venerdì 30 marzo 2018

30 marzo 2018  -  Venerdì santo
La liturgia del venerdì santo mi ha toccato particolarmente, quest'anno. La seguo fin da piccolo. Allora, prima della riforma, era in latino, incomprensibile, ma il significato ce lo spiegavano bene, lo capivamo. La croce è uno strumento per uccidere nel modo più tormentoso. La forca, al confronto, è eutanasia, per non dire della fucilazione. In più, uno come Gesù, venne minuziosamente torturato e umiliato, prima di essere inchiodato. Sono vicini a lui le migliaia di scomparsi nel ventre delle prigioni e delle sale di tortura, come minimo psicologica, ma anche fisicamente accurata, che non mancano dove c'è il potere degli uni sugli altri. Dicono gli studiosi che i racconti della passione di Gesù sono le pagine più antiche dei vangeli, e credo che abbiano probabilità di essere veritiere, anche perché non indulgono sui particolari atroci, li dicono solo sobriamente. Un uomo buono e illuminato, che aveva fatto solo del bene, venne schiacciato ferocemente, ad opera dei potenti, si capisce, perché la bontà e la verità li offende, ma anche tradito dal popolo che lo aveva seguito e osannato, e abbandonato persino dai suoi amici più vicini. Una sofferenza indicibile. Vedere la croce nuda e venerarla in silenzio, nella liturgia di oggi, fa vedere e sentire, nella sofferenza di Gesù, l'accumulo di tutte le sofferenze umane, di tutti i tempi, quelle fisiche, naturali o inflitte volontariamente, e quelle morali, più invisibili e profonde, intime. Sto bene in salute, ho tutto, e vengo chiamato a sentire in piccola, piccolissima parte, il dolore del mondo, di tutte le creature viventi. A sentire l'offesa fatta all'uomo giusto, all'uomo buono; il disprezzo volontario, accanito o (forse peggio) inconsapevole, di quanto c'è di buono, di vero, di bello, nella vita. E' vivere la tragedia, che fa vacillare. Per fortuna, e per la mia leggerezza, è una esperienza breve, poi si passa ad altro, la giornata è fatta di tante cose. Ma dentro resta un segno, indelebile. E la liturgia, la memoria di Cristo, ci dice anche che il suo amore per tutti, senza alcuna discriminazione, l'amore anche per i suoi aguzzini, è stato superiore a tutto quel male; è ancora superiore, vivente, più forte del male e della morte cattiva. La memoria cristiana ci trasmette questo. Noi riceviamo, ascoltiamo, vorremmo essere così semplici e umili da accogliere davvero, per viverlo nelle cose di ogni giorno, questo amore di un uomo come noi, più vivo di noi, così che il male non ci spaventi più, e il bene non sia un sogno vuoto. Speriamo.

Enrico


lunedì 26 marzo 2018

Martin Luther King e Gandhi  (27 marzo 2018)

Per il 50° del martirio di King, il prossimo 4 aprile 2018, 

rimetto a disposizione questo scritto di dieci anni fa, in cui ancora mi riconosco 

(Iniziative delle Chiese Battiste in Piemonte per il 40° anniversario della morte di Martin Luther King – Torino, 11 aprile 2008, rivisto 22 aprile)

Sommario - Un messaggio di Gandhi agli afro-americani - Gesù e Gandhi - La scoperta di Gandhi - Spiritualità nera - Pacifismo non superficiale - Il modello di Cristo reinterpretato - Religione e storia - La condanna della guerra - Democrazia, violenza, guerra - Originalità di Martin Luther King - Parole ultime, supreme

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Cercherò di vedere, nel suo cammino di formazione, di pensiero e di azione, il rapporto di Martin Luther King con Gandhi, l’influenza di Gandhi sul suo spirito e sulla sua azione.
Ernesto Balducci scrive che il linguaggio dei sermoni di Martin Luther King è «piano, empirico, scevro da profondi concetti». Sembra una svalutazione, ma, continua Balducci, essi «nascono da una sintesi profonda e svelano inaspettate possibilità storiche» (Presentazione, in King, La forza di amare, Sei, Torino 1967, p. 14). Si potrebbe dire lo stesso dei discorsi, conversazioni, lettere e articoli di Gandhi, anch’egli efficace comunicatore diretto, più che scrittore, di calde verità scoperte nell’esperienza. Anche King come Gandhi potrebbe intitolare una sua autobiografia Storia dei miei esperimenti con la verità.

