venerdì 16 settembre 2016

16 09 05 Ignorantia initium sapientiae
Mi sono chiesto se c'è un rapporto di significato tra il “so di non sapere” di Socrate (Apologia VI b,c,d) e il “initium sapientiae timor Domini” (Bibbia, Salmo 111, vv. 9-10; Proverbi 7 – 10 ). Ne ha scritto bene Augusto Cavadi in “Filosofia e teologia”, 2012, 2.
Che cosa vuol dire “timore di Dio”? Se volesse dire paura, non sarebbe una gran sapienza quella che nasce da lì. Più seriamente, nel senso biblico più puro, vuol dire avvertire il mistero indicibile di Dio, vuol dire il senso delle proporzioni tra me e lui, che non temo come un gigante minaccioso, ma intuisco come un Vivente di una vita indescrivibilmente più viva della mia. Entrare e procedere in questo sentire è forse la “docta ignorantia” (Agostino, Bonaventura, Cusano e altri), ma con portata non tanto intellettuale quanto vitale: sento che sono davanti ad un Presente che mi intimidisce senza umiliarmi, mi mette tenera soggezione ma non mi abbassa nella sottomissione, sono davanti al Santo che ammiro ma non si allontana da me così difettoso, non si mette ad irraggiungibile frustrante altezza. Come Giobbe in fondo alle sue sventure, chiudo la bocca ma non perdo il riferimento vitale al Vivente. Non so, eppure so molto bene. Non ho il sapere che definisce e inquadra, con spirito di possesso, ma nasce in me la fiducia, che è più intelligente e lungimirante del sapere. Che ne sa il bambino della sua mamma, carezze e latte? Non ne sa nulla ma sa che c'è, e se la perdesse sarebbe perduto lui.
Invece, il dubbio cartesiano mi pare una via assai meno saggia. Di mestiere fa il controllore sul tram: “vediamo se hai diritto di viaggiare, anzi di esistere”. Sembra dirmi: “squalifico tutto, poi vediamo se qualcosa si salva perché si impone; ecco, il primo sono io, poi vediamo se c'è altro”. Filosofia dell'ombelico e della solitudine, dell'autosufficienza e dell'onnicontrollo, degenerazione del senso critico (non vorrei offendere Cartesio), non filosofia dello sguardo aperto, perché nel corpo sono più belli e intelligenti gli occhi dell'ombelico. Il quale è pure ben degno, è la firma di nostra madre, e di tutte le generazioni di cui io sono qui l'ultimo. Certo, gli occhi non vedono tutto, ma, collegati al cuore, attendono la luce. Sono fatti per la luce. E per gli occhi degli altri, che attendono i nostri.
Se intendiamo bene il “timore di Dio”, come l'acuta intelligente interrogativa irritante ignoranza di Socrate, ci troviamo incoraggiati a pensare e conversare tra noi per imparare. C'è tanto da imparare. L'inizio è nel bambino al primo giorno di scuola, anzi, di vita, e tutti siamo sempre quel bambino invecchiato, grazie a Dio.
E. P.


16 09 06 Serve o vale?
A cosa serve? A niente. Allora, cosa vale? Attenti, può darsi che valga moltissimo. A che serve un bel tramonto? O un'alba trepidante di luce sorgiva? Servono ad essere belli. A che serve la bellezza? Non serve ad altro, non porta a nessun risultato. Oppure, per un momento, ci fa toccare il cielo con un dito, ci fa assaggiare un granello di quella sempre inarrivabile felicità. Non serve: è.
La bellezza è il risultato. A che serve essere onesti? Ad essere onesti. Questi sono punti di arrivo del mondo. La logica strumentale attraversa le cose e le azioni, e le abbandona, senza arrivare mai a casa. La logica ammirativa riposa ed esulta nello scopo raggiunto. A che serve cucinare e tenere bene la casa? Oh, è chiaro: serve molto bene a vivere bene. A che serve curarsi? A restare sani, è ovvio. Così una quantità di nostre continue azioni. Ma ciò che ottengono finalmente non serve: regna.
La vita compiuta è sempre un passo ancora in là, ma quando ne raggiungiamo un piccolo momento, la nostra azione non serve più: siamo arrivati, esultiamo, siamo nella pace, sentiamo il piacere.
Il bello, il giusto, il buono, il vero sono inutili per la mentalità funzionale, perché non producono altro che se stessi. Una cosa che “funziona” non è ancora il compimento della vita. La tecnologia, se diventa tecnocrazia riduce il mondo ad un mezzo. Per quale fine? Se non c'è risposta a questa domanda, l'uomo non c'è ancora, deve ancora nascere, e anche lui è solo uno strumento. Gira in tondo senza uscita, carico di strumenti così tanto utili che sono inutili. Siamo molto poveri nel tipo di vita oggi imperante: abbiamo tutto e non abbiamo niente. Ma questo non è del tutto vero: tanta gente sa ammirare un albero, un ruscello, un fiore, e gustare una musica. Almeno vorrebbe. Magari corre chilometri all'impazzata per un momento a guardare il mare. Ma è questo che desidera, anche se lo inzacchera di chiasso. Anche se la pubblicità gli ha distorto i sensi. L'umanità è in cammino perché è disperatamente scontenta.
E. P.