lunedì 3 gennaio 2022

 Ricordando Pier Cesare Bori

Quest'anno 2022, il 4 novembre, saranno dieci anni dalla morte di Pier Cesare Bori. Ne scriverò di nuovo e pubblicherò pensieri suoi inediti, ma intanto deposito nel mio blog un articolo di dieci anni fa, che fa conoscere la sua anima e il suo lavoro. Lo ricordo e lo ripresento, con immensa gratitudine. Enrico Peyretti, 3 gennaio 2022

"Il filo interiore che lega tutte le cose"

(pubblicato in Testimonianze, n. 486-487 (novembre 2012-febbraio 2013), “Immagini della Resurrezione per gli uomini e le donne degli anni duemila”, pp. 103-106

 

Pier Cesare Bori, riformatore radicale, studioso universalista

Non so, per limite mio, se Pier Cesare Bori ha scritto specificamente sulla resurrezione. Ho letto molto di lui, ma certo non tutto. Egli è stato un riformatore radicale, nel senso che è andato alla radice comune della "pluralità delle vie" religiose e sapienziali, che ha studiato profondamente, in modo non sincretistico, ma seriamente ecumenico, universalista. Oltrepassando le parole (pur necessarie) nel silenzio intenso dei quaccheri (ai quali aveva aderito senza rinnegare il cattolicesimo), ha superato religiosamente le religioni, rispettandone i differenti valori: come auspicava Bonhoeffer, è entrato in un "cristianesimo non religioso". Per Pier Cesare il riferimento più grande era «la luce che illumina ogni uomo» e «l'adorare Dio in spirito e verità» (vangelo di Giovanni 1,9; 4,24).

L'ho conosciuto in una amicizia durata oltre cinquant'anni, dal 1958, in un rapporto intenso dal quale credo di avere ricevuto molto e imparato qualcosa. Per sei anni, dal '94 al '99, ci siamo scambiati il diario. Sono uno dei molti amici ai quali egli ha comunicato la sua intensa esperienza della malattia, della preparazione consapevole e limpida alla morte, anche inviando in anticipo il libro CV, (curriculum vitae), scritto negli ultimi mesi, che uscirà prossimamente da Il Mulino [uscito nello stesso 2012 della morte di Bori]. Malattia e funerale

Il grande senso dell'amicizia

Ha vissuto la malattia in spirito umile e alto, sereno. Il suo funerale, il 7 novembre 2012 nell'Archiginnasio di Bologna, che aveva voluto senza alcun segno religioso «per non escludere nessuno», è stato altamente religioso (io intendo religione non sempre in opposizione a fede, ma come universale collegamento di tutte le realtà: «religiosus esse nefas, religentes oportet», diceva Aulo Gellio). Tra i desideri di Pier Cesare per il suo commiato c'è anche che i suoi amici cattolici, se vogliono, possono ricordarlo in un'eucaristia, in una preghiera. L'amicizia, al suo funerale, è stata la preghiera che ha unito tutti, chi prega e chi non prega, chi prega in un modo e chi in un altro. In un altro recente funerale cattolico, visto che oggi sempre più sono presenti non cristiani e non credenti, mi chiedevo: Quale parola per loro? Forse il segno grande dell'amicizia. Siamo lì come amici di chi è morto. L'amicizia – pur con tutti i nostri limiti – è un essere gli uni per gli altri, è un volere il bene altrui, superando il proprio interesse. È qualcosa che ci porta oltre noi stessi, ci trascende. C'è nella vita qualcosa che è dono, creatività, che oltrepassa i limiti delle cose, delle posizioni, degli interessi e bisogni. Già in questa vita mortale viviamo cose superiori al limite chiuso, anche se in piccola misura. La morte è nella vita, ma la vita abbraccia la morte, l'avvolge, è invisibilmente più grande. Quando non ci è data una fede chiara, davanti alla morte ci aiuta l'esperienza dell'amicizia. Essa si rinsalda nel dolore come nella gioia. Non è solo un cercare per sé, ma un desiderio di donare. Il morto ci ha dato del bene, noi lo diamo a lui, come ai suoi cari. C'è un bene che resiste alla morte. La morte non vince tutto. Non si tratta solo di una memoria mentale, ma di una dimensione reale di vita. L'amicizia si affaccia sul mistero vivo. Pier Cesare Bori ha scritto agli amici il 24 ottobre, dieci giorni prima di morire, l'ultima lettera che terminava così: «Non mi mancano le risorse spirituali per affrontare queste difficoltà: la semplice preghiera di invocazione, la meditazione che ti aiuta a sorridere delle cose che passano. Ma ci sono e ci saranno momenti di angoscia e o di paura o di dolore fisico in cui è difficile attingere a quelle risorse, mentre vorrei vivere al meglio anche quei momenti. Forse qualcuno di voi ha dei suggerimenti da darmi... Comunque, forza a noi tutti!  Un saluto caro a tutti, Pier Cesare».