* Un messaggio di Gandhi agli afro-americani
Si scopre subito un curioso casuale punto di contatto fra Gandhi e King: Gandhi, nel 1929, attraverso una delegazione guidata proprio da Mordecai Johnson (influente maestro di King), invia un messaggio agli afro-americani: «Non lasciate che dodici milioni di Neri si vergognino del fatto di essere nipoti di schiavi. Non v’è disonore nell’essere schiavo. C’è disonore nell’essere proprietari di schiavi. Ma non pensiamo in termini di onore o disonore in rapporto al passato. Rendiamoci conto che il futuro è con quelli che vorranno essere veritieri, puri e amorevoli. Giacché, come gli antichi saggi hanno detto, la verità sempre è, la menzogna non è mai stata. L’amore soltanto vincola, e verità e amore maturano solo per chi è sinceramente umile».
Molti afro-americani andavano in pellegrinaggio da Gandhi. Ad un altro gruppo di loro, sei anni dopo, nel 1935, Gandhi chiese di cantare un inno cristiano, che amava, Were you there when they crucified my Lord? Gandhi era molto sensibile, come dimostrò anche nel suo passaggio a Roma nel 1931, alla figura di Cristo crocifisso, che in quella occasione contemplò nella Cappella Sistina. Dopo quel canto, egli rimase un po’ in silenzio, poi disse: «Forse sarà attraverso il Nero che il messaggio della nonviolenza non adulterato sarà consegnato al mondo» (cfr Gabriella Lavina, Serpente e colomba. La ricerca religiosa di Martin Luther King, Edizioni Città del Sole, Napoli 1994, p, 290-291. Il messaggio di Gandhi del 1929 fu pubblicato nel n. di luglio 1929 di The Crisis, periodico per la promozione della gente di colore).
Non sembra forse, quel messaggio di Gandhi, un sermone di King? Egli infatti «ne ripeterà il concetto, fino alla fine, quasi alla lettera» (Lavina, op. cit., p. 310). Ma la coincidenza curiosa, si direbbe addirittura provvidenziale e profetica, è che King è nato il 15 gennaio 1929, ed è un bambino di pochi mesi quando Gandhi, quasi come Simeone nel tempio col piccolo Gesù tra le braccia (Luca 2, 25-35), pronuncia queste parole ai neri americani, come per investire Martin Luther King della sua missione, per le vie invisibili dello spirito. Sono entrambi membri di una popolazione assoggettata, privata di diritti, di indipendenza, di autonomia.
Accomuna i due personaggi la condizione di appartenenza ai poveri e oppressi. King, nero, discendente da schiavi, e Gandhi, extraeuropeo, membro di un popolo colonizzato, hanno in comune più di quanto li separa. Prima del metodo di lotta per il loro diritto, prima della coscienza, della cultura, della spiritualità, della forza della pazienza, hanno in comune la condizione di partenza. E noi cristiani vediamo che quella condizione di servo è la condizione umana assunta dal Figlio di Dio: non solo l’umanità, ma la condizione di servo: «Lui che si trovava nella forma di Dio, non stimò un bene irrinunciabile [non tenne per sé come una rapina, come una preda da non spartire] l’essere come Dio [la sua eguaglianza con Dio], ma svuotò se stesso prendendo forma di servo, diventando simile agli uomini; ed essendo quale uomo, si umiliò facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Filippesi, 2, 5-8).
Il fatto che Dio assuma l’umanità del servo – scrive Raniero La Valle – significa che «gli uomini considerati più lontani, più dissimili e incommensurabili a Dio in questo mondo, proprio loro non si possono separare dall’amore di Dio, (...) proprio loro, i servi, gli schiavi, i neri, gli indigeni, le donne, i bambini, gli esclusi, gli esuberi, i poveri, i profughi, sono i cittadini del regno» (Se questo è un Dio, Ponte alle Grazie, 2008, p. 158).
Appartenendo a popoli di servi, sia King che Gandhi, hanno questa somiglianza col Cristo, e gli somigliano anche perché, nel servire i loro popoli nel cammino della dignità, nel “pellegrinaggio alla nonviolenza”, anch’essi operano con un amore forte come la morte, che patiscono entrambi, ingiusta e violenta, a vent’anni di distanza l’uno dall’altro.

* Gesù e Gandhi
«Gesù forniva lo spirito, Gandhi il metodo» (M. L. King, Stride toward freedom. The Montgomery Story, 1958, p. 67; trad. ital. Marcia verso la libertà, 1968 ). È nota questa sintesi, per King, del rapporto tra Gesù, il vangelo, la nonviolenza evangelica, e la lezione dell’esperienza di Gandhi. Mentre gli autori afro-americani valorizzano in King la denuncia del razzismo della società bianca, gli autori euro-americani identificano King con la nonviolenza, intesa come ripudio della violenza. Per questi autori, la nonviolenza sarebbe il frutto della tradizione sociale cristiana, e precisamente della cultura teologica protestante di King, che avrebbe preso il concetto da Gandhi, ma solo strumentalmente. Quella formula sintetica di King su Gesù e Gandhi darebbe ragione a questi autori.
Però la nonviolenza non è automaticamente correlata al cristianesimo storico, che ha trasmesso nella storia il messaggio di Gesù. King è un cristiano che vive il suo cristianesimo nell’esperienza nonviolenta, che è già nell’evangelo ma è chiarita, riscoperta, applicata alla politica e alla storia, sviluppata nella pratica collettiva, rammemorata da Gandhi agli stessi cristiani, i quali nella storia l’avevano largamente rinnegata (cfr Lavina, op. cit., p. 38).
King dichiara, nel 1963, «Sono felice di dire che il movimento nonviolento in America non è derivato da forze secolari ma dal cuore della Chiesa Nera. (...) I grandi princìpi di amore e giustizia che stanno al centro del movimento nonviolento sono profondamente radicati nella nostra tradizione giudeo-cristiana». Dice «dal cuore della Negro Church». Gabriella Lavina ne deduce che «le fonti del pensiero di King non si esauriscono in quelle incontrate in seminario» (p. 64). Nella tradizione giudeo-cristiana c’era la radice, ma non c’era lo sviluppo, che è avvenuto nella impresa dei popoli schiavi di liberarsi dalla violenza evitando di cadere schiavi della violenza.
È vero, come molti hanno detto, che il movimento ha creato King e non King il movimento. Ma M.L. King è emerso nel movimento cristiano nero nonviolento per chiarezza di visione e di spirito. Egli è guida nonviolenta nel cristianesimo, come Gandhi nell’induismo e Badshah Khan (ingiustamente meno conosciuto) nell’islam.
Scrive King: «La tradizione religiosa del nero gli ha mostrato che la resistenza nonviolenta dei primi cristiani ha costituito un’offensiva morale di una tale devastante forza da far vacillare l’impero romano. La storia americana gli ha insegnato che la nonviolenza, sotto forma di boicottaggi e proteste, ha disorientato la monarchia britannica e posto le basi per la liberazione delle colonie dall’ingiusta dominazione. E, nel corso di questo secolo, l’etica nonviolenta del Mahatma Gandhi e dei suoi seguaci ha fatto tacere le armi dell’impero britannico in India e ha liberato oltre 350 milioni di persone dal colonialismo» (testo citato in King, Il sogno della nonviolenza. Pensieri, a cura di Coretta King, Feltrinelli 2006, p. 76-77).
E scrive anche: «Noi abbiamo un potere, è un potere che non si trova nelle bottiglie Molotov, ma noi abbiamo un potere. Un potere che non si trova nelle pallottole o nelle pistole, ma noi abbiamo un potere. È un potere antico come la sapienza di Gesù di Nazareth e moderno come le tecniche del Mahatma Gandhi» (ivi, p. 71).
Dunque, Gandhi aiuta Martin Luther King non solo a riscoprire e valorizzare le radici cristiane della nonviolenza, ma a capirla meglio correggendo un modo errato di pensarla, come vedremo tra poco.

