giovedì 27 ottobre 2022

"Quale Dio? Quale Cristianesimo? La necessità di ripensare la fede

 Convegno  2 aprile 2022 

(Il libro degli atti esce in ottobre 2022 dall'Editore Gabrielli)

Testo dell’intervento di Enrico Peyretti

La proposta di riflessione chiede: è possibile oltrepassare il teismo, cioè “l’idea di un Dio assolutamente separato dal mondo che interviene dall’esterno per salvarlo”. E chiede anche di andare “oltre le religioni”

***

Molte religioni, una sola luce

La verità dai molti raggi

tocca ciascuno

con un raggio appena.

Io sarò fedele

a questo mio

che sia piccolo o grande.

Se invidiassi il tuo raggio

e lasciassi questo

forse cadrei nel buio.

Solamente salendo

sulla scala di luce

nella mia verità

incontrerò la tua.

Vedi quanta pace

con milioni di raggi

stende il sole sul prato

e nessun fiore offende l'altro.

Luca Sassetti (26 marzo 1992) (dal mensile il foglio, n. 190, maggio 1992)

1 – Anche Maradona!

C’è un vero bisogno di superare il teismo! È bene, è interessante, che ogni immagine di Dio sia sempre da superare, correggere, affinare. Dio non è mai un oggetto circoscrivibile da una teo-logia conclusa . È realtà grande.

Il teismo pensa un dio magico, onnipotente, separato dal mondo, padrone, giudice arbitrario, facile modello dei tiranni, che vuole salvarci da fuori di noi. Il Dio della legge, del premio e della pena. Nel Dies irae era detto Rex tremendae maiestatis. Un Dio Terrore, non Amore. Non ci fa felici. Ci facciamo continuamente idoli falsi: anche Maradona era detto “dios”. Se ci svegliamo, ce ne liberiamo.

Tra i tanti profili di Dio, netti o sfumati, c’è una proposta, onesta e chiara, nel cuore del vangelo arrivatoci da Gesù di Nazareth: «Dio nessuno l’ha mai visto» (2 volte nel NT, Bibbia cristiana). Il vangelo parte dall’ignoranza nostra su Dio, dalla necessità di rompere l’immagine dominante, e di rivedere continuamente la sua immagine, perché sia più vera.


2 – Il più forte post-teista

«Dio nessuno l’ha mai visto». Significa due cose, nel vangelo:

1) - Giovanni 1,8 : Gesù ha “spiegato” Dio, (έξηγήϭατο), lo ha presentato, nella propria persona; Gesù è in relazione viva, filiale, intima, con Dio, è animato in pienezza dal suo Spirito. Dio si manifesta nell’uomo Gesù, in lui si è fatto carne umana. Dio è umano in Gesù .

2) - Prima lettera di Giovanni 4,12 . Nessuno ha mai visto Dio, ma se ci amiamo tra noi, è qui, lo sperimentiamo presente, è realtà vivente, ben oltre i concetti.

Gesù è persona umana, e manifesta, in sé, un Dio umano e personale. Il Dio di Gesù è solidale con noi, è persona co-vivente, amico, spirito animatore intimo di libertà, presente nelle relazioni di amore e giustizia, stimolatore e sostegno di continua ripresa nella via del bene. A me sembra chiaro: Gesù è il più forte e chiaro post-teista.


3 - In spirito e verità

Io sento questo da Gesù: Dio è umano. Qualcuno dice di no, che sarebbe troppo umano. L’abbiamo fatto troppo umano?

È giusto correggere l’immagine metafisica di Dio, ben comoda alle religioni padronali. La riportiamo all’umano vicino, come fa Gesù anche nel dialogo molto trasparente con la Samaritana.

A questa donna Gesù si rivela in modo privilegiato, e le dice che la relazione con Dio non è nel tempio sacro, ma è “in spirito e verità”, cioè 1) è relazione intima e alta, vicina ed essenziale, nello spirito, e 2) è relazione orizzontale, umana, nel quotidiano della vita giusta tra fratelli e sorelle umani.

Anche la scienza della natura e le scienze umane ci sollecitano a ripensare la vecchia immagine e il vecchio rapporto con Dio. Arrivano risposte che io accolgo col punto interrogativo: Dio è una energia? È come la forza di gravità e il risveglio della primavera? E’ un fenomeno nella natura? È la natura stessa nella sua mirabile vitalità?

Oppure: Dio è soltanto una parte di noi? La parte profonda di noi?

Credo invece che Dio è un Tu, Altro ma Intimo a noi. Va bene rifiutare l’immagine di un essere lontano, strapotente e irraggiungibile, ma Dio non può essere dissolto nella nostra psicologia: è un Tu, di fronte. Le parole più essenziali del messaggio di Gesù «sentiamo che entrano in sintonia profonda col nostro essere, ma intuiamo che vengono da altrove, e proprio per questo sono grazia, dono, da accogliere con stupore e gratitudine, e da far fiorire» (Emanuela Buccioni, Rocca, 1 marzo 2022, p. 15). L’immagine intollerabile di Dio è superata dalla rivelazione di Gesù, ma non ridotta a una parte di noi: Dio è vita grande, assolutamente nuova, altra, e nello stesso tempo presenza intima. È Altro, e Intimo. Dio grandezza buona e vicinanza intima.

Certo, l’immagine più vera non è un nostro possesso imperdibile. Se scaccio il vecchio Dio tremendo posso poi trovarmi davanti altre maschere di Dio: il sistema che mi include e mi detta i miti illusori, di una breve stagione; figure umane potenti, anche religiose, anche di noi stessi che coprono l’orizzonte ed esigono omaggio; il nostro potere sulle forze naturali, illusi di farle nostre. Gesù continua ad operare come vero post-teista anche di questi dèi.


4 - Vita-che-dà-vita

In questa ricerca stimolante incontro una difficoltà: si pensa Dio non-persona. Dio non sarebbe personale. Cosa significa? Pensarlo come persona sarebbe farlo troppo umano, su modello nostro? Ma se non è persona, come può essere relazione?

Nel vangelo di Gesù, Dio è Amore, effusione di vita, di bene, di resistenza, di crescita evolutiva. Se lo riconosciamo così, Dio è persona cosciente di sé, non è un fenomeno che accade e non ri-flette, che non sa nulla di sé, che non è co-sciente. Pensare Dio come fenomeno, energia cosmica, è panteismo, è cosmologia, non è né religione né fede. La fede è relazione intima, di fiducia, di affidamento, di com-unicazione. Ma una relazione avviene solo come scambio tra coscienze e volontà personali.

