domenica 23 aprile 2017

La guerra non è destino


La guerra non è destino
di Enrico Peyretti
«À la guerre comme à la guerre» dice il proverbio che si limita a registrare la caduta nella necessità, senza prospettare nulla che non sia la guerra stessa. In questa logica, la guerra risponde alla guerra, e vince sempre, sul vinto come sul vincitore. Se dalla guerra non si esce, la guerra è un destino senza risposte, senza alternative. E non è forse questa la concezione dominante, la politica degli stati (Ekkehart Krippendorff, Lo Stato e la guerra. L’insensatezza delle politiche di potenza, Gandhiedizioni, Pisa 2008), la storia insegnata a scuola, una catena di sconfitte e di vittorie belliche, disastrose come le sconfitte?
Le cosiddette “paci” da imparare a scuola con luogo e data, non sono paci, e neppure tregue, ma realizzazioni dello scopo della guerra, perché sono l’imposizione al vinto della volontà del vincitore. Lo scopo della guerra è la guerra: un inferno senza uscita, una follia senza guarigione, una prigione della storia come La Ronda di van Gogh. Infatti, è guerra non solo l’azione che colpisce e uccide: questo è lo strumento criminale. Il risultato e scopo della guerra è l’imposizione del dominio, non più clamoroso e cruento, ma ugualmente offensivo, lesivo della dignità.
Si può obiettare: la guerra difensiva è umanamente e politicamente legittima. Certo, ma gli strumenti della giusta difesa da aggressioni armate dovrebbero essere – come reclamavano pacifisti tedeschi nella crisi dei missili degli anni ’80 ‒ “strutturalmente incapaci di aggressione”. La difesa militare entra per sua natura nella spirale della ricerca di potenza superiore all’aggressore. Perciò - dal movimento gandhiano alle ricerche attuali (già proposte da Alex Langer nel Parlamento Europeo) di costituire “corpi civili di pace”, basati sulla resistenza sociale - è in corso una preziosa evoluzione culturale dalla difesa che risponde all’aggressione coi suoi stessi mezzi, verso una difesa che innova il conflitto riducendone la violenza. La resistenza, anche nei casi storici contro il nazi-fascismo, non fu essenzialmente bellica, ma solo strumentalmente armata, e in grande parte non armata. Essa rappresentava anzitutto uno scatto morale e un “tener fermo”, “re-sistere”, dell’umanità alla disumanità. I movimenti e le lotte di liberazione più autentici e di lunga efficacia sono lotte popolari nonviolente, forti di forza umana e non militar-omicida.
Fatto sta che, col pretesto della giusta difesa, affidata alle armi, tante guerre passano ad imporre un dominio ribaltato, che è una situazione di nuova “violenza strutturale”. Le armi non difendono davvero, ma catturano il giusto diritto in una logica estranea al diritto.
Guerra realizzata è il dominio statico, non più clamoroso e cruento ma ugualmente offensivo, lesivo della dignità. Il dominio stabilizzato, garantito dalla capacità di violenza e relativa strumentazione (gli eserciti, gli armamenti) è quella violenza che la peace research chiama “violenza strutturale”. La violenza fisica cessa con la c.d. “pace”, perché ormai non ha più bisogno di scomodarsi ad infliggere dolore per ottenere potere: il dolore è già inflitto e il potere è ottenuto dal piede sul collo del vinto. Il quale, se resta passivo, è collaboratore autolesionista della violenza che gli viene fatta. Allora, come rispondere alla guerra e al suo scopo? La ribellione è moralmente necessaria, ma quale ribellione?
La guerra non risponde al conflitto
Non trovo più parole, dopo mille tentativi di sapienti, che hanno espresso e mostrato fino alla ripugnanza l’impossibilità umana della guerra. Bobbio ha scritto: «La guerra è l’antitesi del diritto», quindi la negazione della dignità che ti fa degno di vivere. (ho svolto una relazione con questo titolo in AA.VV. Le regole della battaglia, Morlacchi, Perugia 2013). Non solo: la guerra è l’antitesi dell’umanità, la distruzione dell’umano nel nemico e in noi stessi. C’è un unico argomento contro la guerra: la giustizia.
