mercoledì 28 febbraio 2018

Memoria
Ekkehart Krippendorff, l'arte della pace

Francesco Comina ed io abbiamo composto insieme questo sentito ricordo di un grande e bravo amico, lavoratore per la pace con lo studio, l'intelligenza, la passione. Gli siamo grati, nella grande vita della "compresenza" e della speranza.
Enrico Peyretti

È morto oggi, 27 febbraio 2018, nella “sua” Berlino, Ekkehart Krippendorff, 84 anni, uno dei pionieri degli studi per la pace in Europa. Da cinque anni si era ritirato e non aveva più risposto ai molti inviti che gli venivano anche dall'Italia, sua seconda patria. Ebbi la fortuna di passare un giorno con lui nel 2013 a Berlino dove progettammo un incontro sulla poesia della pace con l'intento di coinvolgere soprattutto i giovani e gi studenti. Ma già l'anno successivo non se la sentì di realizzare questo progetto e declinò all'ultimo l'invito del Centro per la pace del Comune di Bolzano di partecipare ad un convegno sull'altopiano del Renon sul tema “Mai più la guerra / Nie wieder Krieg” che lo vedeva come protagonista: «Non mi sento molto bene – disse in quell'occasione – abbiate pazienza rimedieremo in seguito». Poi non si riuscì più a contattarlo.
Krippendorff cominciò a farsi conoscere in Germania già alla metà degli anni Sessanta per il suo attivismo politico e come guida dei movimenti del Sessantotto tedesco tanto da dover lasciare gli incarichi che aveva alla Freie Universität di Berlino. Il salto alla politica attiva fu breve e alla fine degli anni Sessanta entrò nell'Spd. Dopo complicati tentativi di inserirsi, come docente stabile, nelle università tedesche (il ministro dell'interno del tempo gli proibì di assumere quel ruolo perché “politicamente non adatto”), insegnò in varie università degli Usa, che conosceva, di cui stimava la democrazia e criticava la strategia imperialistica. Dal 1978 al 1999 ha ricoperto l'incarico di professore ordinario di scienza politica nell'Istituto di Studi Nordamericani "John F. Kennedy" presso la Freie Universität (libera Università) di Berlino, per poi diventarne, in seguito al pensionamento, professore emerito fino ad oggi.
In Italia ha collaborato con varie università, è stato professore di Relazioni Internazionali alla Johns Hopkins University di Bologna e all'Università di Siena, e ha contribuito a progetti di educazione alla pace come il Centro di ricerca per la pace (Irene) a Udine e la fondazione di un festival per la pace.
La sua ricerca sulla pace è stata condizionata molto dalle esperienze che ha fatto nel dissenso tedesco degli anni Sessanta e di quello americano durante la guerra del Vietnam e successivamente come oppositore alla guerra in ex Jugoslavia e alle guerre del Golfo. Il rigetto della guerra come strumento di soluzione delle controversie - ma in particolar modo la sua critica acerrima nei confronti di una violenza endemica e strutturale del mondo - lo hanno portato a posizioni anche radicali di un pacifismo che però si è misurato sempre sulla tradizione classica del pensiero e della letteratura.
Nel suo libro più famoso Staat und Krieg, Lo stato e la guerra (traduzione italiana di Francesco Pistolato, Centro Gandhi Pisa, 2008, originale 1985) vede la nascita dello Stato moderno come intimamente legata all'apparato militare, per difendere le classi borghesi e aristocratiche da minacce esterne, con un esercito però formato in gran parte dalle classi subalterne, e dunque un esercito classista. Il sottotitolo del libro è L'insensatezza delle politiche di potenza. L'ideologia degli stati moderni è il realismo politico, che Krippendorff, con stringente e brillante argomentazione, dimostra essere insensato, sostanziale stupidità, accecamento di cui soffrono i potenti, a danno delle popolazioni che governano.
Altro testo che ha fatto discutere è Die Kunst, nicht regiert zu werden, L'arte di non essere governati, col sottotitolo Politica etica da Socrate a Mozart (trad. ital. di Vinicio Parma, Fazi 2003, orig. 1999). Il libro punta l'attenzione su una forma di governo di derivazione anarchica colta. E indica alcune figure di riferimento come la Arendt, Gandhi, Wagner, Mozart, Confucio, Lao Tse, Socrate, Platone, Tolstoj,. ... Di lui Tiziano Terzani ha scritto: «Mai come ora è indispensabile che la politica torni ad essere anche morale. Il libro di Krippendorff mi ha ridato speranza: è un incoraggiamento a riscoprire, attraverso la nostra stessa storia, il meglio dell'uomo».
È da segnalare anche Politica internazionale. Storia e teoria (originale 1986, trad. ital. di Antonella Cipriani e Elisa De Costanzo, Liguiri 1991). Il sistema internazionale attuale è il risultato di quella grande cesura nella storia umana che è la rivoluzione capitalistica del XV e XVI secolo. Segnaliamo pure Critica della politica estera (trad. ital. di Elisabetta Dal Bello, Roma, Fazi Editore, 2004).
Uomo di una cultura vastissima, di sensibilità artistica raffinata, amava ripercorrere la grande storia letteraria, musicale e teatrale dell'occidente per trovare i semi della pace e della pietas umana come antidoto alla barbarie. La morte di Krippendorff pesa molto sulla cultura sociale e politica dell'Europa.
Egli amava l'Italia, ed è venuto più volte anche a Torino, al Sereno Regis per convegni e seminari (di uno, del 3 novembre 1998, possiedo appunti precisi), e al Goethe Institut, per la presentazione del suo libro da Socrate a Mozart (mi disse, sottovoce, di non essere stato ben compreso). Ho avuto il piacere di incontrarlo e ascoltarlo anche a Osnabruck, a Berlino, a Udine e in qualche altro luogo. Avevamo conoscenze comuni a Ratingen, presso Düsselforf, legate a ricordi di comportamenti di pace durante la guerra. A Torino notò, con l'occhio dell'ospite, che la nostra città è piena di monumenti militari. È vero, eredità sabauda, ma cè anche un busto di Gandhi nei Giardini Cavour e, lì accanto, il tiglio di Nanni Salio. Ora, chi vuole, vi trova anche un itinerario di luoghi di pace (www.serenoregis.org). Di carattere aperto e cordiale, Krippendorff lasciava però trasparire con mitezza il segno dei contrasti sofferti. I suoi libri sono originali, ricchi di sensibilità morale, artistica, e di ampia cultura storica critica.
Francesco Comina, Bolzano
Enrico Peyretti, Torino



domenica 11 febbraio 2018

Gene Sharp: Il controllo nonviolento del potere
(da "Rocca", 1 agosto 1987. rocca@cittadella.org)


