martedì 28 aprile 2020

2014 11 ottobre - Note da un dibattito sulla coscienza

Note da un dibattito
Sulla coscienza
Enrico Peyretti - 11 Ottobre 2014

Annoto qualche idea da un dibattito torinese (Circolo dei lettori, 11 ottobre 2014) sulla coscienza, attorno al libro di Carlo Augusto Viano, La scintilla di Caino. Storia della coscienza e dei suoi usi (Bollati Boringhieri). È un ben informato e documentato libro di storia, che stimola a discutere le interpretazioni che propone del fenomeno della coscienza umana. Sembra di capire che, per Viano, vadano sotto il nome di coscienza e di morale delle spinte esterne alla persona, o autogiustificazioni utili del proprio agire. Scelgo qui di toccare gli aspetti su cui mi sono sentito più interpellato, come ricercatore per la nonviolenza, che comporta l'obiezione di coscienza alle violenze, e come cattolico critico.

1 - Coscienza e religione (specialmente cattolica)

È ben noto che Pio IX nel 1864, nella Quanta Cura, come già Gregorio XVI, chiamava «delirio» pensare che «la libertà di coscienza e dei culti» sia «diritto proprio di ciascun uomo che si deve proclamare e stabilire per legge in ogni ben ordinata società» e pensare che i cittadini abbiano «diritto ad una totale libertà che non deve essere ristretta da nessuna autorità ecclesiastica o civile, in forza della quale possano palesemente e pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti, quali che siano, sia con la parola, sia con la stampa, sia in altra maniera». Quanti affermano questo, predicano «temerariamente la libertà della perdizione». Se fosse «sempre libero il diritto di disputare», non mancherebbero «coloro che osano resistere alla verità e confidano nella loquacità della sapienza umana». «La fede e la sapienza cristiane debbono evitare questa nociva vanità».
Ma anche la coscienza religiosa è storica, cammina col tempo, in meglio o in peggio. L'infallibilità ecclesiale non è totale, momento per momento; essa è fiducia di non essere abbandonati, sia pure attraverso errori, difficoltà, temporanei smarrimenti.
Grandi sostanziali mutamenti sono avvenuti da Pio IX al Concilio. Il card. Bea spiegava che si doveva passare dal diritto della verità oggettiva al diritto della persona che cerca la verità. Il Concilio (Dignitatis humanae, sulla libertà religiosa, n. 3) stabiliva: «L'uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per raggiungere il suo fine che è Dio. Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza. E non si deve neppure impedirgli di agire in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso». Gli «atti interni volontari e liberi» della religione, «con i quali l'essere umano si dirige immediatamente verso Dio (...) non possono essere né comandati, né proibiti».
Vediamo un commento di allora divenuto in seguito sorprendente: «Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell'autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell'autorità ecclesiastica. L'enfasi sull'individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo e ultimo tribunale, e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi sociali, compresa la Chiesa ufficiale, stabilisce inoltre un principio che si oppone al crescente totalitarismo». Così Joseph Ratzinger nel 1967-69, in Commentary on the documents of Vatican II, vol. V, pag. 134, 1967-1969, New York; traduzione inglese da Das Zweite Vatikanische Konzil, Dokumente und Kommentare.
Ma che cosa impegna la coscienza? Hans Küng cita Freud: «Quando mi chiedo perché io abbia sempre aspirato a essere onesto, pieno di riguardi e, per quanto possibile, buono con gli altri, e perché non abbia cessato di esserlo quando mi accorgevo che in tal modo mi procuravo delle noie, venivo preso in giro, perché gli altri sono brutali e infidi – confesso che non so trovare una risposta» (Freud, lettera a J.J. Putnam, 8 luglio 1915).
Poi Küng chiede: «Perché un delinquente (nel caso che non corra alcun rischio) non deve uccidere i suoi ostaggi; perché un dittatore non deve fare violenza a un popolo; perché un gruppo economico non deve sfruttare il proprio paese; perché una nazione non deve iniziare una guerra? (…) È sufficiente qui l' “appello alla ragione”, col cui aiuto spesso si può giustificare tanto una cosa quanto il suo contrario?». «Qual è in fondo il valore di un ethos, se non si impone incondizionatamente, e non solo “ipoteticamente”? (…) L'incondizionatezza del dovere non può essere giustificata dall'uomo, in molti modi condizionato, ma soltanto da qualcosa di incondizionato. (…) Ciò può essere soltanto la stessa Realtà ultima, somma, che, ancorché non dimostrata razionalmente, può però essere ammessa con ragionevole fiducia – comunque essa venga chiamata, compresa e interpretata nelle diverse religioni» (Hans Küng, Progetto per un'etica mondiale. Una morale ecumenica per la sopravvivenza umana, Rizzoli, Milano 1991, pp. 73, 74, 75. La citazione di Freud è a p. 64). In ultima istanza, solo la libera coscienza personale può cogliere questo impegnativo appello alla vita giusta.
Nel dibattito, l'Autore ha affermato che gli ha sempre dato fastidio e diffidenza l'idea di coscienza, cioè l'occhio di Dio che sempre ti guarda. Quindi una forza esterna, non intima all'uomo. L'idea di coscienza gli sembra comparire nei testi cristiani solo quando Paolo si appella ad essa per superare i tabù ebraici, tanto che ha “coscienza debole” chi non se ne libera. E poi quando Lutero davanti a Carlo V dichiara: «Finché non mi convincete, sono fedele a ciò che sento». Insomma, la coscienza è piena di ombre, non ha consistenza, ma è usata come una forza assoluta: le religioni – dice Viano - fanno guerre, è sui confini religiosi che oggi scoppiano le nuove guerre.