«La guerra è un male perché fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo» (Kant, Per la pace perpetua. Progetto filosofico, 1795, Primo supplemento). La ragione della guerra è togliere o neutralizzare (sinonimo di uccidere!) il male e i malvagi. Il fatto è che rende malvagi i “buoni” che combattono il male. Tutto è terribilmente semplice. Difficile è seminare questa semplicità nella prassi dei poteri politici: la ragion di stato non è la ragione umana.
«La guerra è la malattia, non la soluzione» (Claudiana, Torino 2005), diceva Eugen Drewermann, e lo diceva a proposito della guerra giustificata come risposta risolutiva dell’Occidente ad un fondamentalismo violento islamista. Oggi, 2016, vediamo tutte le aggravate patologie inoculate nel corpo dell’umanità da quella folle criminale risposta.
La guerra alla guerra non è un risposta, ma una accettazione passiva della guerra, una conferma mediante sottomissione. La guerra è la risposta sbagliata al problema del conflitto. La guerra risponde ai problemi eliminando un lato del problema. Semplifica la realtà plurale amputando uno degli arti del corpo vivo e vivace, plurale, che è l’umanità.
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Succede così: due bambini giocano, si contendono un giocattolo, chi sta per perderlo lo distrugge pur di non darlo all’altro. Il conflitto pare superato, non si vede più, ma resta pesante il risentimento, la rivalsa. La guerra ha distrutto l’oggetto conteso – distruggere cose e vite è la sua unica capacità ‒ ma non ha distrutto il conflitto, che prosegue più profondo, interiorizzato, pronto a tradursi in nuova violenza.
Così le due madri che ricorrono al giudizio di Salomone (nella Bibbia, primo libro dei Re, cap. 3): la falsa madre è disposta a tagliare in due il bambino, la vera madre è disposta a donarlo vivo alla contendente. La prima usa la morte come soluzione del conflitto, che è danno per entrambe, ma a lei non importa: le importa di più il proprio prestigio, non darla vinta all’altra. La seconda, la madre vera, non tollera che il bambino venga sacrificato ad accontentare le opposte pretese, e preferisce la vittoria della vita del bimbo alla vittoria della propria pretesa. Questa donna anticipa la saggezza di Erasmo: «La guerra non conviene. Molto meglio una pace ingiusta che una guerra giusta» (Dulce bellum inexpertis, n. 14).
Il conflitto in sé non è guerra, lo diventa soltanto quando adotta lo strumento della eliminazione, l’arma che sopprime o sottomette. L’arte del conflitto vitale è l’inventiva, la memoria, lo sviluppo dei mezzi non distruttivi di promuovere il confronto e la composizione tra le differenze, per la costruzione della vita comune, la convivenza e la politica, frutto di qualche rinuncia e di qualche contributo di tutti. Il dialogo tra le persone, la diplomazia mediatrice tra le politiche, valgono qui come accenno a tutto un complesso di mezzi e metodi che il lettore può trovare nella vasta letteratura della nonviolenza, molto cresciuta e articolata nel secolo di Gandhi e oggi ancora in crescita di qualità e quantità. Si tratta di un ramo della scienza e dell’arte delle relazioni umane, e di una storia delle esperienze reali di lotte nonviolente troppo ignorata nella storiografia più ufficiale. Indico in appendice una prima bibliografia orientativa sulla ricerca di cura del conflitto. Johan Galtung, il maggiore peace researcher attuale adotta il paradigma medico: diagnosi, prognosi, terapia. La degenerazione del conflitto in guerra è, infatti, una malattia da esaminare e curare.
La guerra ha paura del problema
In realtà, non si tratta di rispondere alla guerra, ma ai problemi a cui la guerra risponde male, crede di rispondere. La guerra ha paura del problema. La sola risposta alla guerra è la preventiva messa in atto delle alternative alla guerra, che evita la guerra. Una volta entrato nel tunnel della guerra, non ne esci senza danno. L’inno di vittoria è una lugubre illusione per nascondere e ignorare il veleno che ti è entrato nel corpo, fino a quando produrrà i suoi effetti.