La fede cristiana è “oltre le religioni”, perché non è culto, non è debito, non è dottrina, ma comunione di vita. Dio lo conosciamo ad immagine nostra perché siamo noi immagine di lui. Lo pensiamo a nostra immagine, perché Dio ha pensato noi a immagine sua. Perciò la guerra è “sacrilegio” (dice papa Francesco), perché la violazione dell’uomo è violazione di Dio. È qui il massimo fondamento della dignità della persona umana.

Poi noi pecchiamo facendo Dio strumento nostro, l'immagine peggiore di noi: dominio delle coscienze, «fondamento dei troni» (Ernst Bloch), cappellano militare degli eserciti. Dio ci è così familiare che lo usiamo, lo offendiamo, lo perdiamo. Se fosse tutt’altro non riusciremmo ad offenderlo: l’Atto Puro di Aristotele non si occupa di noi e a noi non interessa: è solo scritto in un trattato di metafisica, non ha relazione con noi. Divenendo umano, Dio si mette nelle nostre mani, a rischio, ma anche è sempre altro, imprendibile. Lo inchiodiamo dentro i nostri sistemi, ma la sua vita non si fissa come vogliamo noi. È vita-che-dà-vita, e non è ingoiata e tutta contenuta nella nostra vita. Dio somiglia a noi perché noi somigliamo a lui. Gesù, mi dico di nuovo, è il più grande post-teista.


5 – Facciamo una civiltà dell’ascolto

Conosciamo Dio nella relazione, non nell’essenza. Se è da intendere alla lettera che «noi siamo soli», come ho sentito qui, Dio non c’è per noi, né in una immagine né nell’altra, tanto meno con una presenza. Non ci sarebbe nulla da cui andare “post”. Dio sarebbe un’idea regolativa, un’immagine mentale, mutevole come ci piace, appunto non una persona, non una realtà. Allora il post-teismo così inteso sarebbe una forma gentile, non aggressiva, non apodittica, di a-teismo: «siamo soli».

Proviamo ad ascoltare; facciamo una civiltà dell’ascolto. Facciamo prima il silenzio che sgombra la mente dai rumori, ma poi esercitiamo l’ascolto: ascolto reciproco, e ascolto universale. La Bibbia è una richiesta di ascolto: «shemà Israel» (Deuteronomio 4). Ogni altro suggerimento di significato è una richiesta di ascolto.

I poeti ascoltano. Capiscono e dicono ciò che ascoltano. Solo i distratti, occupatissimi da troppe cose, non ascoltano, non sono poeti. Anche chi ha già definito tutto, non ascolta. Qualcuno attento ad ascoltare, si accorge, in qualche esperienza, che altri ascolta: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» (Esodo 3, 7-10). Osserva, ascolta, conosce. Si rivela agli schiavi uno che sa vedere, ascoltare, conoscere. Ci accorgiamo che possiamo essere in una storia di liberazione.

Ci arrivano storie lontane nelle quali riconosciamo i nostri sentimenti. Qualcuno palpitava come me. Certo, uomini e donne come noi. Ma non solo. Trovo possibilità di vita che sono nascoste in me, che ho dimenticato, qui c’è un vento che le risveglia. Qualcuno ha i nostri sentimenti: forse li abbiamo noi appresi da lui, quando eravamo senza sentimenti?


6 – Senza confini

Questo programma di ricerca dice anche “Oltre le religioni”. Perché abbiamo bisogno di scappare? Ci fanno tanto male? A me ha fatto molto più male la politica-guerra, l’antropologia machiavellica-hobbesiana, l’uomo nemico dell’uomo, e noi destinati ad ucciderci, la scienza a servizio dei padroni: questo mi fa più male delle religioni, perché, se è vero che le religioni ci compattano troppo, l’antropologia bellica ci separa e ci oppone radicalmente, sotto il divino potere dell’uccidere, che regna e decide. Questo sì che è un legame-religione disperante e condannante, trascendente-incombente.

A me, invece, la religione di cielo e terra, di Dio e umanità, ha detto: c’è respiro. Ho ascoltato Gandhi: «vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce». Perciò, dice Gandhi: «…vi è una forza vivente, immutabile, che tiene tutto assieme, crea, dissolve e ricrea. Questa forza o spirito informatore è Dio (…). E questa forza la vedo esclusivamente benevola», perché in mezzo al male persiste il bene. (Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100). Il bene è più del male: confido e vedo.

Poi ho ascoltato Aulo Gellio (Roma, 125 circa – 180 circa) : «Religiosus esse nefas, religentes oportet» (Noctes Atticae). Cioè, è cosa nefasta essere religioso, legato; bisogna essere di quelli che collegano. Vedo le religioni come collegamenti, reti di comunicazioni, anche con dei nodi troppo stretti, ma anche con dei flussi aperti da cui arriva e parte aria, respiro, libera comunanza. La religione può essere vissuta come libertà, come incontro amicale, e le religioni insieme come civiltà inter-culturale, mega-spiritualità. Fanno difficoltà le dottrine troppo definite, che arrancano dietro la luce, come per ingabbiarla in definizioni.

In Michele Do, in David Turoldo, in Benedetto Calati, in Adriana Zarri “religione” suonava “amicizia”, e voleva dire mistero-meraviglia del seme che cresce nella zolla oscura: lo stesso che accade in te, in me. Con questi amici la religione faceva bene, dava uno spazio totale e vicino. Lo capivano dei non-religiosi come Rossana Rossanda, come Pietro Ingrao. La religione è amicizia, rete di amicizie. Ma può essere anche mania di superstiziosi impauriti. Dipende da cosa incontri, da cosa puoi ascoltare.

Prima di questa amicizia, la religione, nel senso negativo, mi ha anche tormentato, ma io sono stato più furbo e libero: ha preso lo spirito buono, ho scosso via le catene, ho trovato fratelli a tutte le latitudini umane in questo respiro.