2 – Evoluzione della obiezione di coscienza alla guerra

Anche nella cultura della pace si è verificata una evoluzione della coscienza. Dalla obiezione alla guerra (Tolstoj, Thoreau, Bertha von Suttner; rifiuto personale della guerra da parte di tanti soldati, anche nella prima guerra mondiale, in modo occulto, ma mossi dalla coscienza del “non uccidere”) si è proceduto alla costruzione della pace, mediante la nonviolenza attiva, la “trasformazione nonviolenta dei conflitti” (Johan Galtung). Dal pacifismo (solo rifiuto della guerra) quella cultura è cresciuta nella nonviolenza attiva, la quale è conoscenza: l'analisi della violenza (diretta, strutturale, culturale) vede che la violenza non è solo la guerra; ed è
azione, quindi pratiche di ribellione senza violenza alla violenza del dominio. Ciò può avvenire con la forza propriamente umana, cosciente: una larga non-collaborazione al dominio, che ha bisogno di obbedienza per dominare. È nella coscienza la forza che decide di non obbedire al comando ingiusto.
C'è stata una evoluzione dall'astenersi dall'usare violenza, all'intervento nonviolento: corpi civili di pace; prevenzione, mediazione, riconciliazione mediante la presenza civile in zone di conflitto. Ora ci sono proposte di legge per istituire la difesa civile nonviolenta, e la formazione scientifica di mediatori nei conflitti.
La cultura nonviolenta (ricerca, educazione, azione) procede dalla coscienza che obietta alla guerra, alla ricerca attiva sulle cause delle guerre. L'obiezione alla guerra come inaccettabile male morale e follia irrazionale (Pacem in terris: “alienum a ratione”; papa Francesco: “follia”) perché contraddice la mia-tua umanità, cresce nell'azione-testimonianza, che può arrivare al “sacrificio” di sé per non “sacrificare” altri.
L'obiezione morale disobbedisce alla guerra perché vi vede un assoluto teologico che pretende padronanza divina sulla vita altrui: un potere divino di de-creazione. Ora, credenti e non credenti hanno ragioni convergenti per lottare insieme insieme contro un tale idolo.
La violenza viene giustificata come diritto di difesa (vim vi repellere licet), e oggi si parla di “dovere di proteggere”, ma con enormi sistemi bellici che perpetuano forme e cause di violenza anche crescenti. Quella giustificazione dipende dalla mancanza di conoscenza e di esperienza delle possibilità effettive della forza nonviolenta, e dalla assenza di ricerca di mezzi alternativi alle armi. È vero che Gandhi parlava persino di “dovere di uccidere”, in totale assenza di altri mezzi, per difendere altri, ma non voleva l'istituzione dell'uccisione debordante, come è ogni apparato di guerra, comunque giustificato.

3 – Consistenza della obiezione alla violenza

Con la “ob-iezione” la coscienza si getta (latino iacere), grida, contro qualcosa di inaccettabile. L'obiettore si oppone accettando lealmente la pena, persino a costo della vita. Si tratta di una “obbedienza” (latino ob-audire), ascolto, attenzione e adesione ad “altro”, disobbedendo al comando sentito ingiusto. Qui la coscienza sincera non viene solo “usata” come motivo nobilitante, giustificante, ma anzitutto “ascoltata”, anche con incomodo grave: il soldato nella prima guerra mondiale che non uccide il nemico che ha a tiro; perfino soldati tedeschi, a S. Anna di Stazzema e a Marzabotto, si sono rifiutati di uccidere civili e sono stati uccisi con loro. Questi hanno ritrovato e ascoltato, anche nell'estremo coinvolgimento, la voce dell'unica umanità in se stessi come nelle vittime designate.
L'obiettore obbedisce a una legge-valore: Antigone alla “legge non scritta”; Socrate ascolta il “daimon” che gli impedisce di errare, con le stesse parole di Pietro (in Atti degli apostoli 5,29): «Bisogna obbedire a Dio più che agli uomini», anche accettando la massima pena.
La “scintilla di Caino” (che Viano dà come titolo al suo lavoro) è l'accendersi, quasi la creazione, della sua coscienza, quando esclama: «È troppo grande la mia colpa, non merito perdono!» (Genesi 4, 13). Ciò che l'accende non è solo la paura della pena, ma anche l'ascolto del grido del sangue di Abele udito da Dio, che lo fa sentire a Caino (Genesi 4,10).
Questo “ascolto” dell'obiettore, un sì che è fondamento del no, è una forma di “fede”, di fiducia-appoggiarsi-con/sistere, al di là di ciò che si tocca in concreto. Eppure è «più intimo a noi di noi stessi», come dicono sia il Corano sia sant'Agostino. In quanto così consustanziale all'essere umano è forza obbligante, non come sottomissione a forze esterne, ma come consistenza e realizzazione dell'umano.
La coscienza non è solo quella religiosa, come sembra dire il libro di Viano, ma è l'umanità dell'uomo, quel sapere-e-non-del-tutto-sapere chi sono io profondamente, e chi sei tu, per diventare davvero ciò che siamo, ed essere all'altezza di ciò, cercando e ascoltando ciò che dobbiamo a noi stessi. La coscienza che resiste e cerca è una conoscenza ascoltante, né passiva né arrogante.
Infatti, la fede, nel senso più ampio e comprensivo è – come dice Raimon Panikkar - «la costitutiva apertura dell'uomo verso la trascendenza (o un Essere personale, nelle religioni monoteiste; o una Realtà che ci comprende, nelle filosofie-religioni orientali). È la consapevolezza di essere in/finito, non/già/finito, e dunque di poter crescere. Ogni uomo è aperto a questo "più". È un'apertura esistenziale, di cui ogni uomo è capace. L'atto di fede, che salva [dal non-senso], è l'atto con cui l'uomo si riconosce non/finito, non perfetto. Ogni uomo ha coscienza costitutiva di questa sua apertura, poi, cerca di far cristallizzare questa visione in proposizioni, in formulazioni. Queste sono le credenze, diverse dalla fede, anche se la fede che non si esprime in credenze può restare vaga, inefficace» (miei appunti da una conferenza di Raimon Panikkar a St. Jacques d'Ayas, Val d'Aosta, ottobre 1992, ma il pensiero è ricorrente nelle opere di Panikkar).
Però c'è anche una fede che è paradosso e sfida allo stato presente: «Mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i Greci» (prima lettera di Paolo ai Corinti 1, 22-23).

