere e mi conforta (mi dà forza), è chi, con la sua vita, distribuisce un po' di bene attorno a sé.
E. P.


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