* La scoperta di Gandhi
Quando parla della sua vita, a più riprese, Martin Luther King ne parla come di un pellegrinaggio, e precisamente un “pellegrinaggio alla nonviolenza”. Con questo titolo King pubblicò in successive versioni un testo autobiografico (apparso in italiano in due differenti versioni nel volume citato La forza di amare, e nella rivista Azione nonviolenta, aprile-maggio 1968, poi, insieme a Lettera dal carcere di Birmingham, del 1963, nel n. 14 dei Quaderni di Azione Nonviolenta, Edizioni del Movimento Nonviolento, 1993, dal quale cito). In esso, King riferisce dei suoi studi superiori in teologia e filosofia, intrapresi nel 1948, delle ampie letture, tra cui il Saggio sulla disobbedienza civile, di Thoreau (che già aveva ispirato Gandhi; e attraverso Gandhi, King capì Thoreau più come trascendentalista che come anarchico; v. Lavina, op. cit., p. 240, 262-263 ); lesse Marx, Nietzsche, gli utilitaristi, Hobbes, Rousseau.
Aveva sentito parlare di Gandhi, ma non lo aveva mai studiato seriamente, quando, nella primavera del 1950 (Lavina, op. cit., p. 287), ascoltò a Philadelphia un sermone del Dr Mordecai Johnson, che era appena tornato da un viaggio in India e parlò della vita e dell’insegnamento di Gandhi. «Il suo messaggio era così profondo ed elettrizzante che lasciai la riunione e acquistai una mezza dozzina di libri sulla vita e le opere di Gandhi», scrive King. «Fui profondamente affascinato dalle sue campagne di resistenza nonviolenta». «Il mio scetticismo riguardo la potenza dell’amore gradualmente diminuì e giunsi, per la prima volta, a capire la sua efficacia nel campo della riforma sociale».
Aggiunge che, prima, credeva che l’etica di Gesù fosse efficace soltanto nei rapporti individuali, «ma, dopo aver letto Gandhi, vidi che ero completamente in errore». «Gandhi fu probabilmente la prima persona della storia ad elevare l’etica dell’amore di Gesù al di sopra dei rapporti individuali e a trasformarla in una forza sociale su larga scala, potente ed efficace, (...) strumento potente per operare un mutamento sociale collettivo». In Gandhi «scoprii il metodo per la riforma sociale, del quale ero andato alla ricerca per tanti mesi». «Giunsi a sentire che questo era l’unico metodo, moralmente e praticamente valido, a disposizione delle persone oppresse nella loro lotta per la libertà» (Pellegrinaggio alla nonviolenza, p. 21-22).
Nell’autunno dello stesso 1950, King fa una relazione su Gandhi in un corso sulle “personalità religiose”, con una bibliografia notevolmente ampia, e ne approfondisce la personalità e il pensiero. Tuttavia, il suo interesse per Gandhi non lo fa ancora impegnare, come altri studenti, in nessuna organizzazione “pacifista” (Lavina, op. cit., p. 286-287 e 308).

* Spiritualità nera
Restiamo un momento sulla figura di questo maestro di King, Mordecai Johnson: predicatore battista, personalità della cultura afro-anericana, conscio di dovere ricostruire una visione del mondo libera dai condizionamenti della schiavitù, esprime la delusione degli afro-americani al termine della prima guerra mondiale, ma non condivide atteggiamenti di protesta radicale. Negli anni venti aveva dichiarato: «Un più largo gruppo tra noi crede nella religione e crede nei princìpi della democrazia, ma non nella religione dell’uomo bianco e non nella democrazia dell’uomo bianco».
Egli è persuaso che il credo schiavista è il credo tacito dell’intera nazione americana, e che «il Nero non può aspettarsi di acquisire libertà economica, politica e spirituale in America». All’epoca, partecipava al movimento per la fondazione della Republic of Africa. Anche la concezione di Dio era contrapposta a quella dei bianchi: «un Dio che si oppone allo sfruttamento e che ama tutta l’umanità». I bianchi affermano i princìpi, ma nella realtà li applicano per millimetri e con riluttanza. Mordecai Johnson era persuaso della imminente sconfitta del colonialismo grazie a «un uomo religioso in India che non conosceva violenza». L’abolizione della segregazione avrebbe distrutto le fondamenta stesse della civiltà americana e della supremazia bianca nel mondo, perciò era tanto paventata e impedita. Un vero superamento del sistema non poteva venire dalla legislazione, ma da convinzione morale e forza spirituale; non sarebbe bastato l’assenso della maggioranza, ma occorreva un «salto» nella «qualità dell’anima» (cfr Lavina, op. cit., pp. 288-290). È evidente l’affinità col sentire di King. Grazie a queste correnti spirituali che incontra, King trova nella comunità afro-americana un interesse e una disponibilità allo spirito di Gandhi.