4 - Cultura critica attiva per superare le violenze

La coscienza non è solo obiezione alla violenza, ma impegno attivo a costruire una cultura critica sulle cause delle guerre e di ogni violenza, per arrivare a forme di pace giusta, di pace nonviolenta. Questo lavoro consiste nella “trasformazione nonviolenta dei conflitti” o “trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici”. Per Johan Galtung è un dialogo intrapreso da molte parti esterne ai contendenti, guardando non solo al loro comportamento violento, non solo alle loro ragioni contrapposte, ma agendo sui loro atteggiamenti nella contesa, per indurli a forme non distruttive di gestione del conflitto.
La ricerca per vedere e togliere le cause del conflitto violento, andando oltre l'esortazione morale individuale, nella cultura moderna comincia con Erasmo (sentiero interrotto della modernità), soprattutto nel “Dulce bellum inexpertis”: il suo punto di vista è cristiano, ma non di meno è semplicemente umano. Quella ricerca fa un ampio passo con Kant, e con i progetti di pace del suo tempo, fino, nel Novecento, al “diritto internazionale dei diritti umani” (Antonio Papisca) e alle istituzioni e convenzioni cosmopolite, oggi ancora troppo fragili: esse abbozzano un diritto in cui i soggetti siano le persone, dotate del diritto umano alla pace, e non solo gli stati, attori di un sistema anarchico, dove ancora decide, di fatto, la pura forza.
Quella ricerca procede fino alla teoria della “pace coi mezzi della pace”, agendo nel conflitto con la prevenzione, l'interposizione, la riconciliazione.
L'ispirazione della ricerca nonviolenta contemporanea è morale-religiosa (Tolstoj, Gandhi, Lanza del Vasto, Giovanni XXIII , Ernesto Balducci, Rodolfo Venditti, Tonino Bello, Thich Nhat Hanh, e vari altri), o “liberamente religiosa” (Aldo Capitini, Movimento Nonviolento), ma anche spesso semplicemente morale-laica (Danilo Dolci, Galtung, Pontara, Patfoort, Krippendorff, ecc.). Di tutti gli autori ora nominati soltanto Giovanni XXIII è presente nel libro di Viano. L'assunto comune è il ripudio dell'uccisione-dominio (non solo l'uccisione), in base all'intuizione che “mors tua mors mea, vita tua vita mea”.
Questa cultura nonviolenta attiva si basa su dati di fatto e sull'uso di una intelligenza immaginativa, euristica.
Le lotte nonviolente per la giustizia sono storia, non pura utopia. Una bibliografia storica “Difesa senza guerra” è reperibile online (e nel mio blog: http://enricopeyretti.blogspot.com).
Antonino Drago ha pubblicato questa scheda: su 323 rivoluzioni del secolo XX, quelle nonviolente sono state un centinaio, e hanno avuto successo al 53%; quelle violente, invece, al 26%. Nel periodo 1975-2002, sono state 47 le rivoluzioni nonviolente, o per lo più non violente; su 18 condotte da forze nonviolente e coese, 17 hanno vinto e una sola ha avuto un successo parziale (Drago, Le rivoluzioni nonviolente dell'ultimo secolo, Ediz. Nuova Cultura, Roma 2010). Le fonti di Drago sono statunitensi: P. Ackerman e A. Karatnycky: How Freedom is Won. From Civic Resistance to Durable Democracy. Freedom House, Washington, 2005. M.J. Stephan e E. Chenoweth, Why Civil Resistance Works, International Security, 33, 1/2008, 7-44).
L'atteggiamento mentale non di sola registrazione dei fatti, ma di immaginazione euristica, liberante e costruttiva, risulta produttivo nella strategia di uscita dalla violenza, che non è destino insuperabile, né legge della storia. «Bisogna dire le cose premature. Essere realisti è essere creativi» (Johan Galtung al Centro Studi Sereno Regis, 1 giugno 2012). La filosofia dell'Utopia di Ernst Bloch e di teologi come Moltmann, sono un pensiero anticipante, che promuove e indirizza l'azione, oltre il fatto. E spesso si tratta non di anticipare, ma di rimediare a gravi ritardi.  
Così, la nonviolenza è una in-venzione (trovare, creare), ma è anche ricordare: è “antica come le montagne”, diceva Gandhi. Infatti, l'evoluzione della specie è più collaborativa (Erich Fromm) che principalmente selettiva. La storia umana è storia di collaborazione quotidiana, più che di scontro eliminatorio: essa è «un tessuto con degli strappi», e non è tutta strappi (Gandhi).
Questa cultura non è solo un sentire (coscienza interiore), ma un operare (coscienza attiva). Fa delle analisi della realtà, e delle azioni. 
L'analisi della violenza distingue le sue forme maggiori: diretta, strutturale, culturale. Così permette di risalire dai comportamenti violenti alle loro cause nelle strutture sociali, nelle culture profonde (le civiltà-religioni-filosofie). 
Si può anche riconoscere la catena circolare, con effetto boomerang, delle violenze: Helder Camara indicava il ciclo “oppressione-ribellione violenta-repressione”. Per uscirne si deve imparare un'idea e pratica di ribellione davvero liberante, che non rimanga soggetta ad imitare la violenza dell'oppressione (teologie, filosofie e movimenti sociali della Liberazione).
La violenza viene anche studiata come malattia dolorosa e inabilitante, e affrontata con metodo medico: diagnosi, prognosi, terapia (Galtung).
Il concetto di pace sottostante è una pace dinamica, un'idea regolativa, non è più la “tranquillitas ordinis” degli antichi. È l'assenza di violenza in tutte le forme dirette o indirette; è possibilità di sviluppo dei diritti umani; ha esigenze e forme storiche varie e variabili; è giustizia, è armonia delle differenze (R. Panikkar, T. Bello).
Le azioni di pace nei conflitti, prima che degenerino in guerra, sono la difesa e l'intervento civile popolare, nonarmato, nonviolento.