Gene Sharp e' ritenuto uno dei massimi ricercatori e studiosi nel campo dell'azione nonviolenta. Nato nell'Ohio (Usa) nel 1928, e' direttore del Program of Nonviolent Sanctions del "Center for International Affairs" della Harward University e sta conducendo con i suoi allievi e collaboratori la ricerca piu' vasta mai intrapresa sulle alternative nonviolente.
Alcune opere di Gene Sharp sono state pubblicate in prima traduzione italiana dalle Edizioni Gruppo Abele di Torino (corso Trapani, 91/b, 10141 Torino).
La trilogia Politica dell'azione nonviolenta rappresenta un classico fra gli studi sulla nonviolenza ed ha fatto definire l'autore "il Machiavelli della nonviolenza", perche' egli tende a mostrarne l'efficacia pratica prima del valore morale. Cio' naturalmente fa discutere nell'ambito della cultura nonviolenta.
Nel primo volume, Potere e lotta (pp. 164), Sharp analizza il potere politico in tutte le sue forme e dimostra che esso consiste in definitiva nel consenso popolare. Egli puo' cosi' tracciare una teoria per un controllo nonviolento del potere politico.
Il secondo volume, Le tecniche (pp. 344) illustra 198 diverse tecniche atte alla risoluzione nonviolenta dei conflitti, ciascuna delle quali e' tratta da numerosi casi storici di tutti i tempi e luoghi della terra. Il volume viene cosi' ad essere anche una storia della nonviolenza, seppure non ordinata cronologicamente, finora assente dalla produzione storiografica.
L'ultimo volume della trilogia, Le dinamiche, uscira' in edizione italiana, presso lo stesso editore, nell'autunno dell'87. Esso propone la riflessione sulle dinamiche che si instaurano nei conflitti in cui almeno una delle parti ricorre a metodi nonviolenti.
Le Edizioni Gruppo Abele prevedono anche la pubblicazione di un'altra opera di Sharp, Making Europe Inconquerable (Rendere l'Europa inconquistabile), un testo di strategia militare rivolto sia all'area nonviolenta sia all'ambiente dei militari. Sharp vi sostiene che, attraverso le tecniche di difesa popolare nonviolenta applicate su vasta scala e' possibile ed economicamente vantaggioso raggiungere un alto grado di sicurezza e scardinare l'equilibrio fondato sui blocchi contrapposti delle due superpotenze.
Gene Sharp e' stato recentemente in Italia per seminari e dibattiti. Uno di questi si e' svolto a Torino presso il Centro Studi Piero Gobetti, nell'ambito di un seminario su etica e politica che Norberto Bobbio e gli studiosi suoi allievi conducono da alcuni anni. Di questo dibattito do' un resoconto attraverso gli appunti da me raccolti, non rivisti dall'autore, sia durante la sua esposizione, sia durante la discussione seguita.
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La nonviolenza puo' vincere
Nei conflitti piu' acuti, sui cardini della societa', occorrono misure eccezionali. Per lo piu' si ritiene che la violenza sia la forza piu' decisiva. Ma sorgono problemi sulla sua scelta e sul suo uso, problemi sia pratici che etici. Chi usa la violenza puo' essere sconfitto, oppure puo' vincere, ma con esiti molto diversi.
Non e' vero che la violenza sia la vera fonte del potere politico. Esso deriva da altre fonti: dalla credenza nella sua legittimita', dal numero di persone che obbediscono, dal controllo economico, ecc.
Proprio Hobbes, assolutista, sostiene questa teoria del potere: egli pensava che se il potere politico non fosse accettato e obbedito verrebbe distrutto, percio' asseriva necessario obbedire a tutti i governi, compresa la dittatura. Ma se i governi dipendono dalla societa' governata, allora e' possibile togliere un potere oppressivo. C'e' una storia di lotte senza violenza, arrivate ad abbattere governi: Iran '79, Filippine '86, per esempio. Queste lotte hanno escluso la violenza non per principi pacifisti, ma per esperienze che facevano sperare un'efficacia maggiore dei mezzi nonviolenti. Non conosciamo come dovremmo questo tipo di lotte, finite con sconfitte, vittorie parziali, vittorie piene. Anche contro i nazisti, si sono usate queste lotte. Sono state sempre improvvisate, senza preparazione strategica ne' tattica, senza addestramento della popolazione, nelle circostanze piu' sfavorevoli. Ciononostante, hanno portato grandi contributi alla storia dell'umanita'. Queste esperienze possono essere utili per risolvere conflitti acuti. Ma occorrono ricerche approfondite per conoscerle. Da venti anni sto studiando l'applicazione di queste tecniche alla difesa nazionale: puo' essere respinta un'occupazione, un governo fantoccio, un dominio economico?
L'indottrinamento politico puo' essere sconfitto dalla resistenza ideologica, filosofica, nell'informazione, nelle chiese, nella scuola. Un colpo di stato dittatoriale puo' essere frustrato se nessuno riconosce i nuovi occupanti dei palazzi governativi. L'invasore puo' essere minato nel morale delle truppe (Cecoslovacchia '68), si puo' creargli problemi crescenti. Cio' puo' costituire una deterrenza, non meno efficace di quella nucleare. Costruire questa capacita' di risposta accanto alla difesa tradizionale convincera' a sostituirla completamente, alla fine.
Questa difesa e' una crescita del potere popolare. Non contribuisce a nuove dittature, come invece fanno molti sistemi militari. Si puo' dare il caso di perdite umane, ma sempre meno che con la difesa militare. La resistenza nonviolenta guadagna piu' facilmente simpatie sia all'interno che all'estero.
Questo metodo di lotta non e' nato con Gandhi ne' con Martin Luther King, ma e' cominciato col primo uomo. Pero' la storiografia e' selettiva e non ricorda queste lotte, che invece meritano attenzione e studio, qualunque sia la nostra idea politica, perche' possono utilmente sostituire la violenza e la guerra e dare soluzione ai conflitti politici piu' acuti.
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D - La difesa popolare nonviolenta puo' funzionare in una societa' disgregata come quella italiana?
R - Una tale societa' delega la difesa come delega tutto il potere, e la democrazia vi e' ridotta ad una larva.
La societa' disgregata e' una condizione molto diffusa anche negli Stati Uniti, non solo in Italia! Occorre cercare origini e cause di cio', e le soluzioni. La tecnologia militare non fa che aggravare questa disgregazione. Percio' non credo che il cambiamento delle tecnologie militari debba precedere la difesa nonviolenta. Non ho la soluzione fatta, ma certo dobbiamo contrastare la tendenza a governi sempre piu' accentrati. La gente deve sviluppare le proprie capacita'. La delega produce un crescente senso di impotenza.
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D - Nell'800 i democratici associavano milizia popolare e democrazia. I casi dell'India e dell'Iran dimostrano pero' che le lotte nonviolente approdano anche a forme non democratiche.
R - E' importante il nesso tra democrazia e difesa popolare, in entrambi i sensi. Si', nell'8OO si diceva: un voto a testa, un fucile a testa! Ma anche allora c'erano strategie alternative. Abbiamo pubblicato uno studio (1) sul decennio di resistenza nonviolenta delle colonie inglesi in America, con cui almeno nove colonie su dodici ottennero gia' l'indipendenza di fatto. Cominciata la guerra, il grado di partecipazione crollo'. D'altra parte, Iran e India non sono gli unici casi di resistenza nonviolenta seguita da dittature: c'e' anche l'ottobre '17 in Russia, seguito al febbraio '17. La nonviolenza non risolve per sempre tutti i problemi, p. es. di quali strutture politiche mettere in atto, della condizione che si crea dopo. Si tratta di praticare la lotta nonviolenta non solo nel momento della liberazione o della difesa, ma nella gestione di tutti i problemi sociali.
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D - Voi fate sperimentazione di questi metodi in conflitti reali?
R - Direttamente no. Ma siamo in contatto con i problemi: il primo capitolo del primo volume del mio libro Politica dell'azione nonviolenta, (si tratta del capitolo su La natura e il controllo del potere politico - n.d.r.) e' stato tradotto e circola clandestino in Polonia; alcune parti sono state tradotte e discusse con palestinesi e israeliani; prossimamente lo saranno in Thailandia. Un altro libro su questi temi sta per uscire in Massico.
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D - La nonviolenza come tecnica e' analoga alla democrazia intesa come regola del gioco. Che rapporto c'e' tra democrazia e nonviolenza?
R - Non sono la stessa cosa, ma si sovrappongono. Tra le caratteristiche della democrazia c'e' la soluzione incruenta del conflitto politico, mediante le procedure della democrazia liberale. Ma le strutture democratiche non sono state in grado di risolvere i conflitti estremi, in cui una parte rifiuta il compromesso o cerca addirittura di distruggere la democrazia. In questi casi estremi non c'e' una procedura democratica per risolvere il problema, e lo sbocco e' la tirannia o la guerra civile. Ma la lotta nonviolenta puo' dare una soluzione democratica a questi casi. Percio' essa si situa al limite del meccanismo democratico, a disposizione dei gruppi minoritari. In quanto fanno questa scelta, tali gruppi scartano il terrorismo, e non e' poco.
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D - La nonviolenza e' una tecnica o una scelta morale? Puo' servire anche a forze antidemocratiche, di destra o di sinistra?
R - Ci sono valori che ispirano la nonviolenza. Principi diversi giustificano la nonviolenza: in comune hanno il rigetto della violenza. Nel movimento operaio, e in altri casi, lotte nonviolente sono state scelte non per principi morali. La critica sottesa alla domanda mi e' stata rivolta anche negli Stati Uniti: alcune recensioni mi hanno accusato di "avere strappato il cuore alla nonviolenza"! Io credo possibili dei passaggi, e anche rapidi, dai metodi militari a quelli nonviolenti, senza bisogno di attendere che mutino i principi morali. La nonviolenza adottata per ragioni pratiche farebbe scoprire la sua superiorita' morale. La maggior parte della gente ha respinto la nonviolenza, magari ammirandone il valore morale, perche' la riteneva non efficace, non praticabile.
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D - C'e' dell'ambiguita' in quest'ultima risposta. Se il suo interesse si e' ristretto alla nonviolenza come tecnica, allora perche' la propone? Se e' solo una tecnica, puo' servire a tutto. Se e' solo piu' efficace, si ricade nella interminabile questione se sia piu' efficace la violenza o la nonviolenza.
R - Non guardo il mondo solo in termini di tecnica. La violenza mi ripugna. Perche'? Non lo so. Bisognerebbe sapere perche' le cose ci piacciono o no. Le tecniche nonviolente non sono panacee ma sono rilevanti di fronte alla violenza. Vista la sua efficacia, si apprezzera' il valore morale della nonviolenza. Non necessariamente ogni atto nonviolento e' morale. I mezzi nonviolenti non devono servire a qualunque scopo, anche se sono stati usati per fini immorali, p. es. il boicottaggio a danno degli ebrei negli anni venti. Naturalmente, sarebbe stato meglio che i nazisti avessero usato solo il boicottaggio, invece che le camere a gas. Adottata dai nazisti la violenza, dalla parte opposta si rispose allo stesso modo. Ci sono dei nessi tra la scelta nonviolenta e la democrazia. Sperimentata l'efficacia concreta della nonviolenza, otterremo una serie di altre conseguenze. Ne abbiamo gia' vista una, a livello etico: i vescovi cattolici degli Stati Uniti, nella loro lettera sulla pace (1983), affermano che "la resistenza nonviolenta offre un terreno comune di incontro tra quelle persone che scelgono l'opzione del pacifismo cristiano fino al punto di accettare di morire piuttosto che uccidere, e quelle che scelgono l'opzione della forza capace di uccidere ammessa dalla teologia della guerra giusta". Percio' la nonviolenza puo' essere la terza via tra il pacifismo (nel senso di: non difendersi) e la difesa violenta.
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D - Il concetto di forza e' diverso da quello di violenza?
R - Forza e' intesa in genere, negli Stati Uniti, come violenza legittima. Io uso il termine in un altro senso: come pressione forte, azione potente. Questa forza puo' essere violenta o nonviolenta.
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D - E' stata studiata la resistenza nonviolenta all'oppressione non apertamente violenta?
R - La maggior parte dei metodi di resistenza nonviolenta sono stati sperimentati proprio contro questo tipo di oppressione. La loro particolare efficacia sta in cio': che danno alla popolazione consapevolezza dell'oppressione sorda, sistematica, che la maggioranza altrimenti subisce passivamente.
(a cura di Enrico Peyretti)
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Note
1. W.H. Conser, R.M. McCarthy, D.J. Toscano, G. Sharp, Resistance, Politics, and the American Struggle for Indipendence, 1765-1775. Lynne Rienner Publishers, Boulder 1986, 580 pages, dollari 38,50.