* Pacifismo non superficiale
King fa anche lui un viaggio in India nel 1959, per studiare le tecniche nonviolente di G, ed è ospite di Nehru. Scalzo, rende omaggio al mausoleo di Gandhi, nel punto in cui fu eretto il rogo funebre, a Delhi (strano errore quello di Lavina, che parla della “tomba” di Gandhi, a p. 62).
Continuando a narrare il suo “Pellegrinaggio alla nonviolenza”, King ci dice di aver letto la critica che al pacifismo rivolgeva Reinhold Niebuhr (che pure era stato presidente del Mir, Movimento per la Riconciliazione). Niebuhr rifiutava il pacifismo soprattutto perché esso «non era in grado di rendere giustizia alla dottrina della Riforma sulla giustificazione per fede, sostituendo ad essa un perfezionismo settario, che crede che “la grazia divina realmente solleva gli uomini fuori dalle immorali contraddizioni della storia e pone l’uomo al di sopra dei peccati del mondo”». Niebuhr giudicava che Gandhi avesse avuto buon gioco con gli inglesi perché questi possedevano una coscienza morale. Noi però sappiamo che il dominio inglese fu anche assai duro, fino a casi estremi come la strage di Amritsar (1919) e i bombardamenti dei villaggi (cfr Eknath Easwaran, Badshah Khan il Gandhi musulmano, Sonda, Torino, 1990, pp. 14-15): il bombardamento aereo sistematico di obiettivi civili fu praticato dagli inglesi, ben prima dei tedeschi a Guernica, su Kabul e Jalalabad nel 1919 dalla Royal Air Force, e su villaggi della Frontiera, sostenendo che con quelle popolazioni non si poteva condurre la “guerra civilizzata”. Alla conferenza sul disarmo aereo, Ginevra 1933, non la Germania ma la Gran Bretagna si oppose alla proposta di bando del bombardamento aereo su civili.
Dapprima confuso dalla critica di Niebuhr, King ne vide poi più chiaramente gli errori, e scrive: «Egli interpretava il pacifismo come una specie di non-resistenza passiva al male» e una «ingenua fiducia nel potere dell’amore». Questo era un «grande fraintendimento», scrive King: «Il mio studio di Gandhi mi aveva convinto che il vero pacifismo non è non-resistenza al male, ma resistenza nonviolenta al male. Fra le due posizioni c’è enorme differenza».
Però, Niebuhr influenzò su diversi punti il pensiero di King, in maniera costruttiva: egli riconosce che il grande contributo di Niebuhr consiste nel «rifiuto del falso ottimismo» teologico nella concezione dell’uomo. Questo aiutò King «a riconoscere le illusioni di un superficiale ottimismo concernente la natura umana, e i pericoli di un falso idealismo». Egli vedeva che molti pacifisti «avevano un ottimismo infondato riguardo all’uomo e tendevano inconsciamente verso l’ipocrisia». Per questo motivo King non entrò mai a far parte di una organizzazione pacifista. Egli scrive ancora: «Dopo aver letto Niebuhr, cercai di arrivare a un pacifismo realistico. In altre parole, giunsi a considerare la posizione pacifista non senza peccato, ma come il minor male nelle attuali circostanze. Sentii allora, e sento ora, che i pacifisti troverebbero maggior consenso, se non affermassero di essere liberi dai dilemmi morali che i non-pacifisti cristiani affrontano» (Pellegrinaggio alla nonviolenza, pp. 22-23)
Concludendo questo testo con la descrizione di sei aspetti fondamentali della nonviolenza, King dimostra di avere studiato e compreso a fondo lo spirito e i metodi di Gandhi, che vede in armonia con l’agape cristiana, l’amore fino ai nemici (ivi, pp. 25-28).
Quando ancora, negli anni ’50, King è occupato nell’approfondimento del pensiero di Niebuhr, incontra quel suo interrogativo, confermato dalla storia, relativo alla Realpolitik: «Se per distruggere una forza [un egoismo] ce ne vuole un’altra [altri egoismi], che garanzie ci sono che la seconda forza possa essere resa più morale della prima?». Niebuhr si accontenta della proposta di contenere la coercizione necessaria nei limiti minimi compatibili con i fattori morali e razionali. King, avvicinandosi a Gandhi, comprende che il problema si sposta dal dilemma irrealistico coercizione/persuasione a quello «tra coercizione violenta e coercizione nonviolenta» (cfr Lavina, op. cit., pp. 353-354). La nonviolenza, infatti, è una forza, è anche una forza che piega e costringe l’avversario. Ma è una costrizione che non infligge sofferenza ingiusta, non viola la libertà altrui, ma certamente preme sull’oppressore col rendergli, mediante la resistenza, più costosa la continuazione dell’oppressione che il suo abbandono o attenuazione (v. il mio Esperimenti con la verità. Saggezza e politica di Gandhi, Ed. Pazzini, 2005, pp. 48 e 51-52, e Giuliano Pontara, Il pensiero etico-politico di Gandhi, saggio introduttivo a Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, p. CII- CIV). Questa è la coercizione nonviolenta, che non è una violenza mascherata, non è affatto costringere l’avversario a fare la mia volontà per mezzo della sofferenza che gli infliggo; è invece mettere l’avversario nella condizione di vedere che, se infligge a me sofferenza ingiusta, anche lui deve incontrare un costo, un prezzo, che gli conviene evitare. La parte che lotta per la giustizia resiste all’ingiustizia accollandosi la sofferenza invece di infliggerla; ma così il dominare e far soffrire uno che non subisce passivamente, fa spendere più energia e mezzi al dominatore, fino a indurlo, per convenienza se non per coscienza, a scendere a patti e negoziare una relazione meno ingiusta o più giusta.