Una religione unica, totalitaria? No! ho trovato maestri Simone Weil, Pier Cesare Bori (quacchero e cattolico), Raimon Panikkar (cristiano e buddhista), Gandhi («Dio è anche pane e burro per chi ha fame»), ho trovato cattolici come Arturo Paoli, che dice: «opporre religione vera e religioni false è una dichiarazione di guerra!». Come non voglio la guerra che ammazza, non voglio la religione che esclude. Quella che dichiara guerra non è la mia religione. Si può bene scegliere, no?

Ho ascoltato Bibbia, Corano, Talmud, Buddha, Confucio, Seneca... Non da studioso specializzato, ma da una persona che vive. Il vangelo mi parla più di tutti. Parla la lingua che aspettavo. La poesia è religione e la religione è poesia. Siamo tutti poeti, se ci liberiamo.

La religione è libertà; oltre la necessità dell’aria e del pane, comincia la libertà: ammiro la natura, cerco la fonte di bellezza e pace, cerco alimento allo spirito, che non debba disperare, morire, e peggio uccidere per saziarsi.

Le religioni siano modeste e serene, non si vantino del loro sapere, di essere “vicari di Dio in terra”, di chiudere Dio nei loro templi e ricordino quel che disse Gesù alla Samaritana (Giovanni 4), fatta degna della più alta confidenza, assai più che a teologi e sacerdoti.

E con i dogmi, come la mettiamo? Sono momenti, chiarezze viste. Troppo irrigidite? Va bene, andiamo avanti. Tutto cammina, camminiamo. Senza rinunciare. Scriveva a Gandhi sorella Maria di Campello: «Io sono creatura selvatica e libera in Cristo, e voglio con Lui, con te, con voi, con ogni fratello cercatore di Dio, camminare per i sentieri della verità» (24 agosto1928). La sua è una chiesa “senza confini”: «Io sono riconoscente e in venerazione per la Chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma la chiesa del mio cuore è l’invisibile chiesa che sale alle stelle. Che non è divisa da diversità di culti, ma è formata da tutti i cercatori della verità» (11 luglio 1932).


7 – Sono riconoscente

Per concludere, la mia perplessità sul post-teismo è, modestamente, questa: se perdiamo in Dio il carattere personale, di un Tu vivo, con cui abbiamo relazione di  conoscenza, sim-patia (sentire-soffrire insieme), dia-logo, ascolto ed espressione, perdiamo semplicemente Dio, tutto Dio. C'è un ateismo serio, che dobbiamo rispettare e stimare. Un ateismo di ritorno, riduttivo, è troppo poco. Se Dio è solo una energia, una forza, io che sono appena «un vapore» (Pascal, 347) sono più di lui, perché ho coscienza di persona: so di essere.

Ascolto la storia delle sapienze umane: parlano la nostra lingua, le sapienze ascoltano, non creano, ma raccolgono la voce delle cose perché le ascoltano. Confucio dice: «Io trasmetto, non creo». Tutto in noi è ricevuto. Io sono riconoscente.


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sabato 19 febbraio 2022

 

Guerra e memoria, catarsi e trauma

17 febbraio 2022

Gianmarco Pisa, Di terra e di pietra.

Forme estetiche negli spazi del conflitto, dalla Jugoslavia al presente

Multimage, Firenze 2020


Questo libro è denso. La prima parte contiene diversi capitoli di teoria ed esperienze di pace, di riconciliazione nei conflitti; la seconda parte fa una storia dei Balcani e della sua rappresentazione politica ed estetica; infine offre una bella serie di immagini di monumenti e memoriali della storia a jugoslava. Nell’imbarazzo di non saper padroneggiare tutto questo contenuto, faccio una semplice riflessione personale sul tema centrale, che mi sembra: la memoria della guerra, ovvero guerra e memoria, e non solo della guerra jugoslava. Non solo dopo la guerra, ma anche le memorie lontane avvelenate, che provocano guerre, come fu la battaglia della Piana dei Merli, 1389, rievocata nella contrapposizione dei nazionalismi.

Ricordo Sarajevo nei primi anni ‘80. Tito era morto, ma il suo ritratto era in tutti i negozi. Un piccolo museo “Giovane Bosnia”, era a capo del ponte Principov Most, che porta il nome di Gavrilu Princip, l’irredentista che lì uccise, nel 1914, l’erede dell’impero austriaco, e quasi celebra quell’evento. Un mappamondo di legno, con una fiammata dalla città di Sarajevo, che incendia il mondo: quasi un vanto mondiale della Bosnia!

Ma vado più indietro. Ho l’età per parlare con esperienza della guerra 1940-45. Cosa fa il tempo sulla guerra? Il tempo e la memoria trasfigurano, placano, assorbono, accettano? Avviene una catarsi, oppure il trauma sottopelle continua a corrodere?

Una catarsi, sì. Finita la guerra, fuori da orrore, terrore, sangue, si vuole passare alla bellezza, alla festa, al piacere. Nei paesi si organizzavano balli, recite (si chiamavano “riviste”) in cui comparivano risolte le vicende precedenti, si rappresentavano i personaggi più caratteristici del paese, anche il mio nonno novantenne, si rideva allegri. Era tempo e volontà di risurrezione, ricostruzione, sia nazionale che locale, familiare. È positivo che la tempesta della guerra si plachi nell’arte, anche la più semplice: è risanante, è l’espulsione di un veleno.

Ma il trauma rimane: Aldino, l’autista del paese, e Michele, non tornano dalla Russia, non tornano mai, mai nessuna notizia, si capisce che non tornano più: sono i “dispersi in Russia”. Una mattina presto il povero Bigiol viene trovato ucciso sulla strada vicino al campo sportivo. Fa parte dello strascico di vendette, ma lui, poveretto, forse l’hanno scambiato per il medico, fascista. Si sente parlare della bomba atomica, dopo l’agosto, usata in Giappone: una bomba “che spiana le montagne”. Nell’estate (non ho ancora dieci anni), mi chiedo: “e addesso cosa scriveranno sui giornali? Usciranno con le pagine bianche?”. Non sapevo che anche fior di studiosi pensano davvero che la storia è fatta solo di guerre.

Per quella guerra che ho vissuto, sorgeva una estetica della guerra, ma forse diversa da tutte le guerre precedenti: onore alle vittime, e anche pentimento. Dopo il ‘45 si erigono lapidi e monumenti alla Resistenza, ai martiri della Libertà, il fascismo appare solo in quanto vinto. Lentamente si scoprirà, nella storiografia e nei memoriali, la resistenza civile, oltre e prima di quella armata. Ma guardiamo più indietro: quale memoria delle guerre?

