martedì 28 aprile 2020

Disobbedienza ed etica (2 marzo 2020)

Disobbedienza ed etica

di Enrico Peyretti

Al prof. Leandro Limoccia per il Seminario sulla Disobbedienza civile alle leggi ingiuste presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II. (2 marzo 2020)
Propongo alcuni semplici appunti sul tema proposto "Disobbedienza ed etica", attorno al dibattito sulla “disobbedienza civile alle leggi ingiuste”. Questa disobbedienza non per nulla è detta “civile”, cioè, non solo esercitata con atti nonviolenti, ma pubblica, dichiarata lealmente nella civitas, nell'agorà dei cittadini: non è la disobbedienza occulta, per un utile proprio opposto al bene di tutti. In quanto leale, l'atto di disobbedienza accetta la sanzione, e così rende omaggio al principio della legge, pur negando obbedienza ad una determinata prescrizione in quanto ingiusta, contraria, per la coscienza del disobbediente, ad una superiore giustizia. L'obiezione di coscienza è una obiezione di giustizia.
L'obiettore non è un fanatico, non pretende di possedere un superiore infallibile giudizio sulla ingiustizia delle legge disobbedita, ma testimonia che la propria coscienza avverte quella ingiustizia, a cui non può obbedire. L'obiettore di coscienza, che resta un cittadino leale, accetta la discussione, può venire persuaso e cambiare convinzione («Solo gli dèi e i folli non cambiano mai opinione» secondo un ripetuto aforisma). Ma può anche convincere altri che quella determinata legge deve essere modificata per renderla più giusta. Si può dire che contestare una legge con atti di resistenza senza violenza, è partecipare al più ampio lavoro di legislazione, compiuto non solo dai legislatori, ma da tutta la società, dalla cultura diffusa in continua maturazione, anche a partire dalla prassi stimolante di qualcuno più sensibile alla giustizia mancata (cfr Rodolfo Venditti, L'obiezione di coscienza al servizio militare, Terza edizione, Giuffré, Milano 1999)