venerdì 9 febbraio 2018




Recensione: Un cristianesimo non innocente


Recensione libro a cura di Enrico Peyretti: Adolf Harnack, Militia Christi. La religione cristiana e il ceto militare nei primi tre secoli, edizione italiana a cura di Sergio Tanzarella, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2016, pp. 170, euro 14,90
Sergio Tanzarella, studioso di storia del cristianesimo, ha curato e introdotto la traduzione italiana di questa opera classica negli studi su cristianesimo antico e servizio militare. Il Curatore avverte che negli ultimi decenni questi studi rispondono più alla precomprensione degli studiosi (pacifisti o giustificazionisti della guerra) che all’impostazione scientifica. Le tesi di Harnack  (1851-1930), a loro volta, risentono dello stato degli studi su chiesa antica e patrologia nel 1905.
Il rapporto chiesa-impero è una questione molto delicata perché coinvolge la sostanza stessa del “vangelo della pace” (l’espressione è nella lettera paolina agli Efesini 6,15, proprio nel contesto di una metafora militare, di “militia Christi”! In Atti 10,36 è detto che Dio “evangelizza la pace” per mezzo di Gesù).
Nell’esercito imperiale il soldato aveva ampi compiti, anche amministrativi, anche di polizia, ma non esclusivamente pacifici. Tertulliano distingue militare (in tempo di pace) da bellare (combattere, uccidere). Il rapporto tra cristiani e mondo militare dell’impero era complesso e sfumato, nel più vasto e incerto terreno della ricerca di soluzioni a problemi morali. La chiesa non dette particolare attenzione al problema del servizio militare e della nonviolenza, ma esiste un filo rosso di sensibilità pacifista e nonviolenta, minoritaria e circoscritta, che dà testimonianza fino al martirio. Tale situazione, del resto, non è cambiata fino a quella dei tempi recenti, in cui la chiesa ha predicato la pace, ma non ha impegnato quanto impegna in altri campi morali (p. es. la morale sessuale) nella scelta di nonviolenza attiva, del rifiuto chiaro delle armi, che resta proprio di minoranze profetiche. Una novità in questa linea è stato il messaggio di papa Francesco per la Giornata della Pace 2017, “Nonviolenza: stile di una politica di pace”. (in www.vatican.va)
Harnack si poneva due problemi: 1) in che misura il cristianesimo ha assorbito nella sua organizzazione caratteristiche militaresche, cioè la  visione della fede come combattimento in una guerra santa da parte dei  “soldati di Cristo”?  (Chi ha l’età sufficiente, oggi ricorda che questo titolo veniva conferito ai bambini col sacramento della cresima, confermazione del battesimo). 2) Quale fu la posizione della chiesa riguardo alla professione militare dei singoli cristiani?
Effettivamente, nei Vangeli, nell’Apocalisse, in Paolo si riscontra talvolta un linguaggio militare come figura letteraria, che però esercita un’influenza e un’assuefazione concreta. Tra i padri della chiesa, Origene ha il problema (che fu già di Marcione) di conciliare la Buona Novella di Gesù col Dio delle battaglie e degli eserciti del primo Testamento. Per lui, i cristiani sono milites Christi, il bellicismo è spiritualizzato, il battesimo è sacramentum (giuramento militare), Cristo è imperator; i martiri e confessori sono veri guerrieri.
Harnack riscontra una differenza tra le opere letterarie (idealizzanti) e la prassi quotidiana dei cristiani. Le fonti, silenziose fino al 170, successivamente presentano un «esercito percepito con sempre maggiore familiarità nella Chiesa», a causa sia del diffuso linguaggio militare cristiano, il quale ottenne il pericoloso effetto di rendere familiari immagini e azioni di un universo tanto lontano dal vangelo, sia delle molte conversioni nell’esercito. La fede cristiana è intesa come militanza nell’esercito di Cristo. Vi sono importanti eccezioni (Massimiliano e Marcello, obiettori martirizzati), ma la linea è quella, e si compirà nella svolta costantiniana. Il Dio cristiano è riconosciuto come Dio di guerra e di vittoria. I più anziani di noi ricordano l’inno abituale nell’Azione Cattolica, simile a un barbaro-liturgico grido di guerra: «Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat!». Ciò che ieri sembrava esprimere la fede, oggi la umilia.
Sulle tesi di Harnack vi furono reazioni e discussioni che Tanzarella documenta. Pare certo che la prassi, nella chiesa antica, sopravanzi definitivamente ogni norma o preoccupazione morale, anche perché la grande conversione al cristianesimo avvenne a partire proprio dall’esercito. Tuttavia, nelle chiese africane (poi soppiantate dall’islam) si trova una comune sensibilità al tema della nonviolenza e una coerenza tra le affermazioni degli scrittori e le scelte concrete dei cristiani: Tertulliano scrive il De Corona; vi sono testimoni della pace fino al martirio. Eppure, anche questi scrittori adottano, persino più di altri, immagini militari della vita cristiana, ma insieme al rifiuto del servizio militare e della violenza. Non si tratta solo, p. es. nel martire Massimiliano, di opposizione politica all’occupazione romana; sarebbe una lettura riduzionista.  Massimiliano è la voce di quel cristianesimo sommerso che ci è pervenuta generalmente attutita dalla mediazione dei vescovi e dei teologi (si vedano gli studi di Remo Cacitti). È da rigettare la tesi che in questi martiri non vi sarebbe obiezione antimilitarista, ma solo antidolatrica, e che ci sarebbe per loro piena compatibilità tra servizio militare e religione cristiana. Il testo originale degli atti processuali di san Massimiliano martire, decapitato, si legge nel lavoro storico-filologico di Paolo Siniscalco, Massimiliano: un obiettore di coscienza del tardo impero (Paravia, Torino 1974, pp. 159-161). Da questo testo e dall’analisi di Siniscalco risulta che il motivo dell’obiezione di Massimiliano sta nelle parole: «Non possum militare; non possum malefacere», dove il malefacere riguarda non pratiche idolatriche, ma l’uso delle armi (Siniscalco, p. 72 e 133-135).
Le immagini militari come modello della vita cristiana sono soltanto spirituali, non fanno impugnare le armi, ma quel linguaggio non restava innocente. Origene, per rispondere all’accusa di Celso ai cristiani di abbandonare l’imperatore durante le guerre (dunque, era un fatto avvertibile) dice che i cristiani fanno più e meglio che combattere, pregano Dio per la vittoria! Così si avvia una bellicosità spirituale. La battaglia spirituale tende a diventare reale, guerra santa. La militia metaforica si trasformò in servizio militare alla causa di Cristo: pax romana e pace di Cristo, del tutto estranee, finiscono per identificarsi!
Il Sinodo di Arles del 314 punisce i disertori, su richiesta di Costantino. Ma ciò dimostra che c’erano casi non pochi di disertori! Lattanzio e Eusebio di Cesarea offrono appoggio alla collaborazione dei cristiani con l’impero, facendo una vera teologia politica, imitata fino a tempi recenti, e inseriscono Costantino nel disegno divino! Le vittorie sono attribuite all’intervento divino, nasce una “teologia della vittoria” (Lepanto, del 1571, è un modello anche per certi cristiani di oggi). Il miles Christi diventa un eroe che uccide i nemici della Chiesa. Bernardo di Chiaravalle, nel De laude novae militiae (1128), dice papale papale che  uccidere il nemico non è un omicidio ma un “malicidio”. Oggi l’imperatore d’Occidente dichiara, in un discorso dopo l’11 settembre 2001, che la sua “guerra infinita” durerà fino a «togliere il male dal mondo». Padre Gemelli, durante la prima guerra mondiale porrà i soldati italiani sotto la protezione del Sacro Cuore di Gesù, così esortandoli a restare docilmente ubbidienti alle esigenze di quella folle guerra. In un libro recente, Uccidere senza odio (Franco Angeli, 2015), lo storico Francesco Piva documenta la «pedagogia di guerra nella storia della Gioventù cattolica italiana tra 1868 e 1943». Padre Sertillanges, importante  domenicano francese, quando Benedetto XV definì “inutile strage” quella guerra, chiedendo la pace, proclamò: «Santo Padre, non vogliamo saperne della vostra pace!». Scoprire Sertillanges infetto da tale nazionalismo, mi ha scandalizzato, perché egli fu anche per me un maestro nell’educazione allo studio.
La militarizzazione del cristianesimo, antitesi del vangelo, è l’ennesima sacralizzazione della violenza scaricata sul capro espiatorio, nell’illusione di liberarne la società. René Girard mostra la capacità demistificatrice dei Vangeli, che ingiustificano sacrifici e violenza dal momento che il “capro espiatorio” Gesù è il pienamente innocente, colui che pienamente «prende su di sé» il male del mondo, per sostituirlo con l’amore senza limite, invece di respingerlo con quell’aggiunta di male che è la violenza “giustificata” (vim vi repellere licet). Anche la teologia sacrificale della redenzione, dominante per secoli nella catechesi, e solo oggi in via di superamento (cfr Giovanni Ferretti, Spiritualità cristiana nel mondo moderno. Per un superamento della mentalità sacrificale, Cittadella editric, 2016), dipende dal fascino tetro della violenza purificatrice, attribuita anche a Dio Padre, che vorrebbe l’unica soddisfazione adeguata all’offesa infinita fatta dall’umanità alla sua infinita maestà, con la morte sacrificale del proprio Figlio divino!
Per tutto ciò le chiese cristiane, salvo minoranze,  hanno evitato la scelta chiara della nonviolenza evangelica, quasi allarmate perché tale opzione, effettivamente, toglie la possibilità di confidare ancora nella guerra, seppure come extrema ratio. Evitare l’opzione nonviolenta, o anche solo prendere le distanze dal pacifismo, significa volersi riservare la possibilità morale della guerra.
Torniamo alla storia. Ipazia, filosofa pagana (stimata dal vescovo Sinesio), fu linciata nel 415 ad Alessandria da cristiani fanatici che l’accusavano di perseguitare il vescovo Cirillo (responsabile indiretto di quel delitto). Militia Christi diventa così  intolleranza, prima verso i pagani poi verso eretici e infedeli.
L’espansione della cristianità avviene in modo anche bellico, da Carlo Magno alla Reconquista spagnola alla violenta conquista americana, denunciata dal vescovo  Bartolomé de Las Casas. La crociata non è solo un evento storico ma diventa una categoria perenne dello spirito cristiano.  All’inizio del XVI secolo, negli stessi anni di Machiavelli e di Lutero, Erasmo da Rotterdam scrive nel grande Dulce bellum inexpertis: «Si scontrano eserciti cristiani, tutti sotto l’insegna della croce [rimasta fino ad oggi in tanti stemmi statali, e di partiti politici cristiani, n.d.r.], che da sola ammonisce come dovrebbero vivere i cristiani. Sotto quel segno della perfetta comunione dei cristiani ci si precipita alla reciproca strage». Ho pubblicato una lettera di Ernesto Balducci, inviatami il 21 gennaio 1989, nella quale egli afferma che la riforma pacifista di Erasmo, se fosse stata capita, avrebbe inciso sulla modernità più positivamente della riforma di fede, ma non pacifica, avviata da Lutero, perché la vera questione evangelica era la pace (cfr il foglio n. 238, aprile 1997, p. 7; v. anche David Maria Turoldo, Ernesto Balducci, La terra non sarà distrutta, l’uomo inedito la salverà, Ed. Gribaudi 2002, pp. 38-39. Le mie lettere di Balducci sono depositate presso la Fondazione Balducci). Ci si ricordi anche di questo, nel 500° di Lutero, giustamente celebrato.
Guerre di religione intercristiane; guerra sacra ai turchi; valore religioso del giuramento militare; benedizioni della bandiera e delle armi; preghiere del fante e del marinaio; cappellani militari in tuta mimetica e stola (spettacolo recente in televisione); “croci” al merito militare, guadagnate sul campo di guerra; “altare” della patria al milite ignoto; omaggi all’eucarestia e al papa mediante esibizione di uomini in armi; retorica della “religione civile”, fino  all’ipocrisia offensiva dei monumenti ai “caduti” – non alpinisti precipitati, ma soldati ammazzati – eretti in ogni più piccolo villaggio ai contadini strappati a famiglia e terra per essere mandati a morire e uccidere: dilaga così l’inverosimile possibilità di una fedeltà cristiana armata e disposta a guerreggiare da buon soldato cristiano.
Ecco, allora, che il soldato ucciso in guerra diventa un eroe, anzi un martire, come letteralmente è stato detto da vescovi celebranti anche nei funerali dei soldati italiani morti in Iraq, portando la “pace” con la guerra! Ma quel titolo usurpato spetta soltanto a chi viene ucciso per non uccidere, da Massimiliano a Franz Jägerstätter (decapitato come Massimiliano e come i giovani della Rosa Bianca), e a tanti altri conosciuti o  sconosciuti, ma scritti nel libro della vita.