5 – Coscienza di riconoscimento, condizione per la pace giusta

La coscienza è un «abitare con se stessi» (Hannah Arendt, intervistata da Joachim Fest; in Anna Bravo, Raccontare per la storia, Lezioni Primo Levi, Einaudi 2014, p. 137). Il contrario è l'essere “fuori di sé”, come si dice dei matti.
La co-scienza è [cercare di] sapere di sé, conoscere se stesso, essere in sé, non fuori di sé. Ed è anche, la co-scienza, un sapere-con-altri. L'altro è con me, come me; c'è il sapere insieme. Perciò si parla di “reciprocità delle coscienze” (Bernhard Haering), fondamento della possibilità del con-loquio, e del dia-logo: uno stesso linguaggio inter-lingua, un incontro di significati anche per dire visioni diverse. Fondamento, anche, della polis, dunque della politica, che è vivere insieme, per il bene comune, ben più che lotta per il potere.
Freud, nel 1915, quando vede divampare la guerra (in Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in Riflessioni a due sulle sorti del mondo, Bollati Boringhieri 1990, p. 54) parla di «cattiva coscienza per il sangue sparso» nell'uomo primitivo, coscienza che non è più nell'uomo civile: la guerra come una caduta indietro, è la perdita di quella identificazione con l'altro, che è la civiltà, la cultura. Dunque co-scienza è originariamente senso di identificazione con l'altro, (ivi, p. 85), è sentire che anche nell'altro c'è la coscienza che è in te. Questa, tuttavia, si può offuscare, perdere.
Il rischio nucleare totale, la minaccia di estinzione, oggi ancora gravemente attuale, può e deve risvegliare una “coscienza di specie” (Ernesto Balducci), nel tempo della “coscienza atomica” (Günther Anders, Norberto Bobbio).
Ancora Freud : «Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra (…). La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui si parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “Ama il prossimo tuo come te stesso”» (lettera in risposta ad Einstein, Vienna, settembre 1932, op. cit., p. 85).
C'è in noi un impulso di morte e distruzione, ma, nella stessa lettera, Freud scrive: «L'altro tipo di legame emotivo è quello per identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di identificazione. Su di esse riposa in buona parte l'assetto della società umana».
Dunque, l'umanità che non va contro se stessa, è quella che si riconosce come composta di soci e non rivali, più soci che rivali, più collaborativi che competitivi, società di persone comunicanti e non atomismo di individui separati: ognuno è unico, ma non è separato. «Siamo fatti gli uni per gli altri» (Marco Aurelio; san Paolo)
La coscienza di riconoscimento è una forza che frena la violenza: l'altro vale come me. Ho raccolto una trentina di formulazioni, nelle più varie culture umane, della “regola d'oro” (in Servitium, n. 152, marzo-aprile 2004, Riconoscimento e disprezzo, pp. 103-108, s.egidio@servitium.it). Essa dice che l'altro vale come me, che sono l'altro per lui. Ciò è valore e forza in tensione con l'altra “pulsione”, di rifiuto, di morte, per la quale l'altro non è me, io non sono lui.
La coscienza di pace e nonviolenza è un atto di riconoscimento, che rifiuta di eseguire azioni e ordini di offesa all'altro. “Ama il prossimo tuo come te stesso” ha, nella tradizione ebraica, anche una lettura che dice: “Ama il tuo prossimo che è te stesso”. La coscienza sostanziale avverte che la vita vale, in me e in tutti.
Ma c'è anche la posizione opposta, militarista, di negazione della coscienza universalista umanitaria. Ho sentito con le mie orecchie dal generale Carlo Jean, il quale, il 29 marzo 1996, a Torino, parlava ad una platea di studenti, dire addirittura queste letterali parole: «Nell’esercito è necessaria l’esecuzione automatica dell’ordine, perché combattere significa uccidere». Questa frase è un condensato di nefandezze: l’obbedienza automatica è roba delle macchine e degli oggetti, non degli uomini, quindi il solo prospettarla disumanizza, degrada e corrompe le persone. Obbedire al comando di uccidere è la negazione totale dell’umanità: il potere e la logica di guerra devono imporre con minaccia l'ordine di uccidere per superare la coscienza di immedesimazione nell'altro, che è propria della nostra umanità sana. Infatti, ci si può trovare costretti ad uccidere, in situazioni tragiche estreme, per difendere la vita altrui, ma nessuno può comandarlo ad un altro, senza ridurre l’uomo che uccide su comando a oggetto meccanico, morto più dell’ucciso.
L'appello alla coscienza può anche essere un abuso per nobilitare un interesse. Può essere manipolata, insincera, falsa. Ma proprio l'appello abusivo dimostra l'importanza del riferimento alla coscienza: omaggio del vizio alla virtù.

Enrico Peyretti, 11 ottobre 2014

Appendice
Mencio, Vita tua vita mea

Non abbiamo solo l'istinto violento, abbiamo anche una naturale inibizione ad uccidere l'altro, che sentiamo valere come noi. Per superarla occorre un'operazione culturale, la "costruzione del nemico", cioè la de-umanizzazione dell'avversario, in modo da figurarcelo meno che uomo. Abbiamo innato l'impulso naturale a salvare la vita altrui, perché ciò è salvare la propria, cioè la qualità e umanità della propria vita. Non so se qualcuno l'abbia detto meglio di Mencio, in questa pagina famosa:

Testo di Mencio

«Tutti gli uomini hanno un animo sensibile all'altrui sofferenza. (...) La ragione per cui affermo che tutti gli uomini hanno un animo sensibile all'altrui sofferenza è la seguente: supponi che vi siano delle persone che all'improvviso vedono un bimbo mentre sta per cadere in un pozzo. Ebbene, tutte proveranno in cuor loro un senso di apprensione e di sgomento, di partecipazione e di compassione. Questa reazione non dipende certo dall'esigenza di mantenere buoni rapporti con i genitori del bambino, né dal desiderio di essere elogiati da vicini ed amici, e neppure perché disturbino le grida del bambino. Da tutto questo si può arguire che non sono uomini quanti sono privi di un animo sensibile ai sentimenti della partecipazione e della compassione, della vergogna e dell'indignazione, della deferenza e dell'acquiescenza, e del senso di ciò che è giusto e di ciò che non è giusto».

Mencio (Mengzi), filosofo cinese, 372-289 a.C.

Cfr. P.C. Bori, S. Marchignoli, Per un percorso etico tra culture. Testi antichi di tradizione scritta, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996, pp. 55-56; seconda edizione Carocci, Roma, 2003, p. 59.
Nella stessa pagina, Pier Cesare Bori annota: «Il sentimento dell’umanità, ren zhi xin, si esprime nel bu ren, “non sopportare le sofferenze altrui”. Ren, uomo, con l’aggiunta del segno di “due” significa “umanità” secondo l’etimologia tradizionale. (Su ren, cfr Scarpari, La concezione della natura umana, in Confucio e Mencio, Cafoscarina, Venezia 1991)».