Un pesante fenomeno piantato negli occhi e nelle teste dei popoli, in quelle dei bambini a scuola, è la glorificazione della forza vincente: chi vince deve darsi ragione, per ripulirsi dal sangue, quasi confessa di doversi assolvere cambiando il delitto in merito.

Lo storico tedesco Ekkehart Krippendorff (autore dell’importante studio Lo Stato e la guerra. L’insensatezza delle politiche di potenza, orig. 1995, trad ital. Gandhiedizioni, 2008), nostro amico, venuto spesso a Torino, notava quanto la nostra città abbonda di monumenti militari: re, cavalli, armi, stendardi, anche qualche principessa. Il più indigesto è quello del Conte Verde (1334-1383), un Savoia accanito nell’uccidere un soldato turco, sopra un altro già ucciso a terra. Il monumento, a cui è bene che i turchi torinesi non badino, è stato eretto nel 1853 ed è ancora, immagine oscena anche anti-islamica, in piazza delMunicipio, davanti al Comune. I monumenti è meglio non distruggerli, come han fatto in America, in alcuni casi, per anticolonialismo, ma lasciare che ci ammoniscano, nel bene e nel male.

Anche ogni parata militare è glorificazione dell’uccidere. La parata del 2 giugno per festeggiare la Repubblica e la Costituzione offende l’una e l’altra. Le armi esibite come simbolo della Patria rivelano una cultura statale pre-umana, da animali predatori. Il nostro art. 11 afferma il “ripudio”, la rottura del matrimonio storico primitivo tra stato e guerra (vedi di nuovo Krippendorff), ma la guerra continua ad occupare gran parte dei locali della casa da cui la moglie-guerra era stata ripudiata, con disagio crescente dei cittadini più attenti e sensibili.

Tra i monumenti sulle nostre piazze, fin nei piccoli paesi, credo che il peggio si possa vedere nelle memorie della Prima Guerra Mondiale. Vi sono raffigurati, in corpi di pietra e di cemento, i caduti, con atteggiamenti a volte gloriosi e vincenti, a volte come corpi abbattuti. Non sono caduti come alpinisti: sono ammazzati! Mi pare che dicano: ”Se solo potessi scendere, la paghereste cara!….”. La Patria offende le proprie vittime. La maggiore offesa oscena è quell’Altare della Patria, nel cuore di Roma: l’ara del sacrificio umano, la somma barbarie di quell’Italia che mandò a morire poveri figli suoi, per calcoli cinici di alcuni, e poi li celebrò come volontari ed eroici, come se fossero dei cristi liberamente offertisi. Di recente abbiamo sentito, qui al Sereno Regis, Giovanna Marini e Fausto Amodei parlarci dell’arte povera e dolorosa dei canti popolari contro la guerra: il rovescio degli inni eccitanti all’odio e alla morte.

Ma non c’è solo questo. Alcuni rari casi, nella memoria della guerra, sono rispetto e onore-dolore-pentimento per le vittime: classico il semplice monumento a La Pleureuse (una madre piangente) a Termignon, villaggio della Haute Maurienne, ad un centinaio di km da Torino. La donna, nel tradizionale costume locale, piange il figlio, e tutte le vittime, e così nega silenziosamente alla guerra ogni gloria. Ma sul piedistallo è scritto: “Aux enfants de Termignon glorieusement tombés pour la patrie”.

Poi ci sono i cimiteri silenziosi: custodiscono anche i morti a cui la guerra ha tolto non solo la vita ma pure il nome. In un cimitero militare sul lago di Garda ho visitato, dopo anni da quel ‘45, la tomba di tre soldati sconosciuti che, da bambino, vidi divorare dalla logica di guerra, fucilati in piazza, a guerra ormai finita.

A Pinerolo, nel 2005, nel corso di un bel convegno di storia, fu inaugurato un monumento alle vittime valdesi della violenza e dell’intolleranza cattolica, opera di Grerald Brandstoetter, austriaco (+2004). (Cfr il volume “I Valdesi del Pragelatese all’epoca della crociata”, 2021, p. 264).

Da inesperto, osservo le due categorie di icone-memorie della guerra: i dipinti, i monumenti. Forse più meditativi i dipinti e più celebrativi i “monumenti”? Quanto ai primi (a parte le grandi tele retoriche spietate), penso a Guernica; penso a Goya, “I disastri della guerra”. Ricordo la recente mostra torinese di Giovanni Fattori (1825-1908): i suoi quadri di guerra mostrano sempre i morti, le vittime, orizzontali a terra, presso i generali, ma questi visti di schiena, in primo piano i sederi dei loro cavalli (come mi fa notare la brava guida). Gelido e sommo un quadro, “I soldati dimenticati”: finita la battaglia, partiti i combattenti, restano alcuni morti sulla strada, dimenticati. Solo il cielo li guarda.

Cosa sono i monumenti? Memoria, dolore, trasmissione a chi viene, come i monumenti funebri? Oppure avviso, ammonizione, superbia, minaccia. Rimane urtante l’arco della vittoria a Bolzano, eretto dal fascismo:  “Hic patriae fines siste signa hinc ceteros excolimus lingua legibus artibus”. Sacralizza i confini segnati dalla guerra, e vanta superiorità nostra sugli altri, nella lingua, nelle leggi, nelle arti. Ci fu un tentativo, ma fallì, di chiamare arco e piazza della pace, quel luogo di adorazione dell’idolo guerra.

Dalla seconda guerra mondiale, il risultato purificatore e rivitalizzante che eccelle tra tutte le opere di cultura post e anti-guerra, è la Costituzione italiana. Essa viene da lontano, da quella fonte “antica come le montagne”, viene dall’Anti-polemos e dal Dulce bellum inexpertis, di Erasmo, dall’Anti-Machiavelli (di Botero, di Federico II, di Voltaire), dal sogno popolare socialista nei due secoli di fine millennio, tradito da chi se ne fece crudele padrone. La Costituzione raccoglie molto di quel “sogno diurno”, nella luce (Ernst Bloch): il lavoro come fondamento della vita insieme, cioè l’agire gli uni per gli altri, e non ognuno per sé. E l’art. 3 che conosce e detta lo scopo della politica: realizzare per tutti l’uguaglianza di valore e di riconosciuta dignità. Per la Costituzione non ci sono popoli inferiori o estranei, non c’è un nemico disumanizzato, quindi non ci sono ragioni per la guerra. E se ci venisse fatta un’offesa l’art. 52 non identifica la difesa con la sola vecchia difesa militare, pericolosa a chi la usa, ma lascia aperta la via alla realizzazione della difesa civile: la coraggiosa noncollaborazione al dominio svuota ogni dominio, che si regge sulla obbedienza passiva.