Enrico Peyretti

martedì 6 febbraio 2018

Una dichiarazione di fede (25 giugno 2015)
Ad  una corrispondente, che non conosco di persona, in una lista mail, ho risposto con questa che mi è venuta una specie di dichiarazione di fede. La comunico agli amici che ne fossero curiosi.
Ciao, Enrico
Cara Luisa, ti ascolto volentieri, anche - anzi! - quando mi correggi! Credo bene alla gioia che hai sentito con l'unzione degli infermi. All'occasione sarei contento di riceverla. Non disprezzo i sacramenti, i riti. Anch'io ho studiato teologia, per 4 anni all'Università Gregoriana, col titolo finale di licenza. Ma oggi (avrò 80 anni a ottobre), mi preoccupo meno dell'ortodossia, della dottrina, del culto, e sto - cerco di stare - attaccato allo Spirito vivo nella vita vissuta. Ero diventato prete e ho voluto essere laico, uno del popolo. Partecipo attivamente ad una piccola comunità ecclesiale "periferica". Non credo in una speciale sacralità dei preti. Non mi pento del presbiterato, e ancor meno di averlo lasciato, in pace con la chiesa e col mio vescovo di allora, Pellegrino. Ho parlato con papa Giovanni e con papa Montini, che mi conosceva da tempo, non coi successori, mai visti da vicino, perché non ne ho avuto né cercata l'occasione. Della gerarchia dico: non senza, non contro, non sotto. Rispetto vescovi e papi, amo Francesco, ma non dipendo da loro. Sono sia cattolico che protestante, e interreligioso. Ho tanti amici non credenti. Ho frequentato Bobbio e scritto un libro con  39 lettere sue e molti colloqui. Credo nel sacramento diffuso (che siano 7 o 700, fa lo stesso), nello Spirito che "replevit orbem terrarum", nella chiesa che è tutta l'umanità (diceva don Michele Do), nel sacerdozio universale, nella "pluralità delle vie" (Pier Cesare Bori, con Pico della Mirandola) su cui Dio viene a noi, e noi a lui, nelle varie religioni e anche non-religioni. Certo, credo soprattutto a Gesù, che è luce piena venuta a me, come a te, ma so che riflessi diversi dell'unica luce sono dappertutto. Non confondo luci e nebbie. C'è anche il male, ma il Bene (nome più vero di Dio) è all'Origine e alla Meta. Ti ho scritto in libertà, voglio rispettare e amare le differenze. Ti sono grato di questa occasione per una sintetica dichiarazione personale di fede. Oggi non sono nessuno, salvo marito, padre, e soprattutto nonno, alunno di 4 nipotini. Lavoro nella cultura di pace. Soffro molto per le violenze che ci offendono tutti nelle vittime. Tutto il male è nel dominio. Al di sopra di questi momenti scuri, e altri tristi (muoiono sempre più spesso gli amici, oggi Renato Solmi) oso dire che sono felice. Io ti ringrazio tanto. Forse siamo coetanei, o quasi. Certamente "amici di mail". Un abbraccio, Enrico

domenica 4 febbraio 2018

Morte, violenza, nonviolenza 
Sulla spiritualità di Nanni Salio
Nell'incontro, nel secondo anniversario della morte di Nanni Salio, avvenuta il 1 febbraio 2016, nel Centro Studi Sereno Regis, Torino
 
Spiritualità / Di fronte alla morte / Morte, violenza, nonviolenza: modi di morire
La nonviolenza sfida la morte / La morte rivela e compie la vita

Spiritualità
Nel secondo anniversario della morte, ricordiamo Nanni Salio, tornando in vari modi sul suo lavoro, sulla sua ricerca, sulla sua vita, sul senso che ha dato alla sua vita. Qui tento di scoprire qualcosa della sua spiritualità. Ho già cercato, dopo la sua morte, come in un commiato, di leggere la sua vita come una “vita per gli altri”. Questa è, ne sono intimamente convinto, una forma di vita che la morte non annulla. (Vedi http://serenoregis.org/2016/02/06/con-nanni-salio-gandhi-in-mezzo-alla-morte-persiste-la-vita-enrico-peyretti/ ).
Che cosa è la spiritualità di una persona? Direi, con semplicità, che è quel nucleo di valori, persuasioni e sostegni, obiettivi di vita, che in una persona orientano la sensibilità e le scelte. È la vita intima e profonda di una persona, la sua capacità di sentire e rispondere ad appelli della vita. Una spiritualità può attingere a lunghe tradizioni spirituali e sapienziali, plasmate ora più ora meno in forme personali. Ci sono spiritualità religiose, più o meno strutturate, e ci sono spiritualità che non si riconoscono in tradizioni religiose, anche se da tutto sanno ricevere alimento alla vita profonda.1 La spiritualità significa qualcosa che non è il livello intellettuale né l'emotivo, non è una religione, non è una filosofia, ed è anche qualcosa di queste. È ciò che "ispira" dal profondo, dall'intimo, il pensare e l'agire di una persona. È il mistero di una persona, che un po' traspare e molto resta inverificabile e assolutamente inviolabile, di quella persona, e solo in parte si può cogliere e descrivere, senza pretesa di definirlo.
Riusciamo a vedere qualche carattere della vita spirituale di Nanni? Non è tentativo che uno possa affrontare da solo: gli amici, gli eventuali lettori che hanno conosciuto Nanni, potranno integrare. Io lo ricordo severo ed esigente con le religioni istituzionalizzate, specialmente nel nostro Occidente, ma non sordo, e tanto meno sprezzante, verso la sensibilità delle persone religiose. La laicità di Nanni era lontana, per quanto ne ho capito, da una freddezza che a volte si constata, verso la dimensione spirituale dell'umano. Riconosceva i maggiori profeti e i santi della giustizia e della pace nelle diverse tradizioni storiche religiose. Vedeva che, dove le religioni cercano e acquistano un potere nella società, offuscano la loro luce e non aiutano il cammino della pace fondata negli animi. Oggi, anche il pacifico buddhismo, a cui Nanni era vicino, in alcune società in cui prevale, come il Myanmar, ha dato luogo a fatti di discriminazioni violente, dolorose per tutti noi. Dove invece le religioni “dicono la verità al potere” (espressione attribuita a Gandhi), esse contribuiscono alla vita giusta. Nanni coltivava la riflessione razionale e scientifica per la costruzione della pace, ma, come discepolo di Gandhi e di Capitini, profondamente religiosi, non poteva non sentire le vibrazioni interiori e gli orizzonti di questi maestri sul mistero che ci avvolge e ci chiama, nella storia, verso la vita giusta.
Nel cattolicesimo italiano Nanni sapeva vedere gli impegni per la pace, ma sempre con vigile esigenza. Per esempio, ricordo che, sul famoso giudizio dato dal papa Benedetto XV, il 1° agosto 1917, sulla guerra mondiale allora in corso, «Inutile strage», Nanni diceva con amara ironia: «Come se potesse esserci una strage utile….». L'opera per la pace, precedente e seguente, di quel papa non ascoltato, è ben più ampia e approfondita di quella sola frase.2 Ma Nanni aveva ragione perché la Chiesa, fino al Concilio 1962-65, non mise in discussione la teoria antica della “guerra giusta”, o meglio “giustificata” a ben determinate condizioni. Di questa dottrina era facile abusare da parte degli interessi di potenza, a cui si piegava la morale ufficiale: i cappellani militari insegnavano che uccidere in guerra per obbedienza, senza odio personale, non era peccato, ma dovere del buon suddito.3 Furono pochi gli obiettori di coscienza per motivo cristiano fino dalla prima guerra mondiale e crebbero di numero dopo il Concilio, insieme ad una crescente teologia della pace.4 La severità esigente verso le religioni, come quella di Nanni Salio, è sintomo di bella sensibilità spirituale, di attesa di un bene operante. Le religioni devono far tesoro di chi, stimolandole e criticandole, le aiuta nel loro compito di sviluppare lo spirito umano.