Si potrebbe usare questo ragionamento, e lo si fa, contro la nostra argomentazione: «non sono uomini...», dunque vanno eliminati dalla società umana !! Ma fa parte dell'umano l'evoluzione sia in peggio sia in meglio, e nessuno può escludere il ricupero di un essere umano all'umanità che ha negato in se stesso. Sopprimerlo sarebbe un disumano fissarlo nella contraddizione con la sua natura. Credo, infatti, che questo «non sono uomini...» sia da intendere non nel senso apodittico, definitorio, ma descrittivo, come se dicesse: «non vivono all’altezza umana, contraddicono la loro natura umana».

E. P. (scheda su Mencio del 1996; rivista martedì 14 ottobre 2014)


Disobbedienza ed etica (2 marzo 2020)

Disobbedienza ed etica

di Enrico Peyretti

Al prof. Leandro Limoccia per il Seminario sulla Disobbedienza civile alle leggi ingiuste presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II. (2 marzo 2020)
Propongo alcuni semplici appunti sul tema proposto "Disobbedienza ed etica", attorno al dibattito sulla “disobbedienza civile alle leggi ingiuste”. Questa disobbedienza non per nulla è detta “civile”, cioè, non solo esercitata con atti nonviolenti, ma pubblica, dichiarata lealmente nella civitas, nell'agorà dei cittadini: non è la disobbedienza occulta, per un utile proprio opposto al bene di tutti. In quanto leale, l'atto di disobbedienza accetta la sanzione, e così rende omaggio al principio della legge, pur negando obbedienza ad una determinata prescrizione in quanto ingiusta, contraria, per la coscienza del disobbediente, ad una superiore giustizia. L'obiezione di coscienza è una obiezione di giustizia.
L'obiettore non è un fanatico, non pretende di possedere un superiore infallibile giudizio sulla ingiustizia delle legge disobbedita, ma testimonia che la propria coscienza avverte quella ingiustizia, a cui non può obbedire. L'obiettore di coscienza, che resta un cittadino leale, accetta la discussione, può venire persuaso e cambiare convinzione («Solo gli dèi e i folli non cambiano mai opinione» secondo un ripetuto aforisma). Ma può anche convincere altri che quella determinata legge deve essere modificata per renderla più giusta. Si può dire che contestare una legge con atti di resistenza senza violenza, è partecipare al più ampio lavoro di legislazione, compiuto non solo dai legislatori, ma da tutta la società, dalla cultura diffusa in continua maturazione, anche a partire dalla prassi stimolante di qualcuno più sensibile alla giustizia mancata (cfr Rodolfo Venditti, L'obiezione di coscienza al servizio militare, Terza edizione, Giuffré, Milano 1999)