Ho sempre presente un brano di Gandhi: «Vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce». (Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100). Per lui vuol dire che c’è «una forza vivente, immutabile, che tiene tutto assieme, crea, dissolve e ricrea. Questa forza o spirito informatore è Dio. E questa forza è esclusivamente benevola». Per Gandhi, Dio è tutto, è l’unità di tulle le cose e le vite. Gandhi vuol dire: nonostante tutto il male, persiste il bene, il vero, il buono, il giusto, misura insopprimibile, dentro ogni coscienza, dei mali opposti. Perciò, in ogni tragedia e offesa, il bene risalta sul male. In definitiva, c'è più bene che male, più pace che guerra, anche quando sono schiacciato dal male. Dire Dio vuol dire solo questo, per lui. Ed è la sua forza profonda per lottare contro il male senza violenza, con profonda fiducia, fino a spegnere il male su di sè con la propria forza di verità.

Il cristiano crede in un modo simile. Il cristianesimo nasce da una guerra: Gesù di Nazareth opera un compimento-realizzazione-rivoluzione delle fede e civiltà ebraica, che gli scatena contro la guerra politico-religiosa del clero e dell’impero. Si accordano per ammazzarlo in croce. Una guerra cosmica. Il profeta dell’amore distrutto dal potere violento. Distrutto? Dopo il primo sgomento totale, i suoi amici lo sperimentano vivo attraverso la morte. Sperimentano che il bene della vita inviolabile ha vinto sul male del potere che uccide. Sperimentano che la pace ha vinto per sempre sulla guerra, anche se questo evento è in corso di realizzazione: un già che è non-ancora, un non-ancora che è un già.

Tra i memoriali di una lotta e una vittoria, il cristianesimo alza la bandiera della sconfitta. Ha scelto il segno non della vittoria, ma della transitoria sconfitta, della debolezza, dell’umiliazione, della morte: ha scelto il simbolo della Croce, patibolo feroce. Celebra nella fede la Risurrezione, ma questa resta invisibile: nessuno l’ha vista, è un’apertura oltre la storia visibile. Ci sono icone narrative, figurative, ma in sé resta invisibile. E’ sperimentata come presenza viva intima del Risorto. Il cristianesimo autentico non trionfa, non stampa impronte di vittoria, ma segni di accompagnamento ad ogni sofferenza imposta. La guerra è la croce dei popoli, imposta dal sinedrio dei generali e dei sovrani. Quando il cristianesimo ha solennizzato la propria vittoria, e ha fatto sacerdoti-sovrani, è degenerato. L’icona cristiana è la croce, è il partito dei crocifissi in via di risurrezione, se all’odio risponde l’amore che lo disarma.

Dunque, riflettere sulla guerra, fare memoria della guerra, guardare negli occhi il male, onorare le vittime, tenerle vive nella memoria, tentare di tradurre in pace e bellezza il dolore e l’offesa, è un lavoro di risurrezione, di costruzione e ricostruzione di pace, pur attravverso perdite e dolori, e nuovi respiri, e cambiamenti di visuale.

Queste provvisorie riflessioni mi nascono dall’assaggio del libro di Gianmarco Pisa, testi e immagini. Voglio ancora capire meglio quanto questo suo lavoro ci accompagna a passare da tante arroganti glorificazioni della guerra, al pentimento di esserci uccisi a vicenda tra umani, e quindi ora al poter rinascere a vita più vera.

Enrico Peyretti, 17 febbraio 2022


lunedì 10 gennaio 2022

 Il mio nuovo libro

Enrico Peyretti

Non ho scoperto nuove terre

(con saggio introduttivo di Raniero La Valle)


Non ho scoperto nuove terre

ma ho raccolto buoni frutti

dai campi attraversati

e tutto ho cercato di rendere

ai passanti sulla mia via.

Sommario

Prefazione di Raniero La Valle pag. 7


Parte 1 - Significanti pag.15

1Libertà e incontro pag. 17

Conflitti e nonviolenza pag. 13

Utopia e Speranza pag. 47


    Parte 2 - Confronti  pag. 61

Un'Europa per l'umanità  ........................................................ ....................pag. 62

La festa della sorpresa pag. 64

Una sera si parlava pag. 67

Diminuire consentendo pag. 70

Distacco appassionato pag. 72

Non c'è più religione ...................................................................................pag. 74

Libertà senza offesa .................................................................................... pag. 77

Morte di un amico ...................................................................................... pag. 80

Se la politica è amore.................................................................................. pag. 83 

Solo il disarmo è razionale  ........................................................................ pag 86

La pace armata è guerra  ............................................................................ pag. 90

Ambiente e pace, un problema solo  .......................................................... pag .93

Elogio del punto interrogativo  ................................................................... pag. 96

Postfazione.................................................................................................. pag. 99


Edizioni MILLE, 2021

  © 2021, Edizioni mille ISBN 978-88-87780-

EuroTargeT di Labanca A. R. 10152 Torino Aurora, via Antonio Cecchi, 57 tel. 011 546076

e-mail: info@edizionimille.eu sito: www.edizionimille.eu facebook: www.facebook.com/edizioni mille

Promozione: PRONTOLIBRI Centro di Iniziative per la Comunicazione

via Pont, n. 12 B – 10155 Torino www.prontolibri.net

Distribuzione: - Book Service, via Bardonecchia 174/D – Torino

- Libro Co, via Etruria, n. 4-6-8 – San Casciano in Val di Pesa (FI)



 « Scrivere un libro è men che niente

se il libro fatto non rifà la gente» 

(Giuseppe Giusti)


Tutti i diritti dell'autore vanno al Centro Studi Sereno Regis per pace, nonviolenza, ecologia: www.serenoregis.org

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sabato 8 gennaio 2022

 

Libri

Filosofia di Gandhi: o potere, o amore

1

Roberto Mancini, Gandhi, Al di là del principio di potere, Feltrinelli 2021, pp. 172, euro 14

Gandhi non fu solo un santone nonviolento, un "fachiro seminudo" (per Churchill), un "idealista pratico", come diceva di sé; non fu solo l'animatore della coscienza e dignità del popolo indiano, e poi di altri. Fu anche un filosofo, cercatore della sapienza, quindi un pensatore attivo e creativo della buona convivenza umana. Con Gandhi avviene un’evoluzione possibile, nella politica, dal "principio di potere" alla verità dell'amore per la realtà. Questo libro è la filosofia di Gandhi, letta da un filosofo che sa leggere le trasformazioni profonde, come Roberto Mancini. Egli ci presenta nelle sue maggiori articolazioni il pensiero operante di Gandhi, indagato su fonti ampie, dimostrate dalla veramente abbondante bibliografia.