* Il modello di Cristo reinterpretato
L’affinità «intima, e non presuntuosa o “strategica”» tra King e Gandhi si era stabilita sulla base di una reinterpretazione del modello di Cristo: non più il modello della acquiescenza umile e passiva, della sua disposizione alla sofferenza (Lavina, op. cit. p. 295). Secondo il teologo Howard Thurman, frequentato da King, le chiese cristiane avevano «tradito gli ultimi, con la loro enfasi sul paradiso, il perdono, l’amore e simili». Addirittura, diceva che «trovava molto poco di significativo o intelligente negli insegnamenti della chiesa concernenti Gesù Cristo».
Thurman aveva personalmente chiesto a Gandhi: «Qual è il più grande ostacolo che Gesù ha in India?». E Gandhi aveva risposto «istantaneamente»: «Il cristianesimo» (Lavina , op. cit. p. 297). È noto che Gandhi, profondo ammiratore di Gesù, era convinto che il cristianesimo ortodosso «ha travisato il messaggio di Gesù. (...) Quando ebbe l’appoggio di un imperatore romano, esso diventò una fede imperialista, quale rimane tutt’ora. Naturalmente ci sono nobili seppur rare eccezioni, ma l’orientamento generale è quello che ho indicato» (Gandhi, Antiche come le montagne, Ed. di Comunità, 1965, p. 83). Thurman possedeva una lettera di Gandhi indirizzata a Muriel Lester, nella quale leggeva lo stesso atteggiamento di «completa e devastante sincerità», di devozione alla verità, che fu di Gesù col discorso del “sì se è sì, no se è no”, senza modifiche né aggiunte.
Sicuramente Gandhi ha, come Gesù, la capacità di soffrire per gli altri e di testimoniare con questa forza coraggiosa la verità del suo messaggio, ma, contro ogni collaborazione passiva al male, esorta a ribellarsi anche con la violenza piuttosto che subire l’ingiustizia, ma ricorda sempre che c’è una terza migliore possibilità, che è la forza della nonviolenza. In prima istanza deve esserci la risposta attiva al male, in seconda istanza deve esserci la scelta della risposta nonviolenta invece che violenta (cfr Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Pisa University Press, 2004, pp. 287-288). King ha insegnato e ha vissuto il coraggio di saper soffrire per la giustizia, insieme alla franca “assertività”, come viene definito l’atteggiamento che Erich Fromm chiama «aggressività benigna», azione costruttiva, differente dalla aggressione maligna, distruttiva (cfr tutta la terza parte di Anatomia della distruttività umana, Mondadori 1979).
Il «potere su se stessi» è l’insegnamento più forte che Thurman raccoglie da Gandhi, e che, attraverso la mediazione gandhiana, vede anche più lucidamente in Gesù. La coscienza interiore di Gesù, la sua totale comunione con Dio, sono quel “potere di”, e non “potere su” qualcun altro, che gli consente di resistere alle tentazioni, di sostenere la sua missione fino al coraggio di morire per amore, di amare totalmente l’umanità e la verità. Così, come scrive Benjamin Mays (un’altra personalità influente su King), se anche si volesse giudicare fallita la campagna nonviolenta di Gandhi, «il fatto che Gandhi abbia dato alle masse indiane una nuova concezione del coraggio, nessuno può onestamente negarlo. Disciplinare la gente a guardare in faccia la morte, a morire, ad andare in carcere per la causa, senza paura e senza ricorrere alla violenza, è un risultato di prima grandezza. E quando una razza oppressa smette di avere paura, è libera. I princìpi cardinali della nonviolenza sono amore e impavidità» (cfr Lavina, op. cit., p. 307).
Analogamente, scrive Galtung: «Una rivolta del tipo auspicato da Gandhi ha inizio dall’acquisizione di un forte potere su se stessi, e la chiave è il rispetto di se stessi, connesso con un forte sistema di credenza» (Johan Galtung, Gandhi oggi, Ed. Gruppo Abele, 1987, p. 175, citato da Lavina, p. 373).
A questi aspetti cruciali dell’insegnamento e dell’esperienza di Gamdhi, M. L. King mostrerà di consentire profondamente, anzitutto con le sue decisioni, le azioni personali e gli incoraggianti esempi agli altri, poi anche in alcune grandi pagine, come, per esempio, il capitolo Antidoti per la paura, in La forza di amare (già citato), e, in questo stesso libro, quella specie di intimazione d’amore agli avversari: «Noi faremo fronte alla vostra capacità di infliggere sofferenza con la nostra capacità di sopportare le sofferenze, andremo incontro alla vostra forza fisica con la nostra forza d’animo. Fateci quello che volete e noi continueremo ad amarvi. (...) Ma siate sicuri che vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire. Un giorno, noi conquisteremo la libertà, ma non solo per noi stessi: faremo talmente appello al vostro cuore e alla vostra coscienza che alla lunga conquisteremo voi, e la nostra vittoria sarà una duplice vittoria» (La forza di amare, p. 87).
Quando traccia un bilancio dell’esperienza di Montgomery, K intreccia costantemente l’insegnamento di Gandhi con quello di Gesù. Sempre più chiaramente, ai suoi occhi, l’amore di cui parlò Gesù si è andato identificando con la nonviolenza e la disponibilità al sacrificio di Gandhi (cfr Lavina, op. cit., p. 557)


* Religione e storia
Abbiamo visto, dunque, che l’interesse per Gandhi aveva radici profonde nella comunità afro-americana, e che King lo mutua anzitutto dal suo ambiente, anche se vi aggiunge un’attenzione viva e personale. Ma solo più tardi, nel vivo dell’azione diretta, questo impatto verrà alla luce più pienamente, e sarà pienamente compreso dallo stesso King. Da Gandhi si sente affascinato. Ne studia le campagne sudafricane, poi le lotte indiane. Dichiara «profondamente significativo» per lui il concetto di Satyagraha che, eguagliando verità (satya) e amore, egli traduce immediatamente in «forza della verità, ovvero forza dell’amore», espressione sua caratteristica. Come abbiamo già sentito, riconosce in Gandhi «la prima persona nella storia ad elevare l’etica dell’amore di Gesù, al di sopra della semplice interazione tra individui, a forza sociale potente ed efficace su una larga scala. Per Gandhi l’amore era uno strumento potente per la trasformazione sociale e collettiva». Dice che grazie a Gandhi scoprì «nell’amore e nella nonviolenza (...) il metodo per la riforma sociale di cui ero stato alla ricerca per tanti mesi» (Cfr Lavina, op. cit., p. 319 e 338).
«Qualsiasi religione che professa l’interesse per le anime degli uomini e non per le condizioni sociali ed economiche che sfregiano l’anima, è una religione spiritualmente moribonda in attesa del giorno della sepoltura. È stato affermato giustamente: “Una religione che finisce con l’individuo, muore”» (Pellegrinaggio alla nonviolenza, p. 18).
«Io non riesco a vedere alcun conflitto tra la nostra devozione a Gesù Cristo e la nostra azione presente. In effetti, io vedo una relazione necessaria. Se si è veramente devoti alla religione di Gesù si cercherà di liberare la terra dai mali sociali. Il vangelo è sociale tanto quanto personale. Stiamo soltanto facendo in tono minore quello che Gandhi fece in India, e certamente egli è considerato da molti un santo» (Stride toward freedom, citato, p. 98; in Lavina, p. 477).
* La condanna della guerra
Sappiamo che King passò, nell’ultimo periodo, dalla lotta per i diritti civili dei neri, alla condanna della guerra, che era allora la guerra del Vietnam. Probabilmente fu questo che gli costò la vita. In un discorso del 4 aprile 1967, un anno esatto prima di essere ucciso, diceva di condurre «un processo appassionato alla mia amata nazione», di essere «costretto a vedere sempre più nella guerra il nemico diretto dei poveri», di dover denunciare «il più grande produttore di violenza del mondo d’oggi: il governo della mia stessa nazione». Il problema era «salvare l’anima dell’America».
Ripercorre la storia del Vietnam, fino al momento presente, in cui «siamo stati vittime della nostra omicida arroganza occidentale, che avvelena da tanto tempo la scena internazionale». «Il vero senso, il valore reale della compassione e della nonviolenza è aiutarci a comprendere il punto di vista del nemico, ascoltare le sue ragioni, conoscere il modo con cui ci giudica». «Siamo noi che abbiamo cominciato la guerra. Sta a noi prendere l’iniziativa per fermarla. (...) L’immagine dell’America non sarà mai più l’immagine della rivoluzione, della libertà e della democrazia, ma della violenza e del militarismo». «Un’autentica rivoluzione dei valori significa, in ultima istanza, che le nostre fedeltà debbono divenire ecumeniche, e non semplicemente parziali, perché è sviluppando una fedeltà primordiale all’umanità tutta intera che le nazioni preserveranno il meglio della loro originalità». (Martin Luther King, Oltre il Vietnam, Ed. La Locusta, Vicenza 1968, pp. 9, 11, 14, 19, 27, 32, 45).