Di fronte alla morte
Ogni spiritualità si misura sul senso positivo che riesce a dare alla vita, e perciò anche si confronta con ciò che colpisce e riduce la vita: la violenza e la morte; l'offesa e il dolore; il tempo che limita e taglia le aspirazioni umane. Una spiritualità che riconosce valore alla vita, che ama la vita, resiste e si oppone a tutto ciò che violenta la vita. Nanni amava la vita, le vite, le persone, la natura, pur parlando spesso, con il buddhismo, di "impermanenza" nostra e di tutto. Il “non permanere” in questa via, io penso che non significhi unicamente finire nel nulla, ma possa significare anche passare in altre forme di vita. La fragilità, la precarietà e provvisorietà, non riduce il valore e la bellezza, il dovere di difendere la vita dalla violenza. Non è la forza materiale che dà consistenza e valore a ciò che vive.
Alla nonviolenza Nanni ha dedicato tutta la sua vita e ogni sua energia. La nonviolenza positiva è una passione per la vita, proprio per la vita fragile e minacciata, e non vuole, strenuamente non vuole, non accetta, non sopporta che la vita sia offesa, che sia usata come strumento utile, che sia dominata e oppressa: la nonviolenza non vuole che la morte prevalga sulla vita. Eppure ogni vita è limitata dal tempo, e muore. Come sta la nonviolenza di fronte alla morte, ad ogni forma di morte?
«Di fronte alla morte si aprono domande poco esplorate, anche da chi come noi si propone di costruire una cultura della nonviolenza». Così scriveva Nanni Salio a Giuliano Pontara, l' 8 novembre 2015, all’indomani della morte, pochi mesi prima di lui, della propria compagna Daci.
Nanni sentiva che la nonviolenza deve dare una risposta sul problema della morte. Sono convinto che aveva una sua bozza di risposta, anche se mi disse, anni addietro, che sperava di vivere a lungo per portare più avanti il lavoro. Su Transcend Media Service, in data 5 luglio 2010, Nanni Salio commemorava Elise Boulding, Enzo Tiezzi, Rina Gagliardi, scomparsi da poco, sotto il titolo “Impermanenza, Compresenza e Fragilità”. Scriveva in conclusione: «Pur nella continua incertezza esistenziale delle nostre vite, ci è di conforto pensare e percepire la vostra presenza nel grande oceano della compresenza capitiniana, dell’inter-essere, delle onde di coscienza individuali nel quale un giorno anche noi confluiremo». Così, dalla morte di alcuni maestri raccoglieva una eredità di pensiero e impegno, vedendo la loro impalpabile continuità nella nostra vita.
C'è poi la nostra morte personale. A questa certamente Nanni pensava molto nel tempo della sua malattia, quando rispose ad una comune amica: «Mi chiedi Come sto? Eh, si vede la vita in un altro modo».
Non mi risulta che abbia sviluppato o espresso una più ampia riflessione specifica sulla nonviolenza e la morte. In ogni caso, suggerita dalla vita di Nanni, e dal medesimo impegno per la nonviolenza, questa ricerca è compito nostro. Una vita nonviolenta combatte la morte inflitta, aggiunta, ma di fronte alla morte inevitabile che cos'altro può fare?

Morte, violenza, nonviolenza: modi di morire
Che cosa può fare la nonviolenza di fronte alla morte? Che cosa sa e cosa dice la nonviolenza sulla morte? Direi che può fare due cose: combattere la morte, e addomesticare la morte, riconciliarsi con essa. La morte è sempre nemica, o può essere amica?
La violenza è morte aggiunta, artificiale e cattiva, alla nostra morte naturale. La guerra, e le altre forme di violenza, anche strutturali e culturali, credendo di ribellarsi alla morte, la moltiplicano e la incrudeliscono. Evitare questa morte nemica è opera di vita, è costruzione di bene e di felicità possibile. È l'opera della pace giusta.
La morte naturale può essere non violenta, o addirittura amica? Spesso è difficile, travagliata, dolorosa. Un impegno nonviolento della scienza medica e della vita sociale, può ridurre il dolore della morte, umanizzarla quanto possibile assicurando la coscienza e la dignità di chi muore, in modo che possa essere una morte se non dolce, almeno pacifica.
Guardiamo alcuni modi di morire. La retorica violenta ha esaltato la morte del combattente, cioè di chi riceve la morte mentre dà morte, coinvolto in una spirale folle e tetra. Ha celebrato la morte dell'eroe violento, che ha molto ucciso; ha cantato la “bella morte” fascista, ha consacrato la morte del “martire” - “testimone” di che cosa? - sacrificatosi per uccidere. In simili esperienze, è la violenza che regna sulla vita. Questo morire, usando la morte propria come arma contro la vita altrui – tipico il terrorista sui-omicida – è un servire la morte disprezzando la vita, è impersonare la violenza, è ridurre la vita umana ad un caso biologico, senza una dimensione dello spirito.
Ci sono altri modi di morire. Negli stessi giorni di Nanni cade l'anniversario – il 30 gennaio 2018 è il settantesimo – dell'uccisione di Gandhi da parte di Godse, un fanatico indù.
Gandhi distingueva la nonviolenza del debole e del vile dalla nonviolenza del forte. Noi sappiamo che una volta egli si chiese: «Ho io in me la nonviolenza dei forti? Solo la mia morte lo mostrerà. Se qualcuno mi uccidesse e io morissi con una preghiera per il mio assassino sulle labbra, e il ricordo di Dio e la consapevolezza della sua viva presenza nel santuario del mio cuore, allora soltanto si potrà dire che ho la nonviolenza dei forti»5. Jean-Marie Muller commenta così: «Gandhi è morto esattamente come aveva intravisto. Noi sappiamo oggi quello che lui stesso ignorava: egli possedeva realmente in sé la nonviolenza dei forti»6.
Nella morte di Gandhi ci sono due cose: da un lato l'odio fanatico, il crimine dell'assassino, dall'altro una pienezza di vita per Gandhi. Certo, la sua azione per l'unità e la nonviolenza dell'India (ben più che la liberazione dal colonialismo inglese) fu spezzata, ma l'atto di morire con amore ha resa la sua azione ininterrotta e diffusa in tutti i paesi. La morte di Gandhi ha neutralizzato la violenza con cui gli è stata inflitta, l'ha rovesciata in una feconda nonviolenza. Gandhi ha transustanziato – cambiato la sostanza – dell'atto che gli ha dato la morte. La Grande Anima, il Mahatma, che viveva in quel piccolo uomo seminudo e magro, un vulcano di energia spirituale, si è diffusa in tutto il mondo, accendendo mille resistenti tenaci focolai di spirito, desiderio, ricerca, azione nonviolenta.
La storia umana, minacciata e deturpata da tante violenze di ogni genere, sta coltivando e sperimentando anche la forza della nonviolenza, che umanizza tante situazioni di conflitto. La cultura dominante non sa ancora vederlo, ma lo vede chi si cura di esplorare la letteratura storica ormai abbondante che documenta le lotte nonviolente, specialmente da un secolo in qua. La nonviolenza non si impone, non ha una logica di vittoria, non rovescia il mondo da feroce a tutto mite, ma mantiene tenacemente aperta l'alternativa operante della sapienza politica, cioè del saper vivere insieme senza dominare o distruggersi, e questa è realtà che smentisce il dogma della forza violenta come regina della storia.
La legge della vita è la forza nonviolenta, diceva Gandhi.
Questa forza nonviolenta sfida la morte in Gandhi, attivissimo, ucciso da una morte che non poté distruggerlo, e sfida la morte in tutto il movimento storico mondiale mosso dalla sua esperienza, movimento che riassume la migliore sapienza “antica come le montagne”, e apre il nuovo più umano modo di convivere. La nonviolenza sfida le strutture, gli strumenti e le volontà che imperano dando morte ai popoli, e sfida la morte che la violenza infligge ai più coraggiosi e più esposti del movimento, trasformandola in testimonianza di azione per la vita.
Il fondamento di questa fiducia forte nella vita e di questa attiva speranza al di là delle forze di morte mi sembra espresso limpidamente da Gandhi stesso, che scriveva: «…Vi è una forza vivente, immutabile, che tiene tutto assieme, crea, dissolve e ricrea. Questa forza o spirito informatore è Dio (…). E questa forza è benevola o malevola? La vedo esclusivamente benevola, perché vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce»7. La resistenza della vita e del bene è argomento della fede di Gandhi nella Verità, che per lui è l'unità profonda di tutte le cose. Chi si impegna nella nonviolenza ha una fede, in tante forme diverse, perché guarda e opera un passo più avanti del calcolo, dell'interesse particolare, delle fazioni che dividono l'umanità, della realtà limitata dalla morte e dalla violenza, e comincia già a vivere nella “realtà liberata” (Capitini) per portarla nel mondo attuale in cammino.