Esperimenti con la verità

Potere, da verbo della vita, è diventato sostantivo: strumento che impone, sottomette altri, impedisce loro di esprimere delle possibilità di vita. Il filosofo Mancini legge la validità euristica dell'opera di Gandhi: «al di là del principio di potere» come scoperta di vie inedite per l'umanità. Perciò è critico della modernità, che vede come «per eccellenza la civiltà del potere». Gandhi ha l'autorità non di chi comanda, ma di chi fa crescere coscienza e umanità. La vita di Gandhi fu «esperimenti con la verità». La verità è fonte di senso della vita. Gandhi non è assolutista, ma in continuo approccio alla verità della vita. Il suo è un "realismo trasformativo". Dalla Bhagavad Gita (testo sacro induista, III sec. a. C.) è avviato alla lotta interiore tra il bene e il male. La sua etica non è un perfezionismo, ma l'essere se stessi lasciandosi trasformare dall'amore, forza cosmica alternativa al potere. Legge Ruskin, Thoreau, Tolstoj. Apprende la politica nell'opporsi all'apartheid razzista in Sudafrica. La lotta nonviolenta è tradurre in politica la verità dell'amore. In India si impegna per i contadini poveri del Champaran, prima che per l'indipendenza. Impara dai propri errori. Dalla guerra mondiale, da Hiroshima, apprende che solo la nonviolenza potrà fermare nazismo e fascismo. L'indipendenza viene insieme alla dolorosa separazione tra India e Pakistan. È ucciso da un fondamentalista indù. Esaminiamo alcuni termini essenziali del suo pensiero-azione.

Attaccamento alla verità

Satyagraha è l'attaccamento alla verità, che dà vera forza: non la nostra forza di volontà, ma la forza della verità dell'amore. La verità è amore, e l'amore è verità. A noi "amore" suona quasi svenevolezza, invece è forza. Ed è anche capacità di soffrire, piuttosto che infliggere sofferenza. Gandhi crede nell'adwaita (non dualismo), l'unità essenziale di tutto ciò che ha vita: non una integrità personale ma una realtà di relazione. Mancini vede anche i limiti dell'idea della corporeità in Gandhi, che chiede castità come autocontrollo, ma ciò vale in lui come primato dell'amore politico per il bene comune. Il Satyagraha è l'arma di chi è davvero il più forte, e per questo esclude l'uso di ogni violenza. Dall'ateismo giovanile, Gandhi arriva a concepire Dio come verità, la forza dei deboli, al di sopra di ogni esclusivismo religioso. Dio non ha figura né concetto, ma è Voce interiore, che l'autodisciplina e l'estrema umiltà possono cogliere, e Gandhi ne ha fatto reale esperienza: «Per me quella Voce fu più reale della mia stessa esistenza» (p. 51). Fede e politica convergono nel servire la giustizia: il potere non aiuta, solo la verità aiuta, la forza metafisica che sostiene la vita del mondo. Oggi, per noi, è questo orizzonte che manca alla politica.

Nonviolenza, amore politico

Ahimsa, nonviolenza, è la forza amorevole della verità che spegne la violenza, è la forza della pazienza attiva, tenace. Ahimsa è il mezzo, la verità è il fine. Pazienza non è remissività ma forza che sostiene gli effetti della violenza, cambia la sofferenza in forza. Ahimsa cambia il terreno del confronto rispetto alla violenza, è generativa di una realtà inedita. Resistere è più che arginare o contrastare, è inaugurare una via diversa: non è ascetismo, ma trasforma situazioni sociali e processi storici. Ahimsa è il cuore della politica, è amore politico, e scaturisce dalla giustizia risanatrice, opposta alla logica di potere. La nonviolenza è alternativa non solo alla violenza, ma al potere; passa dalla logica individualista alla sapienza della coralità. Non è mera astensione dal fare violenza, ma dispiegamento della capacità di amare. Questa capacità si impara dai sofferenti, che sono i nostri maestri. L'appello della sofferenza genera in noi una forza inedita per agire. Non è idealizzazione statica, ma movimento a fare tutti i passi possibili. Ogni passo è in sé la presenza anticipata della meta.

Fini (intenzioni) e mezzi (responsabilità, efficacia) non sono separabili, come fa Weber, perché il risultato avrà la qualità dei mezzi usati, come avviene tra seme e pianta. I mezzi d'azione nonviolenti ottengono risultati di giustizia. I mezzi non sono altro che i fini stessi nel loro maturare. I fini sono già contenuti nei mezzi. L'etica della politica è l'etica della relazione di verità con tutta la comunità dei viventi. La politica è trasformata, da concorrenza per il potere, a swaraj, libertà dal male che si intromette nella relazione. La politica non è più un contrasto meccanico di forze fisiche, ma un sentimento giusto di sé per l'azione giusta per tutti. Non è una vetta irraggiungibile, ma la via per ritrovarsi nella comunione cosmica. In ciò vale anche il compromesso, non come svendita degli ideali, ma come dar tempo al tempo.

La nonviolenza dà significato alla religione, che non è una certa tradizione, ma la relazione personale con la verità viva dell'amore divino. Le religioni tradizionali, autoreferenziali, si appropriano indebitamente dell'universalità di Dio.