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La coscienza umana robusta e formata obbedisce alla legge giusta della società, non passivamente, ma interiorizzandola, facendola propria, per rispetto e solidarietà con tutti gli altri; perciò obbedisce anche a se stessa, realizza liberamente uno scopo comune che essa riconosce buono. Per agire così, la coscienza libera vaglia le leggi, obbedisce non all'autorità in quanto tale, ma al bene comune al cui servizio l'autorità è istituita; e obbedisce perché constata che il comportamento prescritto è utile al bene comune. La coscienza libera è anche capace di non seguire pedissequamente la lettera della legge, di modificarla nell'azione, affinché realizzi meglio il suo fine, oppure di non applicarla per nulla, se la trova ingiusta o dannosa.
Invece, la coscienza debole, incerta, passiva, riceve la legge da fuori, la obbedisce per evitare la sanzione, senza farne proprie le ragioni e il fine. Si può paragonarla ad una schiena debole, rotta, che non può stare ritta da sola, a cui occorre applicare un forte rigido busto che la sostenga.
Nella società ci sono cittadini dalla coscienza forte e altri dalla coscienza debole. Come regolarsi nella loro relazione? Non si può costringere gli uni al comportamento degli altri, perché entrambi falserebbero la propria coscienza, mancherebbero al rispetto di se stessi. Troviamo un esempio antico affrontato con saggezza.
Nella comunità cristiana primitiva di Corinto, alcuni ritenevano peccato mangiare la carne che era stata sacrificata agli idoli, venduta sul mercato. San Paolo, scrivendo a questi cristiani, dice di sapere che gli idoli sono nulla e dunque egli è libero di mangiare quella carne, ma se ne astiene per non scandalizzare – far inciampare, fare agire contro coscienza - il fratello dalla coscienza debole. Questi, però, non deve giudicare la sua libertà (cfr Prima Corinzi 8 e 10, 29-30). Ecco la regola: il forte non scandalizzi il debole, e il debole non giudichi il forte nella sua libertà. Ciò vale, mi sembra, per ogni comunità umana, dove le coscienze si confrontano in modi diversi, con maggiore o minore autonomia, con la legge in vigore commisurata ad una più grande verità e giustizia, che è anzitutto il rispetto reciproco.
L'obiezione di coscienza è un moto intimo, alla radice profonda dei comportamenti esterni, che paragona la legge e la sua osservanza con istanze più grandi, che sente inviolabili. Se ne vede un esempio nel vangelo: «Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo 5, 20). La coscienza che sorpassa la legge corrente non impone nulla agli altri, si impegna di persona. A maggior ragione la coscienza obietta e disobbedisce quando una legge non rispetta la giustizia fondamentale dei diritti inviolabili della persona umana. L'obiezione è obbedienza all'istanza morale più alta e più intima di quanto una legge riesca ad incarnare, ovvero è obbedienza a ciò che una legge ingiusta non rispetta.
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Ma veniamo a confrontare un atto di disobbedienza di coscienza con i principi generali dell'etica.
Obbedire alle leggi della società cui si appartiene è cosa morale, come è altrettanto morale l'epicheia, o equità, che sottrae la giustizia all'astrattezza giuridica, la applica al caso particolare, realizzandola nel modo migliore, restituendola alla coscienza morale. Scriveva Italo Mancini: «Occorre passare dall'idea di giustizia al travaglio dell'uomo giusto, al suo discernimento consapevole, alla sua azione ribollente, irta di ostacoli, di crepe, di cadute e di riprese, ma sempre sorretta da una percezione di luce che i ricordati principi non cessano di dargli, in vista di un allargamento della terra […] Partendo dall'uomo giusto è possibile delineare un éthos concreto, in vista della fedeltà alla terra, alla città degli uomini “che non è lecito abbandonare” (Agostino), in vista della pace» (L'ethos dell'Occidente, Genova 1990, pp. 24-25 , citato da G. Piana, La verità dell'azione. Introduzione all'etica, Morcelliana, Brescia 2011, p. 268).
Spesso gli obiettori di coscienza tanto al servizio militare quanto ad altri aspetti problematici della legislazione si sono ispirati alla morale cristiana. L'autore appena citato, Giannino Piana, autorevole in questo campo, scrive pagine che trovo chiarificatrici, e che cito di seguito, in forma riassunta (da In novità di vita, vol I - Morale fondamentale e generale, Cittadella editrice, Assisi 2012, pp. 418-423).
L'importanza delle norme per orientare la condotta morale è fuori discussione. La “norma” è un referente che va preso in seria considerazione come dato dal quale non è possibile prescindere. Le norme tuttavia presentano sempre un certo grado di astrattezza: tra esse e la situazione concreta vi è spesso un salto che impone al soggetto un intervento creativo, legato all'esercizio della libertà. Si tratta di uno spazio vuoto, che può essere colmato solo dalla coscienza morale del singolo, chiamato a verificare nei fatti la congruenza che la norma possiede in relazione alle esigenze della situazione e alle proprie reali possibilità di intervento su di essa. Già Aristotele rilevava che la “legge” vale nella maggior parte dei casi, ma non nella totalità: nella realtà ci sono situazioni emergenti nelle quali il giudizio ultimo va lasciato alla decisione del singolo. La tradizione del pensiero greco e medievale, per questo compito, ha introdotto la categoria dell'epikeia (in latino prudentia). Questa “virtù” (così la chiama Tommaso d'Aquino) definisce l'atteggiamento dell'uomo nei confronti della “legge”. Tale virtù non entra in gioco soltanto quando la legge comanda qualcosa di immorale, ma anche quando chiede al singolo qualcosa al di sopra delle sue possibilità, oppure quando il singolo constata seriamente che ciò che la legge richiede non corrisponde al vero bene della comunità. Quando la norma è in conflitto con le esigenze della giustizia naturale, oppure quando è incapace di interpretarne le istanze, l'uomo non solo non è tenuto ad aderirvi, ma deve anche opporsi ad essa. Se talvolta l'epikeia ingiunge di sottrarsi all'obbligo della norma, altre volte obbliga a dare più di quanto la norma chiede, cioè quando l'adesione allo spirito della legge richiede che si vada oltre ciò che la lettera chiede. Insomma, l'epikeia tende a rivendicare la superiorità della giustizia naturale su quella legale.
Ma quale rapporto deve darsi tra ordine morale e ordine legale? E con quali criteri va determinato il dovere di obbedienza o meno alle leggi positive? Sulla prima domanda si può dire: l'ordine giuridico riguarda la condotta della persona su questioni di rilevanza sociale; l'ordine morale riguarda l'intera condotta umana. Nell'ordine giuridico ha grande importanza l'efficacia; nell'ordine morale l'unico criterio è la rispondenza ai valori.
Sulla seconda domanda, sul dovere di obbedienza: è chiaro che la legge “giusta” obbliga in coscienza, come la legge “ingiusta” (immorale) non è in coscienza vincolante. La questione è più complessa nella “zona grigia”, dove occorre un attento discernimento. Sia l'imperfezione della legge, sia il pluralismo etico presente nella società, accrescono la distanza tra ordine legislativo e ordine morale. Spesso il legislatore deve valutare sia l'efficienza sia la tolleranza. Il cittadino, più che con leggi apertamente ingiuste, si confronta con leggi che, per la complessità dei casi, lasciano scoperta la tutela di alcuni valori a cui la sua coscienza tiene. Il discernimento è delicato: deve tener conto dei valori in gioco, della natura specifica della legge, del contesto sociale, dell'effetto possibile.
L'obiezione di coscienza è l'applicazione del principio dell'epikeia, in alcuni casi legittimo, in altri anche doveroso. Nella Bibbia, già nel Primo Testamento, e ancor più decisamente nel Secondo, personaggi significativi, di alto impegno spirituale, e il Cristo stesso, scelgono di dissentire nei confronti della legge della società, per obbedire a una legge superiore, che sentono venire da Dio nella loro coscienza.
Quando l'epikeia chiede disobbedienza, questa intende essere disobbedienza etica.
L'obiezione di coscienza deve essere ben ponderata nelle sue condizioni. Il motivo etico che la giustifica è l'opposizione di una legge ad un valore fondamentale per la coscienza. Naturalmente, la complessità delle situazioni, e il pluralismo delle concezioni etiche rendono difficile il giudizio sulla correttezza morale delle leggi. Questa correttezza va definita non in base ad un'etica particolare, ma tenendo conto anche della convergenza, sia pure minimale, dei diversi sistemi di valori, in vista del bene comune. Tuttavia, il riconoscimento pubblico del diritto all'obiezione di coscienza (in Italia relativo al servizio militare, all'aborto) è un'importante conquista di civiltà. Il legislatore, rinunciando a far valere a tutti i costi le esigenze della legge per rispetto della coscienza personale, non dimostra debolezza, ma piuttosto l'autorevolezza di un potere consolidato, che riconosce i limiti naturali della legge e rispetta il sentire morale autentico delle singole persone.
Considerate queste chiarificazioni di Piana, possiamo concludere che la disobbedienza dell'obiettore, dove la legge non prevede l'esenzione per motivo di coscienza, non si oppone all'etica della convivenza regolata, non disconosce la necessità della legge (non è semplice anarchia individualistica, come appare a cittadini superficiali), perciò non viola l'etica, ma contribuisce al suo possibile sviluppo. La disobbedienza di coscienza è un atto etico. Questa disobbedienza, a caro prezzo, dove non è inclusa in una legalità più evoluta, è evoluzione della legge verso una maggiore corrispondenza all'etica umana. La disobbedienza così motivata è obbedienza ad un'etica vissuta nella coscienza: questa disobbedienza obbedisce.