* Democrazia, violenza, guerra
In queste parole molto gravi di King si vede pure l’influenza implicita di Gandhi.
Sulla «vera democrazia» Gandhi aveva scritto il 12 novembre 1938: «La democrazia e la violenza non possono coesistere. Gli stati che oggi sono formalmente democratici, o sono destinati a divenire apertamente totalitari, oppure, se vogliono divenire veramente democratici, devono avere il coraggio di divenire nonviolenti» (Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, citato, pp. 270-271).
Nell’appello del 7 luglio 1940 aveva proposto all’Inghilterra, aggredita dalla Germania nazista, un coraggioso metodo alternativo di resistenza nonviolenta, che non avrebbe comportato la contaminazione ma la più radicale resistenza al nazismo: «Voi volete eliminare il nazismo, ma non riuscirete mai ad eliminarlo adottando i suoi stessi metodi. (…) La guerra non può essere vinta in altro modo. In altre parole voi dovrete divenire più crudeli dei nazisti», se vorrete contrastarli con la guerra (ivi, pp. 248-251).
E prima ancora, il 18 maggio dello stesso 1940, con un severo giudizio che non si può liquidare in fretta, Gandhi affermava ciò che è più grave, cioè che questa contaminazione non è soltanto l’effetto della guerra, ma è già nella concezione politica alla base delle democrazie che non escludono la violenza: «La democrazia, finché è sostenuta dalla violenza, non può fare l’interesse dei deboli o proteggerli. La mia concezione della democrazia è che sotto di essa il più debole deve avere le stesse possibilità del più forte. Questo può avvenire soltanto attraverso la nonviolenza. (…) Nel vostro paese [gli Stati Uniti] la terra appartiene a pochi capitalisti. Lo stesso avviene in Sud Africa. Queste grandi proprietà possono essere mantenute soltanto con la violenza, velata o aperta. La democrazia occidentale, nelle sue attuali caratteristiche, è una forma diluita di nazismo o di fascismo. Al più è un paravento per mascherare le tendenze naziste e fasciste dell’imperialismo. (…) Le vostre guerre non riusciranno mai a salvaguardare la democrazia» (ivi, pp. 140-141).
Sono giudizi severi, che possiamo anche discutere, noi occidentali, ma dobbiamo ascoltarli per esaminarci. Martin Luther King è una delle poche voci occidentali che hanno osato prendere in esame gli avvertimenti di Gandhi sulla qualità delle nostre democrazie così attrezzate per la guerra, nelle menti, nelle economie e nelle armi.

* Originalità di King
Si potrebbero osservare altri aspetti del rapporto tra King e Gandhi. Mentre Gandhi fece del suo ascetismo, sebbene sereno e gioviale, una condizione necessaria per la pratica della nonviolenza, K era «empaticamente vicino alla terra. Egli conosceva il valore della preghiera e del digiuno, ma non era da meno di nessun uomo negli ordinari piaceri della vita. Non sentiva alcuna necessità di rinunciare a un abbigliamento elegante, al buon cibo o al sesso per essere efficacemente nonviolento» (William Robert Miller, che ha scritto Gandhi and King, un articolo del 1969, cit. da Lavina, op. cit., p. 524). Si sa che King fu spiato dalla polizia in qualche presunta avventura extraconiugale, per ricattarlo. Coretta affermò di essere certa che Martin Luther non aveva mai mancato di amare la sua famiglia.
King non considera negativo o immorale il potere, il quale «inteso in modo corretto, non è altro che la capacità di realizzare uno scopo» (citato in Lavina, op. cit., pp. 524-525). In questo senso ammira anche Nietzsche, ma è evidente che King pensa al “potere di”, che deve essere di tutti (la “onnicrazia” di Aldo Capitini), e non al “potere su”, di alcuni su altri, che non può essere di tutti ed è perciò sempre vicino alla violenza.
In questo ordine di idee, King, come già Gandhi, suggerisce una importante distinzione tra forza e violenza: la forza è una qualità della vita, è costruttiva, moralmente è la virtù della fortezza, mentre la violenza è distruttiva e offensiva, immorale. Questa distinzione è occultata, artatamente confusa e persino capovolta dalla cultura violenta, che affida assurdamente alla distruzione la difesa della vita.

* Parole ultime, supreme
Sembra che ogni grande, prima di toccare il culmine della sua esistenza e della sua opera, che agli occhi del mondo è la sua fine, debba vivere l’angoscia del fallimento: così è toccato a Gandhi, a Francesco d’Assisi, a Gesù stesso, e anche a Martin Luther King, nell’ultimo periodo. Egli pensò anche di fare un digiuno come Gandhi, per fermare forme violente di lotta da parte dei neri. E sembra che ognuno di questi grandi ritrovi la luce nel momento supremo. Sembra che la loro morte riveli la loro vita.
Gandhi, colpito con una pistola Beretta italiana, il 30 gennaio 1948, morì invocando il nome di Dio: «He Ram», che da vent’anni aveva l’abitudine di ripetere mentalmente, anche durante il sonno. M. L. King, il 3 aprile 1968, il giorno prima di essere ucciso, disse in un discorso (nel quale è evidente la citazione di Mosè, in Deuteronomio 34, ma anche di Stefano, in Atti 7,55): «Non so quel che accadrà ora. Abbiamo giorni difficili davanti a noi. ma davvero non ha importanza per me adesso, perché sono stato sulla cima della montagna. E non mi preoccupo. Come chiunque altro, mi piacerebbe vivere a lungo: la longevità ha un suo valore. Ma non mi importa di questo, adesso. Voglio solo fare la volontà di Dio. E lui mi ha concesso di salire sulla montagna. E io ho guardato oltre. E ho visto la terra promessa. Potrei non arrivarci insieme a voi. Ma stasera voglio che sappiate che noi, come popolo, arriveremo alla terra promessa. E stasera sono felice. Non mi impensierisco per nulla, non temo alcun uomo. I miei occhi hanno visto la gloria dell’avvento del Signore» (dall’ultimo discorso a Memphis, Tennessee, 3 aprile 1968, in Martin Luther King, Il sogno della nonviolenza, citato, p. 92).