Indipendenza dal potere

Swaraj è la libertà dal male, l'indipendenza dal dominio, dal potere che opprime, dal consenso passivo dei dominati. Non è un altro potere indipendente, ma l'indipendenza dal potere. Gandhi vuole l'indipendenza dell'India (più di quanto l'India seppe capirlo) dalle contrapposizioni arcaico-moderno, Oriente-Occidente, verso una civiltà spirituale corale. «C'è Swaraj quando impariamo a governare noi stessi». Gandhi, conosciuto nelle fonti autentiche, non è un leader nazionalista: l'India è sorella tra le nazioni umane. Però giudica l'Occidente come «una civiltà costruita in modo da giungere all'autodistruzione». Concepisce per l'India un nuovo paradigma della democrazia, di portata potenzialmente universale. Per lui «lo spirito della democrazia richiede di interiorizzare lo spirito della fraternità». Più che il principio della maggioranza, una vera democrazia ha il criterio della protezione del più piccolo e povero membro della nazione. Ma l'Occidente ha detto “fraternité” nella Rivoluzione francese, poi l'ha dimenticata. Democrazia non è la vittoria legale di una parte, ma la maturazione etica e civile del popolo. Occorre il massimo possibile di autogoverno dei cittadini, degli organismi vicini alla vita quotidiana, delle singole nazioni, per evitare la concentrazione del potere. Ci possiamo chiedere come attuare questo principio oggi che tutto il mondo è di fatto vicino e a ridosso della vita quotidiana dei singoli. Eppure, proprio per questo dobbiamo esseri liberi dai grandi poteri concentrati.

L'umanità si fonda sulla verità o sul potere? La pratica del non-attaccamento permette di venire alla luce dello swaraj, liberi dal culto dei risultati, nel respiro dell’azione feconda. «Il governo ideale, per Gandhi, è quello che governa il minimo» e ciò non è il liberalismo, ma l'autogoverno delle persone educate allo swaraj. La giustizia giudicante ha un approccio riparativo, non punitivo.

Servizio al bene comune

Swadeshi significa servizio al bene comune, emancipazione da ciò che impedisce di servire la comunità. «Chi vuole essere amico di Dio deve restare solo, oppure deve farsi amico il mondo intero», osa dire Gandhi. La comunità non è definita da una località, ma è relazione universale, inclusiva, è un modo d'essere che non esclude nessuno. La democrazia del villaggio ha il respiro di un progetto federale cosmopolita: cerchi successivi entro un cerchio oceanico, non una piramide. La nonviolenza è incompatibile col nazionalismo. Aderire alla verità dell'amore è aderire alla vita comune universale. «Chi è dedito allo swadeshi cerca di identificarsi con il creato intero».

«L’Occidente è troppo materialista, autocentrato e ottusamente nazionalista. Noi vogliamo una coscienza internazionale che abbracci il benessere e il progresso spirituale dell’umanità intera». Democrazia è organizzare la collettività non col potere, ma col prendersi cura e col servizio, in spirito di gioia. Non basta l’indipendenza dallo straniero: occorre il non-attaccamento per aderire alla verità. L’essere umano viene alla luce quando scopre la sua libertà, e ha per madre la verità dell’amore. Il progresso umano individuale e quello collettivo sono interdipendenti. Agli occhi del potere, Gandhi sembra fallito: in realtà ha avviato una delle più alte imprese dell’umanità.

Il passaggio decisivo, nel cammino con Gandhi, è da quando pensiamo impossibile la nascita di una umanità nonviolenta, a quando non vi rinunciamo, e quindi nasciamo noi a tale umanità. Maria Zambrano: «Solo ciò che resiste alla propria distruzione è davvero vivo». Vero fallimento è la rinuncia. In Gandhi avviene il paradosso del fallimento innegabile e del successo: persiste un seme di futuro che non cede a potere e violenza. Siamo liberi dal male non solo quando lo sradichiamo da noi, ma quando non desistiamo dalla via del bene. Così è pure nella vita della società.

La vita semplice

Sarwodaya è il nome e il valore della “vita semplice”. Nanni Salio aveva fatto suo quel motto di Gandhi: «Vivere semplicemente perché tutti possano semplicemente vivere». Non è un’idea sacrificale, ma il bene comune della salvezza e felicità. Il bene di ciascuno sta nel bene di tutti. Il sarwodaya anticipa una vita libera da violenza. Chi è libero dal male, nello swaraj , e nella presenza di Dio, è nella vita semplice. Ogni persona ha un suo percorso di elevazione spirituale: «Ci sono tante religioni quanti sono gli individui». Nella società attuale, complessa e sollecitata da mille stimoli, l’ideale del sarwodaya è più difficile, ma la coscienza sveglia ci può orientare ad una felicità semplice. Pur attraverso cadute e fallimenti c’è una via di armonizzazione, purché ci immedesimiamo negli scarti umani della società. Gandhi combatté il sistema delle caste: «Un Harijana [fuori casta] è realmente un figlio di Dio», abbandonato dalla società. «Dio è Dio proprio perché difende chi è privo di ogni aiuto». Gandhi pensa la nostra filialità divina, ed è per questo che critica ogni pretesa di superiorità di una religione a danno della relazione vivente di tutti gli esseri umani con la verità divina: non il potere, ma l’amore è il principio. Il fatto che un’economia e una politica di potere producano scarti umani, è fallimento anche della religione. La nonviolenza richiede questa positiva giustizia dell’amore.

Gandhi superò progressivamente i pregiudizi della cultura del suo tempo: razzismo in Sudafrica, nazionalismo, sessismo. Lo spirito religioso dell’amore è indissolubile dalla giustizia politica: «Non potrei avere alcuna vita religiosa senza identificarmi con tutta l’umanità e questo mi è impossibile senza partecipare alla politica». La via della nonviolenza al di là del principio di potere non è per eroi eccezionali, ma per chiunque vuole risollevarsi da una crisi della propria vita.