La forma più decente di cristianesimo

Tra i suoi studi, ha curato la pubblicazione in italiano dei testi fondativi della tradizione quacchera, che considerava la forma più decente di cristianesimo. Bisognerebbe cercare in quelle fonti il pensiero sulla morte e l'oltre-morte nel quale egli meglio si poteva riconoscere. Per ora riporto queste righe da un suo appunto del 1993: «Il tratto distintivo dell'esperienza degli Amici (“Quaccheri”) consiste nell'incontro silenzioso, che può essere oggi inteso e vissuto nel senso più ampio: come ricerca della luce, come adorazione, come preghiera, come meditazione, come speranza di poter discernere la propria via, come momento generativo di parole nuove. La premessa di questo è la consapevolezza della presenza della luce interiore in ogni persona, che induce sia all'attenzione e all'ascolto reciproco, sia all'impegno sociale». Immagino – salvo migliore verifica nei suoi scritti e testimonianze - che il suo atteggiamento interiore nell'interrogarsi sul dopo-morte e nello stare con fiducia nella luce universale, sia stato il silenzio. Il silenzio non è mutismo, non è astinenza dal pensare e comunicare. Il silenzio è anzitutto rispetto del mistero, umiltà delle nostre parole sobrie e delle nostre convinzioni sempre vigilanti in attesa sulla soglia della verità più grande. Ci sono ricerche e riflessioni importanti di Bori sul silenzio, nutrite di ascolti profondi. Egli distingue, in latino, «tacere» negativo e «silère» positivo. «Il silenzio di fronte alla Realtà ultima, sia esso all'interno o sia all'infuori della rivelazione, contiene sia un aspetto negativo, il tacere, sia uno positivo, l'aver parte a questa indicibile Realtà» (Tipi di silenzio, in Universalismo come pluralità delle vie, Ed. Marietti 1820, Genova-Milano 2004, p. 105; ma si veda da p. 103 a p. 118). Nella Bibbia, «il “tacere” come avvicinarsi alla realtà divina è soprattutto il silenzio dell'ascolto, è una invocazione affinché Dio parli (…). Dunque il silenzio è anzitutto un tacere. E tuttavia (…) nella comunione con il Messia, nel dimorare in lui si intravede una unione che va oltre ogni dire» (p. 106). E poi, Bori cita George Fox (1624-1691) il mistico iniziatore del cristianesimo quacchero: «Dimorando nella luce, non vi sarà occasione di inciampo, perché tutte le cose con la luce sono svelate. (…) Qui la verità sconosciuta al mondo è manifestata, essa vi trae fuori dalla prigione e vi vivifica nel tempo, verso quel Dio che è fuori del tempo» (p. 111). Questa luce silenziosa è una «fiducia» (cfr Lampada a se stessi. Lettere tra università e carcere, Marietti 1820, Milano 2008, pp. 10-11). La fiducia è più di una constatazione, è più aperta di una affermazione dottrinale. La fiducia tace e ascolta più che pronunciarsi, e tanto meno definire. Al termine del suo libro Per un consenso etico tra culture (Marietti, Genova, edizione riveduta e aumentata, 1995), Bori raccoglie alcuni «convincimenti etici fondamentali che molta parte dell'umanità ha posto e pone a fondamento del vivere sociale», convincimenti trasmessi «in una straordinaria varietà di culture popolari soprattutto attraverso la sapienza della donna» (pp. 106-108). Tra questi, «il rispetto e la pietà per ogni vivente; la vita che si acquista perdendola; la tranquillità e la pace che vengono dalla certezza di una giustizia non affidata alla storia». Mi sembrano accenni a valori che la vita umana sa pure riconoscere, e che sono così intimi e alti da poter affrontare e premere sui limiti mortali della nostra esistenza dentro il tempo storico.

Vivere morendo

Mi sembra, da quanto ho capito di lui e da qualche suo cenno, che Bori si sia sentito piuttosto estraneo al dibattito tra una esegesi più realista e una più simbolica dei passi neotestamentari sulla resurrezione (cfr, per esempio, Giuseppe Barbaglio e Aldo Bodrato, Quale storia a partire da Gesù? II parte. Della risurrezione. Il dibattito, Ed. Esodo-Servitium, 2008; Giorgio Bouchard, Il Signore è veramente risorto. Testimonianze tra rivelazione e storia, Effatà editrice, Cantalupa, 2011). Forse poteva sembrargli un troppo abbondante parlare, sia pure con differenti letture, e un troppo scarso tacere-ascoltare, quel silenzio attivo che pare da lui preferito nei brani sopra citati. Resurrezione, glorificazione, esaltazione, ascensione, giustificazione, signoria, pienezza di vita: ogni termine neotestamentario su questa verità relativizza e completa gli altri termini. Tutte queste parole, anche se la tradizione ha privilegiato “resurrezione”, sembrano insufficienti a dire il mistero, tutte sono un dire e un tacere ascoltante. Del resto, la resurrezione di Gesù non è un'esplosione trionfale di vita imposta ai suoi uccisori, ma una delicata e forte presenza viva affidata alla fede. Morire vivendo Dopo aver letto il suo CV, da lui inviato in pdf a pochi amici in ottobre, scrivevo a Pier Cesare: «Qual è il tuo filo interiore tra tutte le cose? La sensibilità alle luci varie, plurali, convergenti o irradianti dalla luce interiore (Gv 1,9), seguita con affidamento, senza sicumera, in pace attraverso i travagli. Mi pare che il tema della luce interiore sia la tua idea-guida. Questa tua praeparatio ora ci ammaestra. Non ti faccio un elogio, non tutto capisco, ma ricevo e ti ringrazio. L'espressione “universalismo sapienziale” rende bene la tua ottica (...) Parli di “desperatio fiducialis”, riguardo agli anni 2000 difficili. Proponi “ricomporre le spaccature”, anche dolorose, in una superiore armonia. E ancora dici: “dall'invocazione alla contemplazione”. (…). Vedo nel tuo CV un colmare la vita (Gv 19,30: consummatum est), oppure affidarla (in manus tuas... Lc 22,46), e ciò nell'abbandono (Eloì, Eloì... Mt e Mc). Appunto: “desperatio fiducialis”. Vorrei imparare io a vivere morendo e morire vivendo».

Enrico Peyretti, 23 novembre 2012

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