Enrico Peyretti, 2 aprile 2008, poi 8 e 22 aprile 2008





lunedì 12 marzo 2018

Riflessione
Il conflitto, tra pericolo e opportunità
Intendo proporre (riproporre) qui una semplice riflessione sul conflitto suggerita nell'immediato dal libro di Marinetta Cannito, La trasformazione dei conflitti. Un percorso formativo (editrice Claudiana. 2017, pp. 211, euro 18,00).
Occorre anzitutto, per aprire un lavoro di elaborazione dei conflitti, di ogni genere, liberare il termine “conflitto” dalla sinonimia con “guerra”, che è diffusa nel linguaggio storico e nell'informazione. Conflitto non vuol dire guerra. È una cultura piegata al fatalismo bellicista quella che cattura la parola riducendola a dire che un conflitto è sempre potenzialmente solo violento, eliminatorio. Se pensi la guerra divinizzata, regina della storia, ogni differenza e tensione è guerra, quasi necessariamente.
«Polemos padre di tutte le cose» é un frammento di Eraclito di circa duemila e cinquecento anni fa. È una sorta di vessillo di tutta la cultura occidentale, e non solo. Il frammento dice che la Guerra, in tutte le sue forme, è l'unico arbitro della vita, di tutte le relazioni umane. La forza violenta è vista più decisiva della ragione dialogante e del riconoscimento. Ma si può imparare a lasciare emergere le diversità con un contenimento e com-ponimento (porre insieme) delle differenti qualità.
L'apprendimento che emerge dalla relazione può essere un continuo processo di elaborazione del conflitto, un luogo di incontro, studio, ricerca ed educazione sugli aspetti intrapsichici, interpersonali, di gruppo, collettivi e istituzionali del conflitto.
Il con-senso, con-sentire, è più piacevole e agevole. L'amore-fusione è un momento magico, in cui si tocca il cielo con un dito (solo un dito…). Però, il con-flitto, in-crocio (una croce!), esiste, accade, si incontra: è un disagio, è spiacevole, ma si può scoprire che è sia un pericolo sia una opportunità.
I -
È un pericolo, perché incontrare un ostacolo può spingere verso una soluzione eliminatoria: tolto il contendente è tolto il conflitto. Ma è proprio vero? La distruzione (morale, giuridica, fisica) del differente, la chiusura-fermeture-serratura dell'identità che si sente contestata dalla differenza, la lascia senza la diversità. Dopo l'illusione della vittoria, mi adagio nella mia auto-somiglianza. L'incapacità di reggere e accogliere la differenza porta alla distruttività dell'altro e del rapporto, quindi anche del soggetto. Senza rapporto è sterilità. Caino senza Abele è fuggiasco, il più solitario dei solitari, perché minacciato dal proprio gesto, che gli si ritorca contro, e solo Dio gli fa compagnia, proteggendolo e inserendolo di nuovo nel rapporto (Genesi 4). Elena Bono, in mirabile poesia ha ascoltato e reso il Lamento di David sul gigante ucciso.
Fare da sé? “Solitudo, sola beatitudo”? In realtà, ogni creatività anche interiore (pensiero, immaginazione) avviene perché un seme differente è entrato nell'utero della interiorità e lo ha fecondato con la etero-geneità (altro genere).
Sartre dice: «L'enfer c'est les autres». Ma dirà anche, come autentico valore obiettivo della sinistra, «fraternitè sans terreur», nel 1980, poco prima di morire. Gli altri sono un tormento? O possiamo, senza la selezione della ghigliottina, ritrovarci fratelli, liberi e uguali? Il bell'ideale rivoluzionario del 1789 della fraternité non ha potuto affermarsi che ristretto nelle patrie in armi e tagliato dai confini sacralizzati, o superati solo dall'impero. È rispuntato, quell'ideale, dopo i massacri del Novecento, nelle grandi dichiarazioni planetarie, ma sempre contraddetto dal vedere l'inferno in altre parti di umanità.
Non-ostante” è il modo bello di incontrare la av-versione, la diversità difficile. “Non-ostante” significa che l'ostacolo non è soltanto hostis, nemico. Richiede una forza attiva impiegata a non distruggere ma a costruire, evitando che il conflitto visto unicamente come pericolo si semplifichi nell'eliminazione riduttiva.
II -
È anche una opportunità, il conflitto. Esso è un'aggiunta, l'aggiunta del diverso-nuovo, è il sale della co-scienza (dal sapere di sé al sapere comune con l'altro). È la fecondazione di ogni identità (identica a se stessa muore). È il disturbo dell'alterità che turba, ma porta anche al piacere dell'ampliamento. È prima una croce, poi una nuova vita (risurrezione non come ritorno indietro). L'alterità esterna al mio spazio e al mio modo di essere, mi interpella e mi chiama, mi smuove e mi modifica. La verginità non è un valore, né sul piano biologico, né su quello relazionale e vitale in senso pieno. La mia vita è fatta da e con la vita degli altri. “Vive la différence”.
Stare solo in una compagnia di identici (robot; soldati in “uniforme”) è riposante (ma è davvero riposante?), però è povero, deprivato. Vivere è viaggiare fuori di sé e del cerchio. La famiglia si apre naturalmente, ed è fioritura nei figli differenti e nei loro “altri” percorsi. Dunque, sono un pericolo - sebbene abbiano una utilità e un diritto, fino ad un certo punto - chiese, partiti, scuole, nazioni, culture, linguaggi, religioni, gusti, la famiglia stessa, se l'identificazione non è aperta all'incontro.
III -
Anche il problema di Dio, e comunque l'interrogativo su una Realtà piena e avvolgente, incontra la problematica del conflitto tra pericolo e opportunità.
Se Dio è l'alterità assoluta, il “totalmente altro”, e troppo altro, diventa insignificante, estraneo. “Nessuno lo ha mai visto”, ma per il messaggio evangelico si è manifestato nell'uomo Gesù (Giovanni 1,18), e «se ci amiamo tra noi è in noi» (1 Giovanni 4,12). Dio, visto così, è alterità e intimità. Se è talmente altro da superarmi in modo assoluto, è così potente, arbitrario, pauroso, che lo sento in conflitto con la mia vita, e devo rifiutarlo per salvare dignità e libertà. È pericoloso. Unico scampo è che non esista. Se è altro in quanto più vivo di me, più buono, più bello, più benefacente, più misericordioso, riconoscibile in linea di proseguimento con le mie migliori aspirazioni umane, allora è incontro, è dono, motivo di fiducia, vicinanza, intimità, di nuova vita che mi persuade come più vera della morte.
IV -
Il conflitto è tema al centro della ricerca della nonviolenza positiva, condizione della pace giusta. Questa è essenzialmente la gestione costruttiva dei conflitti: non dico soluzione, scioglimento, ma gestione. Ovvero, trasformazione da pericolo a opportunità, da minaccia e paura, a incontro e arricchimento, sebbene faticoso come ogni apprendimento.
Realisticamente, la vita personale come la vita dei gruppi umani ha bisogno di respirare – sistole e diastole – tra il riposo dell'identità e l'impegno della alterità. Questo passaggio duale, ma necessario, rappresenta la completezza della vita e di una pace dinamica, non immobile. La pace, infatti, non è mai pace. È un concetto escatologico, come la felicità: non è mai raggiunta, mai piena, eppure è vera, reale, nel movimento che la cerca e la pregusta, la anticipa e ne soffre l'incompiutezza. Pace, felicità, vita, sono nomi di un Vivente che impropriamente, genericamente, chiamiamo Dio, sempre pensato-impensato, alto-intimo, lontano-vicino.
Il conflitto è l'incrocio di: io-altro, qui-là, noto-ignoto, reale-ideale, certezza-incertezza, ecc., pace-non pace. Perciò è il bivio tra opportunità e pericolo, acquisto e perdita, incontro-scontro, apertura-chiusura, ecc.
Il conflitto è l'essenza dell'esistenza: la scelta tra la violenza che lo riduce (vorrebbe ridurlo) all'uno, e la nonviolenza che lo apre al rapporto. Il conflitto appare come indefinito, malleabile, offerto alla differente gestione, alla trasformazione dalla forma violenta, istintiva, impaurita, subitanea, pericolosa, statica, chiusa, solipsistica, alla forma nonviolenta, aperta, costruttiva, opportuna, mobile, relazionale, reciproca.
Enrico Peyretti, 12 marzo 2018