* * *
La coscienza umana robusta e formata obbedisce alla legge giusta della società, non passivamente, ma interiorizzandola, facendola propria, per rispetto e solidarietà con tutti gli altri; perciò obbedisce anche a se stessa, realizza liberamente uno scopo comune che essa riconosce buono. Per agire così, la coscienza libera vaglia le leggi, obbedisce non all'autorità in quanto tale, ma al bene comune al cui servizio l'autorità è istituita; e obbedisce perché constata che il comportamento prescritto è utile al bene comune. La coscienza libera è anche capace di non seguire pedissequamente la lettera della legge, di modificarla nell'azione, affinché realizzi meglio il suo fine, oppure di non applicarla per nulla, se la trova ingiusta o dannosa.
Invece, la coscienza debole, incerta, passiva, riceve la legge da fuori, la obbedisce per evitare la sanzione, senza farne proprie le ragioni e il fine. Si può paragonarla ad una schiena debole, rotta, che non può stare ritta da sola, a cui occorre applicare un forte rigido busto che la sostenga.
Nella società ci sono cittadini dalla coscienza forte e altri dalla coscienza debole. Come regolarsi nella loro relazione? Non si può costringere gli uni al comportamento degli altri, perché entrambi falserebbero la propria coscienza, mancherebbero al rispetto di se stessi. Troviamo un esempio antico affrontato con saggezza.
Nella comunità cristiana primitiva di Corinto, alcuni ritenevano peccato mangiare la carne che era stata sacrificata agli idoli, venduta sul mercato. San Paolo, scrivendo a questi cristiani, dice di sapere che gli idoli sono nulla e dunque egli è libero di mangiare quella carne, ma se ne astiene per non scandalizzare – far inciampare, fare agire contro coscienza - il fratello dalla coscienza debole. Questi, però, non deve giudicare la sua libertà (cfr Prima Corinzi 8 e 10, 29-30). Ecco la regola: il forte non scandalizzi il debole, e il debole non giudichi il forte nella sua libertà. Ciò vale, mi sembra, per ogni comunità umana, dove le coscienze si confrontano in modi diversi, con maggiore o minore autonomia, con la legge in vigore commisurata ad una più grande verità e giustizia, che è anzitutto il rispetto reciproco.
L'obiezione di coscienza è un moto intimo, alla radice profonda dei comportamenti esterni, che paragona la legge e la sua osservanza con istanze più grandi, che sente inviolabili. Se ne vede un esempio nel vangelo: «Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo 5, 20). La coscienza che sorpassa la legge corrente non impone nulla agli altri, si impegna di persona. A maggior ragione la coscienza obietta e disobbedisce quando una legge non rispetta la giustizia fondamentale dei diritti inviolabili della persona umana. L'obiezione è obbedienza all'istanza morale più alta e più intima di quanto una legge riesca ad incarnare, ovvero è obbedienza a ciò che una legge ingiusta non rispetta.
* * *
Ma veniamo a confrontare un atto di disobbedienza di coscienza con i principi generali dell'etica.
Obbedire alle leggi della società cui si appartiene è cosa morale, come è altrettanto morale l'epicheia, o equità, che sottrae la giustizia all'astrattezza giuridica, la applica al caso particolare, realizzandola nel modo migliore, restituendola alla coscienza morale. Scriveva Italo Mancini: «Occorre passare dall'idea di giustizia al travaglio dell'uomo giusto, al suo discernimento consapevole, alla sua azione ribollente, irta di ostacoli, di crepe, di cadute e di riprese, ma sempre sorretta da una percezione di luce che i ricordati principi non cessano di dargli, in vista di un allargamento della terra […] Partendo dall'uomo giusto è possibile delineare un éthos concreto, in vista della fedeltà alla terra, alla città degli uomini “che non è lecito abbandonare” (Agostino), in vista della pace» (L'ethos dell'Occidente, Genova 1990, pp. 24-25 , citato da G. Piana, La verità dell'azione. Introduzione all'etica, Morcelliana, Brescia 2011, p. 268).
Spesso gli obiettori di coscienza tanto al servizio militare quanto ad altri aspetti problematici della legislazione si sono ispirati alla morale cristiana. L'autore appena citato, Giannino Piana, autorevole in questo campo, scrive pagine che trovo chiarificatrici, e che cito di seguito, in forma riassunta (da In novità di vita, vol I - Morale fondamentale e generale, Cittadella editrice, Assisi 2012, pp. 418-423).
L'importanza delle norme per orientare la condotta morale è fuori discussione. La “norma” è un referente che va preso in seria considerazione come dato dal quale non è possibile prescindere. Le norme tuttavia presentano sempre un certo grado di astrattezza: tra esse e la situazione concreta vi è spesso un salto che impone al soggetto un intervento creativo, legato all'esercizio della libertà. Si tratta di uno spazio vuoto, che può essere colmato solo dalla coscienza morale del singolo, chiamato a verificare nei fatti la congruenza che la norma possiede in relazione alle esigenze della situazione e alle proprie reali possibilità di intervento su di essa. Già Aristotele rilevava che la “legge” vale nella maggior parte dei casi, ma non nella totalità: nella realtà ci sono situazioni emergenti nelle quali il giudizio ultimo va lasciato alla decisione del singolo. La tradizione del pensiero greco e medievale, per questo compito, ha introdotto la categoria dell'epikeia (in latino prudentia). Questa “virtù” (così la chiama Tommaso d'Aquino) definisce l'atteggiamento dell'uomo nei confronti della “legge”. Tale virtù non entra in gioco soltanto quando la legge comanda qualcosa di immorale, ma anche quando chiede al singolo qualcosa al di sopra delle sue possibilità, oppure quando il singolo constata seriamente che ciò che la legge richiede non corrisponde al vero bene della comunità. Quando la norma è in conflitto con le esigenze della giustizia naturale, oppure quando è incapace di interpretarne le istanze, l'uomo non solo non è tenuto ad aderirvi, ma deve anche opporsi ad essa. Se talvolta l'epikeia ingiunge di sottrarsi all'obbligo della norma, altre volte obbliga a dare più di quanto la norma chiede, cioè quando l'adesione allo spirito della legge richiede che si vada oltre ciò che la lettera chiede. Insomma, l'epikeia tende a rivendicare la superiorità della giustizia naturale su quella legale.
Ma quale rapporto deve darsi tra ordine morale e ordine legale? E con quali criteri va determinato il dovere di obbedienza o meno alle leggi positive? Sulla prima domanda si può dire: l'ordine giuridico riguarda la condotta della persona su questioni di rilevanza sociale; l'ordine morale riguarda l'intera condotta umana. Nell'ordine giuridico ha grande importanza l'efficacia; nell'ordine morale l'unico criterio è la rispondenza ai valori.
Sulla seconda domanda, sul dovere di obbedienza: è chiaro che la legge “giusta” obbliga in coscienza, come la legge “ingiusta” (immorale) non è in coscienza vincolante. La questione è più complessa nella “zona grigia”, dove occorre un attento discernimento. Sia l'imperfezione della legge, sia il pluralismo etico presente nella società, accrescono la distanza tra ordine legislativo e ordine morale. Spesso il legislatore deve valutare sia l'efficienza sia la tolleranza. Il cittadino, più che con leggi apertamente ingiuste, si confronta con leggi che, per la complessità dei casi, lasciano scoperta la tutela di alcuni valori a cui la sua coscienza tiene. Il discernimento è delicato: deve tener conto dei valori in gioco, della natura specifica della legge, del contesto sociale, dell'effetto possibile.
L'obiezione di coscienza è l'applicazione del principio dell'epikeia, in alcuni casi legittimo, in altri anche doveroso. Nella Bibbia, già nel Primo Testamento, e ancor più decisamente nel Secondo, personaggi significativi, di alto impegno spirituale, e il Cristo stesso, scelgono di dissentire nei confronti della legge della società, per obbedire a una legge superiore, che sentono venire da Dio nella loro coscienza.
Quando l'epikeia chiede disobbedienza, questa intende essere disobbedienza etica.
L'obiezione di coscienza deve essere ben ponderata nelle sue condizioni. Il motivo etico che la giustifica è l'opposizione di una legge ad un valore fondamentale per la coscienza. Naturalmente, la complessità delle situazioni, e il pluralismo delle concezioni etiche rendono difficile il giudizio sulla correttezza morale delle leggi. Questa correttezza va definita non in base ad un'etica particolare, ma tenendo conto anche della convergenza, sia pure minimale, dei diversi sistemi di valori, in vista del bene comune. Tuttavia, il riconoscimento pubblico del diritto all'obiezione di coscienza (in Italia relativo al servizio militare, all'aborto) è un'importante conquista di civiltà. Il legislatore, rinunciando a far valere a tutti i costi le esigenze della legge per rispetto della coscienza personale, non dimostra debolezza, ma piuttosto l'autorevolezza di un potere consolidato, che riconosce i limiti naturali della legge e rispetta il sentire morale autentico delle singole persone.
Considerate queste chiarificazioni di Piana, possiamo concludere che la disobbedienza dell'obiettore, dove la legge non prevede l'esenzione per motivo di coscienza, non si oppone all'etica della convivenza regolata, non disconosce la necessità della legge (non è semplice anarchia individualistica, come appare a cittadini superficiali), perciò non viola l'etica, ma contribuisce al suo possibile sviluppo. La disobbedienza di coscienza è un atto etico. Questa disobbedienza, a caro prezzo, dove non è inclusa in una legalità più evoluta, è evoluzione della legge verso una maggiore corrispondenza all'etica umana. La disobbedienza così motivata è obbedienza ad un'etica vissuta nella coscienza: questa disobbedienza obbedisce.