La guerra vuole il potere. Annulla conflitto e problema inebriandosi nella droga del potere: il verbo della possibilità (io posso, tu puoi, ...), cioè della vita, oggettivato in sostantivo assoluto, nella immobilità garantita in se stessa, che esclude e blocca l’alterità e così si autocondanna alla sterilità, all’agire solo per mantenersi, cioè non agire. Prestigio, cioè illusione: «Il prestigio, ossia l’illusione, è nel cuore stesso del potere». Vincere sugli altri, ridurre la complessità, è un’apparenza vuota. (cfr. Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, scritto del 1937, riprodotto in parte in Giancarlo Gaeta, Simone Weil, Edizioni Cultura della pace, Fiesole 1992; parole citate da un pensiero più ampio a p. 116).
La vittoria illude
La vittoria bellica sul nazismo viene sempre portata come esempio di guerra necessaria, inevitabile, giustificata anche nei suoi effetti collaterali dolorosi. Ma quella vittoria, ottenuta col potere militare più forte, è in buona parte illusoria: eliminato Hitler non è eliminata, o almeno non è storicamente superata, l’essenza dello hitlerismo. I vincitori hanno portato a compimento l’armamento capace di distruttività totale, che era nel progetto di Hitler. Il nazismo invece è stato vinto dalla reazione morale rifondativa della convivenza umana che si è avuta nel “neocostituzionalismo”: il pensiero che fonda le costituzioni postbelliche è un’alternativa basilare all’esperienza tragica del nazismo e dei fascismi, è una risposta di vita alla volontà di morte di quel potere dominatore e bellico. Non per nulla le costituzioni migliori, come quella italiana, «ripudiano» la guerra. Il nazismo è vinto dalla filosofia dei diritti umani universali, e del diritto di pace. Questa vittoria non è totale né garantita, essendo anch’essa dentro la mutabilità storica, e va protetta, custodita, coltivata, come risposta preventiva ai sempre ritornanti spiriti di guerra,
Infatti, oggi sono ancora presenti e vitali e minacciose vere «tendenze naziste», componenti essenziali dell’ideologia nazista, che Gliuliano Pontara individua ed elenca con precisione, nel volume L’Antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo (ed. Ega, 2006), pp. 29 e 322.2
2 La nuova barbarie: tendenze naziste oggi
Sono otto elementi indicati in questo specchietto. Nella colonna di destra l’Autore indica i corrispondenti antidoti, che si trovano nel pensiero e nell’azione dell’etica politica di Gandhi e del movimento gandhiano:
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O politica o guerra
Non è vero che la guerra è continuazione della politica con altri mezzi (così viene sintetizzata la teoria di von Clausewitz): invece, la guerra è interruzione e morte della politica. La quale è l’arte e la tecnica del vivere insieme nella stessa città-polis, quindi è azione per la vita. Più che mai, oggi la polis è il mondo umano intero: la politica è planetaria perché ogni punto dell’umanità influisce su tutta l’umanità, come ogni cittadino e ogni casa, ogni quartiere e ogni piazza compone e plasma una determinata convivenza urbana.
Il diritto cosmopolita, il tentativo di stabilire e far valere leggi di vita per tutta l’umanità, oggi supera il diritto “internazionale”, tra le nazioni fattesi (non tutte) stato “sovrano”, cioè insubordinato alla legge umana universale. In una concezione adeguata alla realtà, la legge universale ha come soggetti le persone umane (diritto dei diritti umani), e non più gli stati, come se fossero soggetti sostitutivi delle persone umane che li compongono. Ci occorre una legge dei popoli in quanto legge delle e per le persone.
Allora la guerra non è più di uno stato contro uno stato, ma di un gruppo bellico contro altri gruppi umani. La guerra è promossa dalle politiche statali, ma in realtà, sempre più, da poteri occulti che manovrano le autorità statali, e si svolge effettivamente non tra eserciti, ma sul corpo vivo delle popolazioni umane. I militari tecnologizzati al massimo, da tutte le parti in guerra, per lo più fanno operazioni di guerra dietro lo scudo dei telecomandi lontanissimi dal fuoco. E il fuoco cade quasi totalmente su chi è fuori dalla guerra, sulle popolazioni civili che si trovano sul territorio colpito. È far guerra alla pace, alla vita. È far guerra alla politica, arte di vivere insieme.
La politica umana è essenzialmente evitare la guerra. Credo che si possa dire: «La politica è pace o non è». Non esiste politica se non è azione coordinata per costruire rapporti di pace, cioè di vita insieme. E se non esiste politica, rimane via libera al suo opposto, gli egoismi sopraffattori che covano negli individui e nei gruppi in qualche modo omogenei. La politica umana unifica il diritto e il bisogno di vivere tutti, di vivere insieme, diritto che è dei singoli viventi, liberati dalla paura di essere compressi o impediti o soppressi da altri viventi.