La nonviolenza sfida la morte
La nonviolenza sfida la morte, non respingendola addosso ad altri, come fa la guerra (Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra), ma contribuendo ad addomesticarla, a renderla domestica, familiare, ad averla presente nel vivere. «Si conoscono solo le cose che si addomesticano (…) Se tu vuoi un amico, addomesticami», dice la volpe, che potrebbe anche lei essere temibile, al Piccolo Principe. Riuscirà l'umanità a trasformare la morte da nemica a “sorella” come la chiama profeticamente san Francesco nel Cantico delle creature?
La morte ci è presente non solo per l'amaro spettacolo continuo delle violenze che uccidono e opprimono tante vite nel mondo, ma anche come consapevolezza della nostra fragilità. Questa nostra morte, specialmente con l'avanzare dell'età, va familiarizzata, per non esserne ossessionati, per non chiudersi in un egoistico, avaro e inutile risparmio di sé. Si può addomesticare la morte con la scienza e l'arte medica, con la cura della salute, con l'esercizio generoso della nostra attività, con l'amicizia, l'affetto, la solidarietà sociale, con la speranza oltre il visibile. Soprattutto si può riempire di vita la morte naturale e inevitabile, vivendola come uno spendersi fino in fondo nel lavoro per la giustizia e la pace.
Molti dei più coraggiosi amici della nonviolenza hanno pagato con la vita il loro impegno, come abbiamo visto in Gandhi. Questo è un modo di vincere la morte, di trasformarla in un atto di vita. Ma anche chi, in limiti personali modesti, lavora per qualche lotta giusta con mezzi nonviolenti, e coltiva il pensiero nonviolento, costui sta consegnando la sua vita agli altri, alla pace, a uno stadio di ulteriore evoluzione spirituale umana, e con la sua morte consegnerà un po' più di vita a chi continua, come ha fatto Nanni a noi.
Morire nel patire violenza anziché far violenza ad altri, morire con coraggio, con amore, senza subire passivamente la morte – così hanno fatto Gesù, Gandhi, M.L. King e tanti altri -, può essere non morire del tutto. Può essere continuare a parlare, ad essere presenti negli altri e ispirarli ancora, può essere agire e vivere ancora. Lo vediamo: nessuno ci parla e ci accompagna così intimamente, dandoci forza per vivere, come quei morti coraggiosi.
La morte rivela e compie la vita
Si può e si deve parlare della morte, per dignità umana, non si deve farne un tabù, mettendo la testa sotto la sabbia. È legge della vita ridurre il potere della morte.
Ci occorre ammirare la bellezza della vita, scoprirla e coltivarla se non l'abbiamo a sufficienza. Se la vita non fosse da ammirare, la morte non sarebbe da temere. Guardiamoci dall'imprecare alla vita quando è difficile, dura. Guardiamoci dall'invecchiare brontoloni e ingrati. Scopriamo e liberiamo la pace della vita dietro il peso dell'offesa e l'ombra del dolore. Perché temiamo la morte? Perché amiamo la vita. Il vero timore, più del morire, è perdere il bene della vita.
Dice Buddha: «Tutti temono la morte, tutti hanno cara la vita: mettendoti al posto degli altri, non uccidere, e non fare uccidere» (Dhammapada, I versi della legge, 10, 129-130). «Non uccidere», neppure nel pensiero, neppure con la parola dura, Dice Gesù: «Avete inteso che fu detto agli antichi: non uccidere. Chi uccide è sottoposto al giudizio. Io invece vi dico: chiunque si adira col suo fratello, o gli dice stupido, o pazzo, sarà sottoposto al giudizio» (vangelo di Matteo 5,21-22). Il comando negativo non-uccidere è solo il primo gradino della scala che ci porta verso il più felice positivo comando: vivi e fa vivere. Invece, l' “ordine delle cose” vigente offende ancora molto la vita. Gli stati si arrogano ancora il potere di morte, col “monopolio della violenza”, con armamenti folli e suicidi, e col prevalere di relazioni di pura forza. Ha scritto papa Francesco: «Questa economia uccide» (Evangelii Gaudium, n. 53). C'è ancora uno «scialo di morte» (diceva David Maria Turroldo) nel mondo umano, che grava anche sulla natura, madre di vita.
Nanni Salio amava vivere e lavorare. Fin da piccolo inorridì a vedere in vetrina le carni macellate degli animali, e non voleva mangiare carne, racconta la sorella Carla. Impiegò tutta la sua capacità di ricerca, riflessione, organizzazione e diffusione, per la difesa e liberazione della vita dalle offese della violenza, in tutte le sue manifestazioni. Una vita come la sua non si esaurisce con la morte. Nella morte temporale ha invece un compimento, si riassume e si rivela nel suo valore. Se la morte è l'ultimo atto del donarsi, è un atto di vita comunicata a noi. Chi «attraversa la morte da vivo» (come dice il teologo Carlo Molari) col compiere la sua vita genera altra vita.
Poiché il pensiero non è solo registrare i fatti, ma aprire ed esplorare i confini - «Pensare è varcare le frontiere» (Denken ist ûberschreiten), dice Ernst Bloch, il filosofo dell'utopia concreta – noi sappiamo che Nanni ha camminato con noi e con tanti altri come un esploratore di umanità liberata e più vera, più viva. La nonviolenza, cioè lo spirito profondo di Nanni Salio, di tutta la sua vita, è questa impresa grande, verso una viva verità.
Enrico Peyretti, 02 febbraio 2018
 
1 Segnalo il libro di autori vari, curato da Matteo Soccio, Convertirsi alla nonviolenza? Credenti e non credenti si interrogano su laicità, religione, nonviolenza. Gabrielli editori, 2003
2 Ne dava ampio resoconto un saggio di Italo De Curtis, in Orientamenti sociali, nn. 6-7, 1967, di 43 pagine.
3 Cfr Francesco Piva, Uccidere senza odio. Pedagogia di guerra nella storia della Gioventù cattolica italiana, 1868-1943, Franco Angeli editore, 2015
4 Jean-Marie Muller fa il punto sui più recenti passi di superamento della teoria della “guerra giusta” nel ibro La violence juste n'existe pas (Les éditions du Relié, Paris 2017)
5 Gandhi, Antiche come le montagne, Ed. di Comunità 1965, pp. 95-96.
6 Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Pisa University Press 2004, p.250.
7 Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100.

venerdì 2 febbraio 2018


Una lettera del 2011 all'Arcivescovo
(pubblicata in sintesi in il foglio n. 380, marzo 2011, www.ilfoglio.info, qui integrale)
380 - Una lettera sincera e franca a Cesare Nosiglia, vescovo di Torioversione ie]


Torino, 26 dicembre 2010

Caro Signor Arcivescovo Cesare Nosiglia,
La ringrazio del Suo biglietto di auguri, e glieli ricambio di cuore.
Il mio augurio natalizio di quest’anno è stato: poiché di nascere non finiamo mai, dunque possiamo sperare, nonostante tutto.
Colgo l’occasione per scriverle questa lettera, che vorrei non tenere privata, dati gli argomenti comunitari. È una lettera lunga, e non è comoda: la legga solo se ha tempo. Vuole essere una lettera di sincerità e di dignità, che ignora il “muro d’incenso”. È una lettera mia, soltanto personale, ma credo (se non sbaglio) che rappresenti anche il sentire di altri cattolici, non pochi. Scrissi una lettera analoga, ma molto più sintetica, all’arcivescovo Poletto all’inizio del suo servizio, quando egli ebbe l’iniziativa bella e giusta di mandare un saluto e un segno di attenzione agli ex-preti.

*
Non so se sono ancora cattolico. Né mi interessa molto. Vorrei, e prego lo Spirito santo, di essere un po’ cristiano.  Personalmente, non ho un problema ecumenico: la chiesa di Cristo è una “chiesa di chiese”, tutte con la stessa autenticità  - «dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» -, e solo Dio vede quanto ciascuna è fedele al Vangelo.
Però frequento principalmente la chiesa cattolica, in un angolino periferico, senza importanza. Partecipo alla chiesa nella preghiera, nella riflessione, nel dibattito, nella parresia. Forse saprà che da quarant’anni, con altri amici, pubblichiamo il “mensile di alcuni cristiani torinesi” il foglio (www.ilfoglio.info), che ora Le invieremo regolarmente.
Quando è il caso, partecipo al culto evangelico, alla Santa Cena, a cui riconosco lo stesso valore della messa cattolica. Riconosco Lei come vescovo di riferimento nella chiesa torinese. Mi dispiace solamente, anche per rispetto della Sua persona, che Lei sia arrivato qui nel modo in cui, in certe strutture patriarcali, uno sposo sconosciuto viene assegnato ad una sposa ignara; mi dispiace che sia stato designato da fuori, come un funzionario spedito in una prefettura, senza alcuna partecipazione della chiesa torinese alla Sua designazione. Ma sappiamo bene come questa è una penosa piaga della chiesa. Forse un vescovo, all’atto della sua designazione, potrebbe dire una parola giusta e doverosa contro questo metodo. So di almeno un vescovo che lo ha fatto.