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Vorrei concludere con un esempio semplice, lasciando da parte i casi più noti di disobbedienza etica ad una norma per obbedire ad una norma superiore. Dire la verità è indubbiamente un alto dovere morale. Ma «che cosa significa dire la verità?» (Dietrich Bonhoeffer, Etica, Bompiani 1983, pp. 307 e ss.) .
«Un maestro chiede a un bambino dinanzi a tutta la classe se è vero che suo padre torni spesso a casa ubriaco. È vero, ma il bambino nega. (…) Egli dice effettivamente il falso, ma in pari tempo esprime una verità, cioè che la famiglia è un'istituzione sui generis nella quale il maestro non ha diritto di immischiarsi. La risposta del bambino è una bugia, ma una bugia che contiene più verità, ossia che è più conforme alla verità che non una risposta in cui avesse ammesso davanti a tutta la classe la debolezza paterna. In base alle capacità che aveva, il bambino ha agito bene; la colpa della bugia ricade esclusivamente sul maestro» (pp. 310-311). Quel bambino, per istinto d'amore, ha fatto obiezione addirittura ad una alta legge morale, ha disobbedito alla legge morale, ma solo perché questa legge è stata usata dal maestro in modo immorale. «Dire la verità non è dunque soltanto una questione di atteggiamento personale, ma anche di esatta valutazione e di seria riflessione sulla situazione reale» (p. 308). Quel bambino ha disobbedito alla norma astratta, grande e preziosa ma astratta, del dire la verità, per obbedire alla legge concreta dell'amore per suo padre, legge offesa dal maestro. Maestro vero, in questo caso, è il bambino disobbediente, e cattivo allievo è quel maestro senza rispetto per il bambino, rispetto che vale più di una verità puramente fattuale.

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sabato 18 aprile 2020

22 febbraio 20202 Spiritualità e responsabilità politica

22 febbraio 2020 Intervento nel convegno
Spiritualità e responsabilità politica
Enrico Peyretti