Rispondere prevenendo
Sono convinto che la prima essenziale risposta alla guerra è mentale. Quindi è vedere, guardare e di nuovo guardare quanto la guerra ripugna a ciò che è umano. Il discorso è teorico, ma allo stesso tempo immediatamente pratico. Infatti, la convinzione è il primo passo pratico.
Se la domanda posta a queste semplici riflessioni è come rispondere alla guerra, io distinguerei: alla guerra già scoppiata non c’è rimedio, si tratta di fuggirla se è possibile, o di boicottarla in tutti i modi, anzitutto col rifiuto interiore, quindi coi canali umanitari e i diritti delle vittime. La guerra è maledetta. Se è scoppiata, se l’incendio della casa è cominciato, sono scadute le possibilità preventive, le migliori, forse le uniche.
A quel punto, si tratta almeno di non replicarla: che la risposta alla guerra non sia altra guerra, né subito, né in seguito. L’adeguamento logico alla violenza bellica è già sconfitta mentale: il presidente Hollande dopo la strage di Parigi del 13 novembre 2015 ha gridato «Siamo in guerra!», seguito da altri governanti, e così ha confermato la logica violenta. Così era avvenuto dopo gli attacchi a New York del 2001, e le conseguenze di danni moltiplicati si scontano ancora oggi.
Ristabilire la politica degli uguali diritti è la risposta successiva ad una guerra, e non tirare le somme tra vincitori e vinti, che non finiscono mai.
1. la visione del mondo come teatro di una spietata lotta per la supremazia 1. il mondo come teatro delle forze costruttive
2. il diritto assoluto del più forte 2. il primato della democrazia
3. lo svincolamento della politica da ogni vincolo morale 3. la subordinazione della politica all’etica
4. l'elitismo (diritto di dominio che una élite si attribuisce in quanto “superiore”) 4. l’umiltà dell’egualitarismo
5. il disprezzo per il debole 5. l’empowerment dei deboli
6. la glorificazione della violenza 6. la dissacrazione della violenza
7. il dovere assoluto di obbedienza 7. la responsabilità della disobbedienza
8. il dogmatismo fanatico 8. il fallibilismo gandhiano
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Ma ciò che conta davvero è prevenire in ogni modo la guerra. La maggiore prevenzione è nella cultura, nell’educazione dei popoli, nella democrazia dei diritti e dei doveri aperta all’umanità intera. Su questa prevenzione mentale ho tentato una modesta riflessione di principio. Altri sapranno proporre indicazioni più operative, sebbene a lungo termine. Io accenno qui, per concludere, a qualche punto.
Fare resistenza (come ho già cercato di dire) non è fare guerra: è fare muro, anche se quei resistenti che non fanno la scelta completa della nonviolenza, usassero le armi. Così è avvenuto, ma non principalmente, nella Resistenza italiana (cfr. Ercole Ongaro, Resistenza nonviolenta 1943-45, I libri di Emil, Bologna 2013). La resistenza non risponde, non replica alla guerra, ma si oppone, tiene fermo. Una resistenza morale, lo scatto morale di opposizione alla violenza, anche se usa le armi, non si fonda sulle armi, non ha questa fede, non ignora che è illusione affidare la vita alle armi.
La cultura di pace ha da preparare per ogni evenienza una resistenza popolare disobbediente alle politiche di guerra, sia promossa che replicata. Nel 1940 Gandhi è contrario alla guerra, e la sua pagina più famosa è un appello agli Inglesi del 7 luglio 1940, mentre sono sotto attacco tedesco, nel quale chiede loro di concedere tutto a Hitler meno la loro obbedienza, ma di non resistere con le armi al tentativo di Hitler di sbarcare in Inghilterra, perché la guerra si può vincere soltanto diventando più crudeli dell’avversario. Si potrebbe parlare molto dell’affermazione di Gandhi: «Voi volete eliminare il nazismo, ma non riuscirete mai ad eliminarlo adottando i suoi stessi metodi», cioè con la guerra (cfr. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Torino, Einaudi 1996, pp. 248-251).