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Riguardo alla chiesa cattolica, la mia posizione attuale è quella di sorella Maria di Campello, donna umile e grande, spirito illuminato, che scriveva a Gandhi: «Io sono creatura selvatica e libera in Cristo, e voglio con Lui, con te, con voi, con ogni fratello cercatore di Dio, camminare per i sentieri della verità» (24 agosto1928). «Io sono riconoscente e in venerazione per la Chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma la chiesa del mio cuore è l’invisibile chiesa che sale alle stelle. Che non è divisa da diversità di culti, ma è formata da tutti i cercatori della verità» (11 luglio 1932).
Gandhi era per lei «pietra miliare verso la vastità del Regno». E parlava spesso di chiesa «senza confini»[1]. Oh, così finalmente si respira! Non nell’abituale autocelebrazione ecclesiastica.
I maggiori testimoni della fede che ho incontrato personalmente nella mia vita – Balducci, Turoldo, Michele Do, Umberto Vivarelli, Benedetto Calati, Adriana Zarri -  pensavano e parlavano così.

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Invece, oggi, archiviato lo spirito del Concilio, nonostante il solito omaggio retorico, la chiesa si rappresenta, agli occhi del mondo, nei vescovi e nel papa, che rubano – non solo per colpa dei media superficiali – l’intera immagine della chiesa.
C’è qualche bella eccezione di singoli vescovi, grazie a Dio. Ma la gerarchia appare come una categoria separata, interessata alla propria struttura immobile, ingessata nella sua sacralità “sgridona” e brontolona, molto lontana da un atteggiamento fraterno, coraggioso, incoraggiante, umano, misericordioso (il trattamento di Welby ha scandalizzato i cattolici più semplici e buoni).
Invece, la chiesa è molto più che i vescovi, non solo come numeri e realtà umane, ma come fede, teologia, scelte di vita, testimonianza, nonostante debolezze ed errori di tutti i cristiani. La gerarchia non si decide a prendere atto del fatto che come chiesa ufficiale non significhiamo più nulla per le nuove generazioni. Siamo tanti con figli che, senza neppure astio, ignorano totalmente la chiesa, come io ignoro il calcio.
La chiesa appare come un partito, una forza sociale tra le altre, coi suoi interessi – addirittura interessi economici non puliti, forse peggiori delle offese sessuali - con le sue alleanze calcolate, non di rado impresentabili.
Un vescovo mi ha parlato così, ed ha aggiunto chiaro e tondo, letteralmente: «Questa non è la chiesa di Gesù Cristo». Vorrei chiederle fraternamente, senza volere una risposta: ma vi dite queste cose con franchezza nelle discussioni interne alla Cei? Ma ci sono discussioni nella Cei? Vista da fuori è una compattezza congelata: i vescovi sostituiti da un capo, come scolaretti, o soldatini. Le indiscrezioni parlano di lotte tra cardinali. La discussione pubblica è scomparsa anche dai settimanali diocesani. Come può vivere una comunità che non discute, che non dibatte? Tutto ciò è irreale.
Un altro vescovo, oggi emerito, mi ha detto, riguardo alla Cei: «Io intervenivo parlando chiaro. Tornavo al mio posto e nessuno mi diceva una parola. Muro di gomma. Alla fine ti rassegni e rinunci». Ma, se è davvero così, è un modo responsabile, questo, di essere pastori nella chiesa? Certo, non tocca a me giudicare. Ma queste domande che i laici si fanno, arrivano ai vescovi? Anche la sincerità è amore e rispetto.

*
Oggi, la fede di molti è muta, senza chiesa. Tanti credenti pregano, amano, sperano, senza trovare aiuto e fraternità spirituale in una chiesa semplice, povera, chiara, libera, franca, coraggiosa. Ma così la fede rischia anche di addormentarsi.
Mi perdoni se sottolineo questi aspetti. Ma, chi sta in mezzo alla gente vede, anche senza volerlo, che la chiesa è, per la gente comune, un oggetto “tele-visivo” (cioè, che si vede lontana, sullo schermo delle cose imponenti e false, o finte). Arriva, in generale, una immagine deformata, irriconoscibile, della chiesa di Cristo nei suoi rappresentanti: strane vesti (solo i militari, con i vescovi, hanno abitualmente una divisa), strane facce, strani linguaggi, strani buffi titoli, strane relazioni.
So bene che ci sono tante piccole realtà vive. Spesso, sono luoghi di buoni sentimenti, caldi. Nelle parrocchie-servizio-pubblico si può pregare, una messa dopo l’altra come gli spettacoli del cinema. Ma sono poche – le conosciamo quasi tutte - le realtà ecclesiali “im-pegnate”, dove ci si spende, ci si dà “in pegno” al prossimo, agli ultimi, contrastando i grandi mali organizzati. Certo, non occorre che abbiano visibilità. Ma la “tele-visibilità” vatican-vescovile oscura tutto, dà una testimonianza opposta. Sembra proprio che la gerarchia continui a vivere nel sogno di una società coincidente con la chiesa, un matrimonio trono-altare, con una arcaica autorità sacerdotale. E c’è fior di mascalzoni che ne approfittano.

*
La ringrazio dei segnali di vicinanza ai poveri e agli esclusi che Lei sta dando, alternativi alla maledetta peste del razzismo, che ha contagiato anche i cristiani, e specialmente le regioni più “cattoliche”!
Ma i segnali “politici” vanno in direzione opposta alle testimonianze belle. Ho inviato in posta elettronica alla Sua segreteria (mi pare il 18 dicembre, con oggetto: “Il Papa ringrazia il governo”) una nota critica sul discorso del Papa al nuovo ambasciatore italiano presso lo Stato pontificio (inviai questa nota anche al cardinale Ravasi, conosciuto in gioventù). Il crocifisso nelle scuole – ipocrisia di origine fascista – compensa forse la crocifissione dei poveri del mondo, respinti dal governo italiano in mano a dittatori e predoni feroci?
Quel discorso del Papa è stato un episodio, tra vari altri (come la cena tra cardinali e ministri!), che ha indignato tanti veri credenti: nel migliore dei casi una ingenuità inammissibile, una cecità funesta.
Non si tratta di dissenso per il dissenso, come se noi fossimo i puri, no. Ma ci sono eventi, momenti, in cui non è lecito tacere. In cui è doveroso esprimere la propria distanza da posizioni prese dalla gerarchia in nome della Chiesa tutta. Questo è il caso attuale.
Questo odierno catto-berlusconismo della gerarchia cattolica italiana è pari al catto-fascismo del ventennio violento, che fu il fallimento dei pastori e l’abbandono dei fedeli al potere malvagio e falso. Sturzo doveva ribellarsi a Pio XI invece di andare in esilio. Può accadere di peggio alla chiesa? Questo è peggio della persecuzione.
Mi permetta, per alleggerire il discorso, di ricordare un aneddoto gustoso. Verso il 1962-1963, il cardinale Montini (che mi conosceva personalmente per i miei anni precedenti nella Fuci) passava dei periodi nel seminario Lombardo, per i lavori delle commissioni conciliari. Un giorno, dopo pranzo, in piedi nel corridoio, con riferimento alla famosa battuta (del card. Ottaviani?) sui “comunistelli di sacrestia”, Montini disse a me e ad altri: «Ci saranno dei comunistelli di sacrestia, ma certamente ci sono dei fascistoni di sacrestia!».

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Le dirò anche che mi ha scandalizzato e turbato un parere del cardinale Bagnasco secondo cui il celibato clericale prevale sulla messa: «La convenienza di tutelare il celibato ecclesiastico e di prevenire il possibile sconcerto nei fedeli per l’accrescersi di presenze sacerdotali uxorate prevale infatti sulla pur legittima esigenza di garantire ai fedeli cattolici di rito orientale l’esercizio del culto da parte di ministri che parlano la loro stessa lingua e provengono dai loro stessi Paesi». Così Bagnasco ha scritto nella risposta negativa, inviata a nome della Cei il 13 settembre 2010, al primate della chiesa greco-cattolica romena, monsignor Lucian Muresan (da Adista n. 93, 4 dicembre 2010, p. 7). Ma dov’è la responsabilità del pastore? Il popolo cristiano ha il diritto di obbedire a Gesù: «Fate questo in memoria di me», assai più che il dovere di rispettare forme clericali assolutamente discutibili.
Perché sono così pochi i vescovi che dissentono dal conformismo? Perché hanno così poco coraggio? Perché temono più la discussione e il dissenso serio, segni di vita, che il gregarismo passivo? L’arcivescovo Pellegrino diceva, invece, di essere più preoccupato di questo che di quello.
L’unità formale della chiesa vale più della verità evangelica?  «Caritas congaudet veritati. La Carità si rallegra della verità», sicuramente. Ma quale carità è quella di una legge che prevale sullo spirito del Vangelo? L’eucaristia è dono dato ai fedeli, non è possesso di un clero. È certamente bene che normalmente sia guidata da persone (uomini e donne)[2] preparate e designate ecclesialmente, ma la scarsità crescente – grazie a Dio! - del tipo del “sacerdote-maschio-celibe” non interroga la gerarchia sul dovere primario di rispettare la realtà fondamentale del sacerdozio comune dei cristiani?