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Vorrei concludere con un esempio semplice, lasciando da parte i casi più noti di disobbedienza etica ad una norma per obbedire ad una norma superiore. Dire la verità è indubbiamente un alto dovere morale. Ma «che cosa significa dire la verità?» (Dietrich Bonhoeffer, Etica, Bompiani 1983, pp. 307 e ss.) .
«Un maestro chiede a un bambino dinanzi a tutta la classe se è vero che suo padre torni spesso a casa ubriaco. È vero, ma il bambino nega. (…) Egli dice effettivamente il falso, ma in pari tempo esprime una verità, cioè che la famiglia è un'istituzione sui generis nella quale il maestro non ha diritto di immischiarsi. La risposta del bambino è una bugia, ma una bugia che contiene più verità, ossia che è più conforme alla verità che non una risposta in cui avesse ammesso davanti a tutta la classe la debolezza paterna. In base alle capacità che aveva, il bambino ha agito bene; la colpa della bugia ricade esclusivamente sul maestro» (pp. 310-311). Quel bambino, per istinto d'amore, ha fatto obiezione addirittura ad una alta legge morale, ha disobbedito alla legge morale, ma solo perché questa legge è stata usata dal maestro in modo immorale. «Dire la verità non è dunque soltanto una questione di atteggiamento personale, ma anche di esatta valutazione e di seria riflessione sulla situazione reale» (p. 308). Quel bambino ha disobbedito alla norma astratta, grande e preziosa ma astratta, del dire la verità, per obbedire alla legge concreta dell'amore per suo padre, legge offesa dal maestro. Maestro vero, in questo caso, è il bambino disobbediente, e cattivo allievo è quel maestro senza rispetto per il bambino, rispetto che vale più di una verità puramente fattuale.

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