La Danimarca seppe resistere e rispondere all’occupazione nazista usando poco le armi e molto la coesione popolare, la comunicazione sociale, la solidarietà nel coraggio espressa in gesti simbolici di massa, cosicché i danesi furono in grado di sottrarre alla deportazione nazista il 95% degli ebrei del loro paese e di salvare pienamente la dignità nazionale (cfr. per esempio Anna Bravo, La conta dei salvati. Storie di sangue risparmiato, Roma-Bari, Laterza 2013, cap. 5, pp. 127-155).
Per distogliere un conflitto dall’esito bellico è importante cercare una terza parte, una mediazione che collabori alla ricerca di una pace concreta. Sono da far valere le istituzioni dell’Onu nell’educazione civica dei popoli, e di riflesso nelle politiche degli stati.
Anticipare la pace
Contro il mito assolutista e manicheo della guerra è importante ed anche moralmente bello che i “nemici della guerra” sappiano mandare segnali di pace e amicizia alla popolazione “nemica”, per scavalcare il muro dell’inimicizia proclamata, aggirare il fronte della divisione mortale, sabotare la propaganda di guerra. Quello che, nella prima guerra mondiale, era il reato gravissimo di “intelligenza col nemico” è invece l’azione che può riportare gli avversari alla ragione umana e al comune interesse di vivere. Ci furono episodi di fraternizzazione tra “nemici”, uomini del popolo ridotti a strumenti, ancora capaci di essere umani, ma furono travolti dalla macchina diabolica della morte.
Intellettuali e insegnanti possono illustrare le qualità umane della civiltà “nemica”, sia mostrando ad essa che è indegna di comportarsi in modo aggressivo, sia mostrando a questa parte che non è da distruggere né offendere quell’altra forma di umanità. Il dialogo tra le culture – oggi tra islam e occidente ‒ è in grado di scavalcare il fronte e i muri dell’ostilità. Tutto al contrario dello scontro fatale tra le civiltà, le diverse culture si fecondano a vicenda, come mostra Raimon Panikkar, profeta della pace culturale (cfr. La torre di Babele. Pace e pluralismo, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1990 e Pace e disarmo culturale, Rizzoli, Milano 2003).
Ugualmente, la cultura e l’informazione possono riconoscere gli errori politici della propria parte, evitando che possano essere usati come pretesti o cause dell’aggressione che ci viene fatta.
Le democrazie chiamano con pudore “ministro della difesa” quello che si chiamava ministro della guerra, ma la difesa continua ad essere pensata quasi esclusivamente come difesa bellica, e fiumi di denaro sono spesi in eserciti e armi.
Ogni stato dovrebbe avere un “avvocato dell’avversario”, col compito di cercare, ascoltare, sostenere, nei conflitti acuti, le ragioni dell’avversario. Ci vuole il ministro della pace. Era questa la proposta di Aldo Capitini nel marzo 1948 (cfr. Aldo Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Cappelli, Bologna 1990, pp. 15-16 e Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1989, p. 102) e il suggerimento di Tullio Vinay nel febbraio 1977 (cfr. T. Vinay, L'utopia del mondo nuovo. Scritti e discorsi al Senato, Claudiana, Torino 1984, p. 285). Un tale ministro sarebbe incaricato di tenere aperta, e riaprire sempre, la ricerca dialettica e autocritica della verità e giustizia nelle controversie, con esclusione delle soluzioni violente, come impongono l’art. 11 della Costituzione e la Carta dell’Onu.
Questa istituzione, acquisita nella tecnica giudiziaria (anche il peggiore colpevole ha diritto alla difesa; la logica del ragionamento giudiziario ha bisogno dell’“avvocato del diavolo” previsto nel diritto canonico), è
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stata finora esclusa dai conflitti politici tra stati (nonostante le proposte antiche di grandi come Erasmo), rimasti alla fase primitiva in cui ognuna delle parti si pretende assoluta. La pace (cioè la gestione dei conflitti in forme non distruttive) può essere assicurata, meglio ancora che dal Terzo superiore (Hobbes; Bobbio), dal relativizzarsi di ogni parte, dal riconoscimento essenziale dell’altro. Infatti, lo spirito di guerra è, nella sua essenza, il disconoscimento dell’umanità dell’avversario, che lo trasforma in nemico totale e fonda il diritto (necessità, dovere, merito, gloria) di ucciderlo.
