venerdì 9 marzo 2018

Libri
Pier Cesare Bori, La tragedia del potere (Dostoevskij e il Grande Inquisitore) EDB 2015, pp. 45, euro 5,50
Le Edizioni Dehoniane Bologna (www.dehoniane.it) hanno avuto l'ottima idea di riprendere in piccoli volumetti brevi lavori di Pier Cesare Bori (1937-2012), grande studioso, con la visione di un profondo universalismo spirituale, che considero il più serio fattore di cultura di pace. Dopo Il dialogo al pozzo. Gesù e la Samaritana secondo Tolstoj (2014), ora abbiamo La tragedia del potere. Dostoevskij e il Grande Inquisitore (2015, pp. 45, euro 5,50, originale 2005).
Nel cap. 4, Roma o Mosca, Bori nota che il Cristo di Dostoevskij, quando entra a Siviglia, fa pure miracoli, con un misterioso sapere e potere. E nota che Dostoevskij attacca Anna Karenina, nel Diario di uno scrittore, per le posizioni contrarie alla guerra contro i turchi: «Non è russo chi non riconosce la necessità di conquistare Costantinopoli». E quando Dostoevskij «si consulta con il procuratore del santo sinodo sulla redazione de I fratelli Karamazov non si fa egli stesso assertore di un nazionalismo religioso-ortodosso e slavofilo, in cui a Roma si sostituisce Mosca?» chiede Bori.
Scrive Leonid Grossman che quando Dostoevskij pubblicista svolge i temi dello stato moderno (tribunali, stampa, scuola, nazionalità, chiesa, propaganda rivoluzionaria) «risolve invariabilmente tutti questi fondamentali problemi della vita interna della Russia autocratica nel severo spirito della tendenza ufficiale. (...) Riecheggia l'idea centrale di Pobedonoscev sulla futura creazione di una forte Russia per mezzo della integrazione della chiesa ortodossa nella vita russa. (.....) Il procuratore del sinodo scrive nelle sue lettere che all'epoca della composizione de I fratelli Karamazov, Dostoevskij "veniva da me ogni sabato sera e tutto agitato mi raccontava le nuove scene del romanzo"». Conclude Grossman che «gli ideali di Dostoevskij sono alti e umani, mentre l'insegnamento che si desume è erroneo e inconsistente». Tuttavia «tutto ricopre l'appassionato amore dell'autore per gli uomini» e anche «la capacità di penetrare in profondità negli animi sofferenti». Dostoevskij (commenta Bori) «fa parlare non solo l'amore di Gesù per l'umanità, ma persino l'amore del Grande Inquisitore per l'umanità».
E ricorda, Bori stesso, studioso e ammiratore di Tolstoj, di avere fin da giovane teologo, un grande debito verso la Leggenda del Grande Inquisitore. Negli anni Sessanta, nello slancio di passione ecumenica, andò con un amico al collegio degli studenti di teologia della Facoltà Valdese, a Roma. «Chi ci accolse ci diede una lezione indimenticabile. Dare un segno di unità al mondo? Ma anche la torre di Babele era stato un tentativo di dare segno di unità, distrutto da Dio! Uscimmo dalla discussione sbigottiti e sconfitti». Sembrò loro di pensare come il Grande Inquisitore, quando dice: «Ultimerà la torre chi li sfamerà e noi li sfameremo, in nome Tuo, facendo credere di farlo in nome Tuo».
Da quel giorno, Bori si dice «dalla parte della purezza, piuttosto che della pienezza, della verità piuttosto che della comunione ad ogni costo». Ritiene opportuno «prendere distanza dagli aspetti polemici, storicamente datati, che la Leggenda porta con sé dalla sua origine. Credo che sia importante partire da se stessi, interrogare se stessi, piuttosto che accusare altri».
E conclude proponendo, in una pagina, tre modi aggiornati di rifiutare le tentazioni del miracolo, del mistero, del potere: «portare quel che si può portare di vita dello spirito, anche se non si è capaci di portare liberazione materiale»; «non proporre dogmi o credenze, ma una fede come tensione e apertura»; «imparare a essere una minoranza - fosse anche di uno - che non vuole diventare maggioranza e che, chiedendo libertà per se stessa, la chiede ancor più per gli altri». Mi sembra che in queste linee sia detta la personalità e l'opera di Pier Cesare Bori.
Enrico Peyretti, 11 dicembre 2016


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