L’economia attuale è una guerra

Oggi l’istituzione centrale della violenza è l’economia. Il mercato obbliga alla competizione, che ha il modello della guerra. La nonviolenza esige la radicale trasformazione del sistema economico e la liberazione delle sue vittime. «La legge spirituale si esprime proprio nelle comuni attività della vita, quindi coinvolge l’ambito economico, sociale e politico», scrive Gandhi. Egli prefigura un socialismo alternativo al marxismo. Marx vede l’alternativa al capitalismo come contraddizione anche violenta, per Gandhi conta la comunione e l’azione giusta ottenuta vincendo il male dentro di sé: levatrice della storia è la verità dell’amore, quindi la nonviolenza. Marx è figlio della modernità europea e non supera la logica del potere, ma solo quella del capitale. Gandhi è figlio della sapienza dell’India, in dialogo con le altre fedi e col diritto occidentale, e non è attratto dal potere. Nel socialismo gandhiano la proprietà dei mezzi di produzione è sostituita dall'amministrazione fiduciaria, il lavoro è servizio, non c’è competitività ma cura e generatività. L’economia è incentrata nella comunità locale pluralista, ogni proprietà è responsabilità, il fine di ogni impresa non è più il profitto, ma il bene comune.

La critica della proprietà è tutt’uno con la critica del potere, dato che si alimentano a vicenda. Mantenendo la propria individualità nazionale, i popoli umani formeranno una democrazia mondiale, nella libertà dal male (swaraj), perciò senza farsi violenza. Il lavoro e le tecniche non devono sfigurare l’umanità e la natura, come fa il potere violento.

Il non-possesso

Aparigraha è il non-possesso, che sradica l’identificazione tra essere e avere. Invece: uso, custodia, manutenzione dei beni per la condivisione. L’economia non è una sfera autonoma: è un’attività sociale per il servizio alla vita e al bene comune: «La vera economia è l’economia della giustizia». L’economia è da trasformare in questo senso, senza violenza od oppressione, ma col tessere la convivenza. Così è da salvare tutta la vita, che non è solo «corsa verso la morte», come pensa il nichilismo occidentale. La salvezza (moksha) non è solo dopo la morte, ma già nella trasformazione della persona, nella vita aperta alla libertà da tutti i vincoli, alla eliminazione dell’ego, a liberare il divino in noi. Il solo modo per trovare Dio, ben prima della morte, è il servizio verso tutti. «Per vedere faccia a faccia lo Spirito universale della Verità bisogna saper amare come se stessi chi è il peggiore in tutto il creato». Questo impegna in ogni ambito: «Non esito a dire che quanti dicono che la religione non ha niente a che fare con la politica, non sanno cosa sia la religione». «Superare il proprio ego è ciò che permette agli altri di vivere».

L’esperimento di Gandhi non ha dimostrazioni, salvo questa: se una persona si apre davvero all’amore che la umanizza, la sua vita diventa immensa e trova tutta la sua dignità. La salvezza esistenziale è quando viviamo non invano, ma contribuendo alla salvezza dell’umanità, alla vita, che è più del potere.

Epilogo

Nell'Epilogo, Mancini richiama i sistemi che regolano la politica: il codice Hobbes (il potere è la passione fondamentale di tutta l'umanità), il codice Mandeville (il potere è diventato sistema onnicomprensivo, inglobante), e li confronta con il codice Gandhi: egli ha reso obsoleta la lingua del potere, cominciando a parlare la lingua che nasce dall'esperienza della verità. Per lui l'autorità è la qualità di chi promuove lo sviluppo delle persone e del bene comune, l'integrità è il superamento delle scissioni nelle persone, la trasformazione etica e democratica è quando la convivenza prende forma diversa da quella del potere. È notevole che, mentre le virtù morali e civili sono oggi all'incirca quelle classiche, in politica, da Machiavelli in poi, virtù è considerata qualsiasi abilità a prendere e mantenere, di fatto, il potere. La forza è equiparata al giusto. Oppure - direi- non c'è più giusto, ma solo forza: il fatto è il valore, quindi non c'è più valore a regola dei fatti.

Gandhi mostra come la prerogativa umana è la indipendenza come libertà dal male, e l'autogoverno come adesione alla verità dell'amore. Nel codice Gandhi il metodo è dialogo, prendersi cura, partecipazione, giustizia risanatrice, amministrazione fiduciaria: non conquistare il potere, ma coltivare le possibilità di vita buona. Alternativa alla forza del potere è la forza, fragile ma irriducibile, dell'umano. Il potere occupa il vuoto lasciato dalla mancata fioritura dell'umano. L'individualismo tende al potere, l'anima alla comunione con la verità e con ogni vivente. Non possiamo dimostrare Dio o l'amore-verità con cui Gandhi ha dialogato, ma neppure possiamo concludere che nulla è tra noi se non il potere. La "prova" paradossale è che, nonostante la potenza del male, persiste il mondo e la ricerca del suo significato: «Percepisco che vi è una forza vivente che tiene tutto assieme... Questa forza o spirito informatore è Dio. Poiché niente altro di quello che vedo semplicemente coi sensi può persistere o persisterà, Egli solo è. E questa forza è benevola o malevola? La vedo esclusivamente benevola, perché vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce». (Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100). Il male offende il bene ma non lo può distruggere. «La forza dell'amore, dell'anima o della verità sono la stessa cosa. Abbiamo prove dell'azione di questa forza in ogni momento. Se non ci fosse questa forza l'universo scomparirebbe». «L'unica prova possibile della verità è nella trasformazione della persona che ad essa aderisce».

Non è trionfalismo né idealizzazione. Gandhi conosce con lucidità e benevolenza, ed anche con umorismo, la debolezza umana. Vede il paradosso per cui, anche se l’uomo rinuncia alla propria dignità, la verità persiste a stargli vicina, invisibile e disarmata. È importante l'educazione dei piccoli alla bellezza della nonviolenza. Finché politica ed economia sono vincere sugli altri, si lacera il tessuto della vita. Si tratta di vincere sé stessi, l'esistere per sé, e allora si può custodire tutti i valori viventi. La storia ha senso come divenire solidale della comunità umana e della natura.

La competitività lacera l'umanità fino alla sua eliminazione. Noi, dopo Gandhi, lo vediamo. Se è la lotta per il potere che modella economia e politica, il risultato è la disgregazione. La chiave del futuro è la generatività che inaugura dinamiche di vita armonica.

Enrico Peyretti, 7 gennaio 2022

PS – Ho voluto interpellare Roberto Mancini, amico da tanti anni. Mi dice: «L’intento del libro era duplice: non solo presentare la filosofia di Gandhi, ma anche mostrare che la nonviolenza è basata sul non potere, sul rifiuto del potere che lascia il posto alla scelta della forza dell’amore. O potere o amore. Ma per i figli della cultura occidentale questo è quasi impossibile da capire». (e.p.)  (8 gennaio 2022)