La guerra può essere superata, oltre che sul piano etico profondo (l’altro è, col suo solo essere, il fondamento del mio obbligo di rispettarlo e favorirlo, che mi vieta di distruggerlo in caso di contrasto), col rendere giuridico il conflitto. Essere un soggetto in una unità giuridica, in un sistema di regole per convivere, consiste nel riconoscersi parte di un insieme, nel sapere di non essere tutto. Questa unità morale e giuridica è, in modo intero, la famiglia umana completa. Gli stati ne costituiscono delle parti che si sono fatte ciascuna un tutto, ma devono sfociare in una cosmopoli umana.
L’“avvocato dell’avversario” avrebbe la funzione di rappresentare l’altro all’interno di una parte che, nel conflitto, entra in un delirio di totalità. Infatti, la stessa idea di sovranità assoluta che costituisce gli stati moderni, è fattore di guerra, è belligena. La realtà storica dell’interdipendenza smentisce e corregge oggi, provvidenzialmente, questa pretesa. D’altra parte, alla durezza degli interessi iniqui e privilegiati, si aggiunge oggi l’ondata di nazionalismi, di nazioni che si induriscono sul loro “particulare” e murano le frontiere terrestri e mentali. Ciò indica che coscienza e cultura non sono adeguate al movimento reale di unificazione della famiglia umana.
Occorrono istituzioni rappresentative dell’altra umanità, fuori da questo particolare stato, così come, nonostante i molti difetti, le istituzioni democratiche rappresentano ad ogni cittadino i diritti degli altri cittadini entro la porzione di umanità compresa in questo stato. Si potrebbe attribuire un vero ruolo politico interno agli ambasciatori degli altri popoli e stati (specialmente dello stato con cui si è in conflitto), o all’autorità delle Nazioni Unite, e questo sarebbe il meglio, oppure si può assegnare ad un organo dello stato il compito di rappresentare interessi e punti di vista dell’avversario. Non c’è altro modo di fare la pace, quella che sta al posto e non al termine della guerra. È necessità della vita e della dignità lavorare con forte iniziativa, anche unilaterale, per giuridicizzare il conflitto militare. L’obiettivo pieno non può essere altro che la scomparsa del rapporto militare, con tutto il suo apparato e la relativa mentalità, tragicamente tornata in auge. I passi saranno parziali, ma quella è la meta. Nulla di meno.
Studiare la pace nei conflitti
Tra le tante possibili, mi limito a queste indicazioni di siti e libri:
www.serenoregis.org
https://www.transcend.org/tms/ (Transcend Media Service. Peace Journalisme Perspective)
www.pacedifesa.org
Johan Galtung, La trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici, Centro Studi Sereno Regis, 2006
Johan Galtung, La pace coi mezzi della pace, Esperia, 2000
Sulla pace e nonviolenza nella storia, consiglio:
Jacques Semelin, Senz’armi di fronte a Hitler. La Resistenza Civile in Europa 1939-1943, Sonda, Torino 1993.
Gene Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, vol 1, Potere e lotta; vol 2, Le tecniche; vol 3, La dinamica, Ed. Gruppo Abele 1985, 1986, 1997
Pontara Giuliano, L’Antibarbarie, La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ed. Gruppo Abele 2006
Salio Giovanni, Il potere della nonviolenza, Ed. Gruppo Abele 1995
Enrico Peyretti (a cura di) Difesa senza guerra. Bibliografia storica online sulle lotte nonarmate e nonviolente (ultimo aggiornamento novembre 2016).
Patfoort Pat, Difendersi senza aggredire. La potenza della nonviolenza, Ed Gruppo Abele 2006
Muller Jean-Marie, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, (Prefazione di Roberto Mancini, traduzione di Enrico Peyretti), Ed. Plus, Pisa University Press, 2004; titolo originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclée de Brouwer, 1995.
Una bibliografia di oltre 70 titoli è pubblicata in appendice al mio libro Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella editrice, Assisi 2012.

Quando l'intelligenza è pericolosa

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Quando l'intelligenza è pericolosa
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«Se tutti pensassimo che le persone più intelligenti non reclamano il diritto di governare (….) o che i più intelligenti di tutti fossero quelli che si ritirano a meditare e poi tornano a portare la pace e l'illuminazione, avremmo ancora paura dei robot più intelligenti di noi?». Conclude così il suo articolo, La ragione dei forti, Stephen Cave, filosofo britannico, direttore a Cambridge di un centro per il futuro dell'intelligenza (Internazionale, 7 aprile 2017, da Aeon, Regno Unito).