venerdì 9 marzo 2018

Libri
Pier Cesare Bori, La tragedia del potere (Dostoevskij e il Grande Inquisitore) EDB 2015, pp. 45, euro 5,50
Le Edizioni Dehoniane Bologna (www.dehoniane.it) hanno avuto l'ottima idea di riprendere in piccoli volumetti brevi lavori di Pier Cesare Bori (1937-2012), grande studioso, con la visione di un profondo universalismo spirituale, che considero il più serio fattore di cultura di pace. Dopo Il dialogo al pozzo. Gesù e la Samaritana secondo Tolstoj (2014), ora abbiamo La tragedia del potere. Dostoevskij e il Grande Inquisitore (2015, pp. 45, euro 5,50, originale 2005).
Nel cap. 4, Roma o Mosca, Bori nota che il Cristo di Dostoevskij, quando entra a Siviglia, fa pure miracoli, con un misterioso sapere e potere. E nota che Dostoevskij attacca Anna Karenina, nel Diario di uno scrittore, per le posizioni contrarie alla guerra contro i turchi: «Non è russo chi non riconosce la necessità di conquistare Costantinopoli». E quando Dostoevskij «si consulta con il procuratore del santo sinodo sulla redazione de I fratelli Karamazov non si fa egli stesso assertore di un nazionalismo religioso-ortodosso e slavofilo, in cui a Roma si sostituisce Mosca?» chiede Bori.
Scrive Leonid Grossman che quando Dostoevskij pubblicista svolge i temi dello stato moderno (tribunali, stampa, scuola, nazionalità, chiesa, propaganda rivoluzionaria) «risolve invariabilmente tutti questi fondamentali problemi della vita interna della Russia autocratica nel severo spirito della tendenza ufficiale. (...) Riecheggia l'idea centrale di Pobedonoscev sulla futura creazione di una forte Russia per mezzo della integrazione della chiesa ortodossa nella vita russa. (.....) Il procuratore del sinodo scrive nelle sue lettere che all'epoca della composizione de I fratelli Karamazov, Dostoevskij "veniva da me ogni sabato sera e tutto agitato mi raccontava le nuove scene del romanzo"». Conclude Grossman che «gli ideali di Dostoevskij sono alti e umani, mentre l'insegnamento che si desume è erroneo e inconsistente». Tuttavia «tutto ricopre l'appassionato amore dell'autore per gli uomini» e anche «la capacità di penetrare in profondità negli animi sofferenti». Dostoevskij (commenta Bori) «fa parlare non solo l'amore di Gesù per l'umanità, ma persino l'amore del Grande Inquisitore per l'umanità».
E ricorda, Bori stesso, studioso e ammiratore di Tolstoj, di avere fin da giovane teologo, un grande debito verso la Leggenda del Grande Inquisitore. Negli anni Sessanta, nello slancio di passione ecumenica, andò con un amico al collegio degli studenti di teologia della Facoltà Valdese, a Roma. «Chi ci accolse ci diede una lezione indimenticabile. Dare un segno di unità al mondo? Ma anche la torre di Babele era stato un tentativo di dare segno di unità, distrutto da Dio! Uscimmo dalla discussione sbigottiti e sconfitti». Sembrò loro di pensare come il Grande Inquisitore, quando dice: «Ultimerà la torre chi li sfamerà e noi li sfameremo, in nome Tuo, facendo credere di farlo in nome Tuo».
Da quel giorno, Bori si dice «dalla parte della purezza, piuttosto che della pienezza, della verità piuttosto che della comunione ad ogni costo». Ritiene opportuno «prendere distanza dagli aspetti polemici, storicamente datati, che la Leggenda porta con sé dalla sua origine. Credo che sia importante partire da se stessi, interrogare se stessi, piuttosto che accusare altri».
E conclude proponendo, in una pagina, tre modi aggiornati di rifiutare le tentazioni del miracolo, del mistero, del potere: «portare quel che si può portare di vita dello spirito, anche se non si è capaci di portare liberazione materiale»; «non proporre dogmi o credenze, ma una fede come tensione e apertura»; «imparare a essere una minoranza - fosse anche di uno - che non vuole diventare maggioranza e che, chiedendo libertà per se stessa, la chiede ancor più per gli altri». Mi sembra che in queste linee sia detta la personalità e l'opera di Pier Cesare Bori.
Enrico Peyretti, 11 dicembre 2016