1 – La comunione umana
Non solo i cristiani, ma chi ha una vita spirituale, inserita o no in una tradizione religiosa, sente la profonda comunanza umana, la fondamentale fraternità, più o meno aperta a tutti gli umani. Pur nelle differenze, nelle opposizioni, persino nei conflitti, è possibile a chi riflette, a chi coltiva una vita interiore, riconoscere che i più profondi bisogni, desideri, aspirazioni e timori umani sono comuni. Anche la nostra fragilità, la debolezza che sperimentiamo nei pericoli, ci fa uguali. Questa comunione è il fondamento solido di una politica buona e giusta, pur in mezzo alle difficoltà pratiche, e nella fatica di comprendersi. La “regola d'oro”, espressione di un'etica universale per vivere insieme, si trova, formulata in oltre trenta maniere molto simili (cfr enricopeyretti.blogspot.com, al 24/6/2019) in tutte le culture e le tradizioni sapienziali. Oggi il dialogo interreligioso può allargare questa consapevolezza di fraternità, che ha trovato una espressione importante nel documento cristiano-islamico di Abu Dabi sulla fratellanza umana (http://www.vatican.va/content/francesco/it/travels/2019/outside/documents/papa-francesco_20190204_documento-fratellanza-umana.html)
2 – Fraternité sans Terreur
La Rivoluzione Francese ha modellato la modernità, ma, dei suoi tre principi, la fraternità sembra dimenticata, come un bell'ideale troppo al di sopra della politica reale. Si tratta invece di ritrovare, anche in termini laici, questo essere figli della stessa umanità, corresponsabili del restare o ridiventare umani. Il monogenismo biblico, che non pare scientificamente vero, è vero in un senso più grande, secondo quel detto antico: «Nessuno può dire all'altro: mio padre è più grande del tuo». Questo riconoscerci ci preserva dalle discriminazioni, più letali di ogni infezione.
In una intervista, poco prima di morire (Le Nouvel Observateur, marzo 1980; Repubblica, 13-14 aprile 1980), Jean-Paul Sartre, non credente, individuava “un'idea per la sinistra” nella «fraternité sans terreur», nell'idea più alta della Rivoluzione, senza la caduta nel Terrore. La fraternità civile senza violenza è obiettivo essenziale per ogni posizione politica, sia che privilegi il valore della libertà sia quello della uguaglianza. Il riconoscimento di uguale dignità tra i cittadini preserva la politica dal ridursi alla regola disumana della forza. I cristiani hanno un motivo ancora più alto che li ispira a riconoscere come fratelli anche gli avversari ideali e politici, anche chi va riguadagnato alla convivenza che ha violato.
3 – Soci, non rivali
Se siamo una società, persone che intendono vivere insieme, la premessa morale e psicologica è sentirsi non rivali, ma anzitutto soci in una grande impresa comune. La pluralità di situazioni, idee, programmi, non è ostacolo ma ricchezza della vita insieme, se escludiamo sia la violenza materiale, sia la pretesa di unificare tutto sotto una sola delle visioni presenti, da imporre alle altre. Questa educazione all'alterità rispettata e valorizzata, è necessaria alla politica umana, alla sicurezza reciproca. Abbiamo maestri contemporanei che ci educano alla plurale unità umana, alla relazione: Buber, Levinas, Panikkar, Rizzi, Balducci, Mancini, Bori, … «Dio è nell'Altro, e l'Altro è in noi» (E. Balducci, L'Altro, un orizzonte profetico, passim)
4 - La forza e la ragione
Kant osserva e ammonisce che «Il possesso della forza (Gewalt) corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione» (Per la pace perpetua. Progetto filosofico, 1795. Secondo supplemento). La convivenza è degradata se viene consegnata alla legge della forza, che si impone sul dialogo ragionevole. Certo, è pur necessario affidare determinate decisioni alla prevalenza quantitativa delle opinioni, nella speranza che corrisponda anche a qualità. Ma questa regola democratica, contare le teste invece di tagliarle, come faceva la ghigliottina, vuole proprio evitare l'imposizione forzosa. La decisione dei più può essere sbagliata, sarà da correggere, ma almeno non è imposta contro le volontà dei cittadini. Inoltre, è necessario che tale decisione risulti da un libero e serio confronto delle proposte: un confronto migliore di certe campagne elettorali urlate nelle teste degli elettori, a suon di falsità, minacce, seduzioni, vuote promesse. La cultura, l'uso della ragione libera, seria, critica, aperta ad imparare e a correggersi, è un valore indispensabile alla politica umana. Perciò l'educazione, la conoscenza, la serietà intellettuale, sono fattori di buona politica, che l'istituzione deve sostenere con massima cura. La prima morale politica è l'onestà e ricchezza del dialogo.
5 – Non dominare
Satana tentò Gesù offrendogli tutti i regni della terra, se avesse riconosciuto il suo potere. Gesù respinge l'offerta: non agirà con la volontà di potenza, non imporrà, ma offrirà il suo vangelo e la legge dell'amore alla libera accettazione, con fede in lui: «Volete andarvene anche voi?» (Giovanni 6, 67). Perciò, i cristiani, i suoi seguaci, sentono l'impegno di guardarsi dalla volontà di dominio, che può tentare chiunque, e intendono servire e non dominare i fratelli della città politica. Non sempre la Chiesa ha respinto quella tentazione: ha anche preteso di governare tutta la società, sempre “a fin di bene”... In certi momenti storici, i papi hanno preteso il potere di nomina e revoca dei re. Nel 900, con fatica il cattolicesimo ha accettato la democrazia, anche se era fondata nell'umanesimo cristiano, e non solo nel razionalismo laicista. Nei primi secoli, la contaminazione costantiniana della Chiesa ha dato alla comunità dei credenti una struttura sempre più verticale. Fino a che, con la riforma di Gregorio VII (Dictatus papae, 1075), l'obbedire al papa sostituiva l'obbedire a Cristo: «solo il papa poteva confrontarsi con la Verità; tutti i credenti, vescovi compresi, dovevano confrontarsi con l’autorità del papa… D’ora innanzi, il problema che si pone ai credenti non è più di vivere secondo la Verità, bensì secondo l’autorità. Anzi, il mondo dei credenti non si discrimina più tra “fedeli” e “infedeli”, ma tra “obbedienti” e “disobbedienti” (ai comandi del papa)» (cfr Giorgio Cracco, Il Medioevo, SEI, Torino 1984, p. 151). Insomma, fedeli al papa, prima che fedeli a Cristo. Per questo, a Milano, i “patarini”, ribelli al clero corrotto, si definivano “fideles Dei” . I due concili precedenti al Vaticano II irrigidirono questa struttura. Oggi, lo stesso papa Francesco riconosce la fine dell'era costantiniana e della cristianità sociologica: essere cristiani significa accogliere il vangelo e volerlo vivere, testimoniandone la vitalità senza imporlo, stando nella società di tutti. Non si è più cristiani per nazionalità e per nascita, ma per fede. Questo chiarifica sia la politica, sia la fede dei credenti.
Proprio riferendosi alla fine della cristianità, Giovanni Ferretti, filosofo e teologo torinese, ricorda che il compito dei cristiani nella società è il dono gratuito (Matteo 10,8), è l'aprirsi all'altro in gratuità (Luca 6,35), all'opposto del principio capitalista e individualista del “non si dà niente per niente”. Egli scrive che il cristiano, nella società, «mira a istituire quelle relazioni di reciproca accoglienza e ospitalità che fanno la ricchezza della convivenza umana». Dunque, la buona politica non sta nelle tattiche per accaparrare potere, ma nella condivisione, nella liberazione e valorizzazione di ogni singola persona. Il “debito” dell'annuncio del Vangelo «non può essere disgiunto dal debito di una prassi verso l'umanità emarginata ed esclusa, come pure dal debito di una presenza pubblica, con la coscienza di avere qualcosa di importante da donare al mondo in crisi di gratuità fraterna e bisognoso di spiritualità e di speranza» (La Voce e il Tempo, 23-02-2020, recensendo il libro di R. Repole, La Chiesa e il suo dono).
6 – L'ambivalenza del potere
Il potere è un'idea e un termine ambivalente. È sia un sostantivo, sia un verbo. Come sostantivo dice una forza, un titolo, che non è di tutti, di comandare ad altri. Si dice: avere potere, prendere, togliere il potere; potere legittimo, illegittimo; volere pieni poteri.
Come verbo, “potere” dice una capacità, una possibilità: io posso, tu puoi, ho la libertà e i mezzi per agire. Dice qualcosa di ogni persona umana, che non deve essere impedito, represso, offeso. Nel senso migliore, “potere” dice quel «pieno sviluppo della persona umana» che il grande art. 3 della nostra Costituzione vuole liberato da ogni ostacolo economico e sociale, tanto che dichiara «compito della Repubblica», quindi della politica, realizzare questa liberazione. Ecco la politica nel suo obiettivo più alto: porre le condizioni per la realizzazione dell'umanità in tutte le persone.
Così vengono ad incontrarsi il potere legittimo di alcuni, deputati dal popolo a dirigere la cosa pubblica, e il potere di tutti di diventare compiutamente umani. Possiamo vedere qui tutto il valore della buona e giusta politica, quella che Adriano Ossicini chiamava «organizzazione della speranza», quella che Paolo VI qualificò come «la più alta forma di carità» (Discorso alla Fao, 16 novembre 1970).
7 - Una politica planetaria
Oggi, nella globalizzazione di tutti i fenomeni sociali, la politica deve essere articolata su scala planetaria. Occorre una costituzione all’altezza dei processi di globalizzazione, che imponga limiti e vincoli ai poteri transnazionali, che hanno spodestato i vecchi poteri statali; occorre un diritto planetario che non solo dichiari, ma tuteli i diritti umani, la giustizia e la pace (cfr www.costituenteterra.it )1. In questa necessaria nuova cultura giuridico-politica, sia il cristianesimo sia le altre religioni, possono dare – e già danno in una certa misura - un contributo proprio, perché di loro natura (sebbene contraddittorie quando si riducono a religioni etniche), portano e coltivano gli spiriti più universali che animano l'umanità.


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1Proprio ieri, 21 febbraio, si è istituita a Roma (e sono contento di avervi partecipato) una Scuola per la Costituzione della Terra, a cui si può partecipare anche a distanza. Informazioni nel sito indicato