Egli dice che «l'intelligenza è un concetto politico». In tutta la storia occidentale, le persone considerate meno intelligenti sono state dominate, schiavizzate (e persino mangiate, se includiamo gli animali non umani). Per Platone, e già per Socrate, il massimo valore umano è il pensiero. Solo un filosofo è in grado di stabilire il giusto ordine delle cose, perciò di governare. Per Aristotele alcuni per nascita sono destinati alla soggezione, altri al comando, ed è l'elemento razionale che contraddistingue chi comanda. Nella filosofia occidentale, fino ad oggi, l'intelligenza si identifica con l'uomo maschio, istruito, europeo, che ha diritto di predominare sulle donne, sulle classi inferiori, sui non civilizzati, sugli animali. Il dualismo dominante/dominato sembra ovvio e naturale. Per Cartesio animali e natura, non avendo intelligenza, erano puri strumenti. Per alcuni evoluzionisti, bisognava impedire ai meno intelligenti di riprodursi. Ma, aggiungiamo noi, i “maestri del sospetto” hanno messo in dubbio che l'intelligenza sia la più alta e libera qualità umana. Don Milani ha denunciato bene quanto la scala sociale determina il successo scolastico, che fa sembrare intelligenti i ricchi e stupidi i poveri. Ma già un messaggio antico suggerisce che il massimo valore umano non è il pensiero acuto o scaltro, ma la capacità di amare, aiutare, sollevare il tuo prossimo, perciò la vita che ti trovi vicina. È più importante analizzare e capire, o fare e dare ciò che è giusto? Daremo responsabilità di guida della nostra società, del vivere insieme, piuttosto a chi è giusto o a chi è intelligente, parla brillando, seduce le voglie più correnti?
Dal momento che l'intelligenza ha giustificato privilegi e predominio, ora ci terrorizza l'arrivo di robot superintelligenti, che si solleveranno contro di noi, cacceranno noi intelligenti in fondo alla scala sociale, ci schiavizzeranno. Ma tutto ciò non sta già avvenendo con lo “choc tecnologico”, che annulla posti di lavoro, sostituito dalle macchine, e ci toglie ruoli umani intelligenti? Ci perderanno di più, in questo processo, i dominatori di oggi o i condannati a lavori passivi? Saremo capaci di mantenere l'intelligenza creativa? Il punto forse è proprio questo: quale intelligenza umana?
L'intelligenza usata per comandare è più che altro astuzia e carattere imperativo, che viene scambiato per visione chiara e decisa. Ma questa qualità è molto ambigua: si impone ad alcuni, mentre si rende strumento utile a giochi più freddi e nascosti. Tipico il comando militare. Si parla di persone che hanno la “virtù del comando” perché si fanno obbedire, e non sanno di obbedire essi stessi, come soldatini di piombo, alla politica che li usa. Ma anche l'uomo politico che esibisce sicurezze e promesse certe, e non si rende conto di essere una rotella di una macchina che gli sfugge.
Allora sarà intelligente chi decide i grandi disegni strategici, chi vede gli interessi della propria nazione (We first)? Se intelligenza è veder chiaro, vedere “dentro” le cose, qual è l'intelligenza dei potenti? Sono potenti perché intelligenti, o sono creduti intelligenti perché sono potenti? Le politiche degli imperi, degli stati, nella storia hanno davvero visto e fatto quel che rendeva più felici i popoli? In qualcosa forse sì, ma a quali e quanti prezzi?
Allora forse sono intelligenti i pensatori critici, i filosofi, che non si impegnano nell'agire, ma giudicano chi agisce, e tutta la realtà. Il loro pensiero è importante, va ascoltato perché non si fermano alla superficie delle cose. Forse sono loro i capaci di intus-legere, leggere dentro, arrivare alle essenze, oltre le apparenze. Però, presto ci accorgiamo, ascoltandoli, che le loro visioni, i loro pareri e consigli sono i più disparati: tot capita, tot sententiae. Alcuni ci convincono, tutti insieme rischiano di renderci scettici. Ad un certo punto, la forza del pensiero si confessa debole. E chi può giudicare qualcosa senza esporre al giudizio se stesso? Vale davvero la nostra intelligenza più critica e profonda?