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Ci occorrono ripensamenti non piccoli, che il Concilio ha soltanto avviato, e devono ancora essere proseguiti. Si aderisce alla verità, non all’autorità. E invece la storia cattolica va diversamente. Cito uno storico cattolico: dopo la lotta per le investiture e la riforma gregoriana (il Dictatus papae è del 1075) «solo il papa poteva confrontarsi con la Verità; tutti i credenti, vescovi compresi, dovevano confrontarsi con l’autorità – con l’autorità del papa, ovviamente – e in base a questo essere giudicati. Perciò, d’ora innanzi, il problema che si pone ai credenti non è più di vivere secondo la Verità, bensì secondo l’autorità. Anzi, il mondo dei credenti non si discrimina più tra “fedeli” e “infedeli”, ma tra “obbedienti” (coloro che si adeguano in tutto ai comandi del papa) e “disobbedienti” (coloro che tali comandi disattendono)». Insomma, fedeli al papa, prima che fedeli a Cristo. Per questo, a Milano, i “patarini”, ribelli al clero corrotto, si definivano “fideles Dei”.[3]
Un grande monaco, morto da una decina di anni, mi diceva: «Il peccato originale cattolico è il papato». Cioè la forma monarchica sacra e assoluta, che imita il mondo più che prefigurare l’altro Regno, quello di Dio. Voleva questo Gesù?
La chiesa lottò con l’impero per farsi impero. E prima aveva ceduto a Costantino e Teodosio, rinnegando la vittoria di Gesù nel deserto sulla tentazione del potere. Non sono cose da poco, ma questioni radicali: o le affrontiamo, o il Vangelo rimane sotto il moggio, e quella che passa è una sua caricatura.
C’è una vera e propria questione del laicato. C’è disagio, indignazione, abbandono, c’è lo scisma silenzioso. Responsabile è solo chi se ne va in silenzio, oppure siamo tutti responsabili? C’è forse una speciale responsabilità gerarchica, e a molti sembra – non lo so - che i vescovi ne prendano coscienza meno del laicato più vivo.

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Non c’è Vangelo senza testimonianza di giustizia, senza schieramento spregiudicato per la pace. Contro la maggiore di tutte le violenze, che è quella dei poteri omicidi e oppressivi.
Ho letto tutta la newsletter n. 8, del novembre 2010, del Coordinamento Cristiani per la pace, di Vicenza, che certamente ha letto anche Lei (pubblicata solo in parte in Adista Segni Nuovi, n. 96, 11 dicembre 2010, p. 6). Concordo con quel passaggio in cui Antonio Pigatto dice: «Anche in riferimento al Dal Molin, il nocciolo della questione sta proprio qui: la Chiesa deve o non deve occuparsi di ciò che accade nel mondo e denunciare con forza ciò che è contro il messaggio di Gesù?». Certamente deve occuparsene. Non mi sembra che sia giusta una posizione di neutralità su una questione enorme e terribile come la base militare Dal Molin, base di guerra ingiustificabile.
Alla pacificazione nella chiesa non si può sacrificare la pace nel mondo. Se la chiesa, per paura di dividersi sulla guerra e la pace, si divide dalla pace, essa si spacca nel cuore. I movimenti per la pace mediante la nonviolenza attiva e positiva non meritano solo rispetto e comprensione nella chiesa, ma devono caratterizzare la sua presenza nel mondo. Se non altro per pentimento e riscatto dalle tante compromissioni storiche della chiesa-struttura con le strutture di guerra. Ma soprattutto perché l’annuncio del Vangelo passa soltanto per la scelta, anche costosa ed eroica, della politica di pace, contro i metodi e le forze di guerra.

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C'è invece nella chiesa cattolica un sostanziale disprezzo-utilizzo (come l' "utilizzo finale" di Berlusconi!....) del mondo, che porta tradizionalmente il cattolicesimo a teorizzare la "indifferenza" morale tra monarchia e repubblica, tra democrazia e dittatura, tra Berlusconi e la Costituzione, chiedendo al potere solo la libertà di predicare il Vangelo, ma in una posizione di compromissione (o addirittura di privilegio e appoggio per scambio di favori illeciti, come fa oggi il catto-berlusconismo incosciente dei maggiori gerarchi) che lo svuota e lo falsifica, perché non è più il Vangelo per i poveri e per la giustizia, annuncio storico del Regno promesso e iniziato nei cuori.
La libertà della chiesa, la libertà religiosa, giustamente reclamata dal Papa per i cristiani e per tutti, specialmente in questi giorni, è inutile e sprecata se non è sfida evangelica ai potenti. Gesù è morto in croce perché ha esercitato  «fino in fondo», con amore coraggioso e fedele, questa sfida alle falsità potenti del mondo.
Sappiamo bene, dai profeti e da Gesù, che Dio non vuole un culto senza giustizia, e che, tra l’offerta all’altare e la pace, tra la religione e la riconciliazione generosa nella giustizia, sono la pace e la giustizia che hanno la precedenza. Sappiamo, dal Vangelo come dal Corano, che saremo giudicati sulle azioni, non sulle religioni.
Io imparo (troppo poco, certamente) dal Vangelo, dal Corano, dalla meditazione buddista, da un serio laicismo (come quello di Norberto Bobbio, che ho frequentato e stimato molto, pur nella differente visione della vita, in un pluriennale dialogo che pubblicherò), che dobbiamo dire no ad una religione evasiva dalla carità storica sociale e politica.

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Credo, sinceramente, non senza buoni appoggi teologici, che la fede ha da produrre una teologia seriamente e moralmente politica, di animazione spirituale della polis. La condanna ecclesiastica della teologia della liberazione, per la misera (e, almeno in quel caso, sbagliata) paura del comunismo, è stata un’auto-condanna storica del cattolicesimo. Possibile che non si veda questo errore? Dopo la vittoria morale sul falso comunismo dittatoriale di tipo sovietico, si aspettava una lotta al turbo-capitalismo, che appare ancora incerta e contraddittoria: in Italia la chiesa appoggia un pessimo capitalismo personale, corrotto, corruttore e illegale, fautore della “rivoluzione dei ricchi”, contro ogni giustizia. Certo, la fede non si riduce a tattica politica, sempre opinabile, ma, se non produce scelte storiche di valore liberante, non è fede operosa nel Signore che viene. La chiesa non è per mantenersi, ma per spendersi. Come Gesù. Non è forse vero?

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Oso dire che la chiesa deve cessare di essere clericale, come è ancora, nonostante la riforma conciliare. Il classismo sacro clericale è contro la fraternità evangelica. In tutti e tre i sinottici, Gesù oppone ai sistemi di dominio sui popoli la regola della sua comunità, dove i primi sono gli ultimi e gli ultimi i primi: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e si fanno anche riverire, ma fra voi non è così». Questa è la prima regola. Chi ha compiti di servizio nella chiesa non è più sacro degli altri. Sacerdotale è tutto il popolo, non alcuni soltanto. Il ritorno del sacerdozio, abolito da Gesù in quanto esteso a tutti i credenti, è una deformazione successiva del cristianesimo storico, che va messa in discussione a fondo. I nomi dei ministeri nella chiesa delle origini sono accuratamente laicali e mai sacrali.  Il “potere sacro” non è cristiano.
Forse Lei sa che io ho lasciato il clero nel lontano 1974 per la stessa buona intenzione per cui chiesi di entrarvi dieci anni prima. Nei confronti della gerarchia clericale, oggi dico sinceramente di sentirmi  «non senza, non contro, ma non sotto» (ho scritto di questo più ampiamente, pur senza nessuna originalità, in varie occasioni e, fra l’altro, nell’articolo Spiritualità radicale e clericalismo, nella rivista di spiritualità Servitium, n. 180, novembre-dicembre 2008, fascicolo dal titolo Generazione del Concilio, II).

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Ho sentito di poterle parlare con fiducia e in tutta franchezza, come un cristiano deve parlare a un vescovo. Non occorre essere d’accordo in tutto, se ci si ascolta e rispetta. Come dice Confucio, «trasmetto, non fabbrico»: faccio il semplice manovale trasportatore delle idee che incontro e che mi sembrano le più giuste.
Le ho detto qualcosa su come mi sento parte della chiesa. Credo che, invece di omaggi formali, così dovrebbe fare ciascuno, vicino o lontano dal vescovo. Mi sembra il modo migliore di ringraziarla e ricambiarle gli auguri, e di darle una collaborazione mentre comincia il Suo servizio a Torino.



[1] (Frammenti di un’amicizia senza confini. Gandhi e Sorella Maria, pro-manuscripto, Eremo di Campello sul Clitunno, 1991, p. 15 e 22. Si vedano anche, per conoscere questa cristiana, la sua corrispondenza con Primo Mazzolari e quella con Giovanni Vannucci, nelle edizioni Qiqaion della Comunità di Bose. Mio articolo in Lo Straniero n. 105, marzo 2009)
[2] Voglio dire: che dovrebbero essere uomini e donne.
[3] Cfr Giorgio Cracco, Il Medioevo,  manuale di storia per licei e istituti magistrali, SEI, Società Editrice Internazionale, Torino, 1984, p. 151. Cfr Gregorio VII, Registrum, IX, 3, ed. E. Caspar, in MGH, Epistulae selectae, II, pp. 575-576

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