sabato 7 novembre 2020

 23-11-19 

Elogio (o lamento) del quotidiano


Che al tramonto segua un'alba, dopo il buio della notte, è esperienza che ci dà tranquillità. Così, l'attesa della primavera sotto la cappa dell'inverno.

Diciamo buongiorno e buonasera al vicino, senza pensare che così auguriamo (più o meno sinceramente) una buona, o felice, giornata, e una notte serena, riposante, libera da incubi. È regola tra noi dirci che desideriamo la felicità, o almeno la pace, del nostro prossimo. L'umanità ha introdotto nei suoi usi, quasi automatici, il desiderio del bene del prossimo. Non sapevamo di essere (o almeno mostrarci) così buoni.

E giorno dopo giorno, facciamo le nostre cose, che per lo più sono le stesse: lavarci, nutrirci, lavorare, vedere se c'è qualcosa di nuovo. Ecco: qualcosa di nuovo.

Desideriamo e temiamo che qualcosa di bello o di preoccupante si aggiunga al tran tran che conosciamo. Portiamo il peso dei giorni uguali, con qualche soddisfazione per ogni cosa solita fatta almeno nel solito modo, quello che diciamo “normale.” E, nello stesso tempo, non riusciamo a stare nell'abitudine, nel normale, sempre tesi in un desiderio o in un timore. Il nuovo è sconosciuto. La serie dei giorni non ha garanzia di continua normalità.

Della normalità abbiamo bisogno. Della normalità non ci accontentiamo. Per non dire di quella normalità che è peso, tormento, come la lunga malattia, come la disgrazia resa condizione permanente.

Quotidiano vuol dire “ogni giorno”. Noi facciamo conto, addormentandoci e svegliandoci, che il nuovo giorno sia almeno non peggiore del precedente. Ma in fondo al cuore non ci basta che sia non peggiore. L'uomo è un essere aperto in alto e in avanti, verso il bene e il meglio. Anche chi vuol morire vuole qualcosa di meglio della vita che ha. Anche l'ergastolano vuole che il domani sia possibilmente meno oppressivo di oggi. Così ogni malato.

In realtà, non c'è “quotidiano”. C'è cammino nel tempo. Nessun giorno basta. Se oggi è andata bene, speriamo anche domani. Se oggi dobbiamo lamentarci, o piangere, o disperare, noi stiamo invocando un bene, un meglio. Noi preghiamo continuamente, anche senza essere devoti di nessuna religione. “Il tuo desiderio è la tua preghiera” dice Sant'Agostino. Siamo fatti di desiderio, nostra malattia e nostra salute. Siamo sempre nel domani più che nell'oggi, nella primavera più che nell'inverno.

Ma, si dirà, c'è anche chi, molto concretamente, non si fa attese per evitare illusioni. Ma non sta anche lui sperando in un domani non peggiore dell'oggi? Forse possiamo dire che non siamo animali del quotidiano, ma animali del domani, del domani di ogni domani. Buonanotte, e poi buongiorno!

e. p..


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