Ci troviamo nei pasticci. Chi non ha studiato i grandi pensatori quasi non ha diritto di prendere la parola, perché è ingenuo, non è “critico”. Chi appartiene alla classe intellettuale interviene con sicurezza, parla su tutto, mette un po' a tacere gli altri, poi scopriamo che fa anche lui errori sonori, e causa conseguenze infelici. Dobbiamo non fidarci della nostra testa? Che vuol dire: agire a naso, di pancia. Anche naso e pancia sanno sbagliare solennemente.
È intelligente la modestia. Sapere che è necessario agire, ma evitando il più possibile di produrre conseguenze irreparabili, avviando solo processi correggibili. Ritorna Socrate: intelligenza è sapere di non sapere. Siamo noi consapevoli di agire incisivamente sul mondo e sulla vita, ignorando molto degli effetti della nostra azione? Questo raccomandava sempre il saggio Nanni Salio. Non per nulla la violenza produce l'effetto più irreparabile e più stolto che si possa immaginare, e la ricerca nonviolenta è l'agire più intelligente, nel tempo lungo.
Dunque, che farne e che dirne della nostra intelligenza? E, peggio, che pensare dei robot così intelligenti da non interrogarsi sulla loro intelligenza , come noi stiamo cercando di fare sulla nostra?
C'è un punto di Raimon Panikkar che qui vorrei richiamare: l'intelletto scarnifica e seziona la realtà, nell'intento di penetrarla la divide, la perde nella specializzazione utilitaria. Panikkar arriva a dire che «la scienza moderna è perversa», perché non è comunione con la realtà, ma solo la quantifica e la usa, non la conosce (si veda meglio in Ecosofia: la nuova saggezza, Cittadella, Assisi 1993, pp. 21 e ss.).
Non sarà la bontà, cioè l'approccio favorevole alla realtà e alla vita, la vera intelligenza, cioè conoscenza e comprensione vitale, la vera con-vivenza? Non sarà meglio essere sempliciotti, persino un po' scemi a confronto coi furbi, piuttosto che distruttivi, dominatori, cattivi? Non è forse intelligente quella esultanza evangelica (Matteo (11,25): «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli»? Gli intellettuali, chi lavora con l'intelletto - come presumiamo di fare anche noi su queste pagine, che offriamo a (pochi) lettori – sono o possono essere davvero gli illuminati che suggeriscono o insegnano la via alla società, a chi si sporca le mani nelle decisioni? Tornando allo spunto di Stephen Cave da cui siamo partiti in questo girovagare, non può essere che i più intelligenti siano tra noi quelli che contemplano e meditano, che così meglio “intuiscono” (intus ire, entrare) e “sentono” la realtà e l'esistenza, per partecipazione più che per analisi e presa? Non sarà che la conoscenza per immedesimazione (l'affetto, la vicinanza, l'ascolto dell'eco poetica e l'abbraccio delle cose) sia la più vera, la più vicina al vero? E la più vera “filosofia” sarà più nel desiderio e brama (e orgoglio) di sapere, oppure nel saper amare, nella scienza vissuta dell'amicizia (sofofilia)?
A proposito di intellettuali (intelligenti di mestiere): fanno simpatia quando discutono sui giornali, nei libri, in tv, per capire un po' di più, per intaccare le conclusioni coi dubbi euristici, che aprono confini e strade, non i dubbi scettici, scoraggianti. Non fanno simpatia quando vogliono (o credono di) “avere” ragione. Si agitano in schermaglie con fioretti acuminati per conquistare una verità, che ne esce pesta e ferita. La ragione posseduta è come un amore violento: non è amore, e perde l'amata/o. La gara a chi è più furbo con le parole e più sorprendente coi ragionamenti, è piuttosto penosa, non aiuta l'intelligenza degli spettatori. La ragione è quel “lumicino” modesto che diceva Norberto Bobbio, non è uno strumento potente, tanto meno un'arma. Bene i sapienti, grazie, ma chi davvero mi è maestro e genitore, chi mi aiuta a vivere e mi conforta (mi dà forza), è chi, con la sua vita, distribuisce un po' di bene attorno a sé.
E. P.