Dossier
2015 su Resistenza armata, nonviolenta,
con
De Luna, Anna Bravo, Peyretti e altri
I
Una utile conversazione
sulla Resistenza
(25-05-2015)
Ci
siamo trovati alcune decine di persone all'Istoreto, lunedì 25
maggio 2015, studiosi maturi ed anziani, giovani ricercatori, per
conversare con storici di classe come Anna Bravo e Giovanni De Luna,
autori entrambi di recenti importanti libri, sulla Resistenza armata,
non armata e nonviolenta.
De
Luna, nel suo recente La
Resistenza perfetta,
afferma che senza la Resistenza armata, quella civile non avrebbe
avuto ragione di essere. Anna Bravo, come altri autori, da Semelin in
qua, afferma che, in tutta Europa, la Resistenza civile al dominio
nazista e fascista, ha avuto una sua autonomia di mezzi e di azione
(posizione assolutamemte diversa dall'attendismo, ha riconosciuto
Pavone) rispetto alla forma armata, pur convergenti entrambe allo
stesso fine di difesa e liberazione, e nel rispetto e riconoscimento
da parte dei resistenti civili della dedizione e sacrificio dei
partigiani combattenti.
Avendo
promosso l'incontro, io l'ho introdotto ponendo all'esame questa
ipotesi: la Resistenza italiana è stata il meglio della nostra
storia, superiore in valore di civiltà anche al Risorgimento
elitario e nazionalista (per non dire del periodaccio recente, che ha
offesa la Resistenza paragonata al terrorismo!), tanto che ha
prodotto la bella Costituzione; allora, non è forse da pensare un
oltrepassamento evolutivo della stessa Resistenza pensando e volendo
forme di difesa dei giusti diritti, e di trasformazione dei
conflitti, emancipati dall'uso delle armi omicide? Cioè: difesa
popolare nonviolenta, corpi civili di pace, prevenzione, mediazione,
riconciliazione nei conflitti su media o grande scala, realizzazione
del diritto planetario di pace. Questa è la ricerca della cultura
della nonviolenza.
Allora,
sia la ricerca storica nello scoprire e valorizzare le forme e le
esperienze inizialmente ignorate di resistenza non armata e
nonviolenta (detta per lo più: civile), sia la ricerca
etico-politica per l'oggi e il domani, non possono/devono collaborare
in reciproca autonomia dei metodi, per una cultura del conflitto
liberata dalla ideologia fatalistica della necessità delle armi
omicide?
È
venuta in discussione la presunta gerarchizzazione delle due forme
di lotta, che secondo gli interpreti dell'immagine armata della
Resistenza verrebbe compiuta dai ricercatori della nonviolenza nella
storia e nella politica. Questi però ribadiscono: riconosciamo non
solo la scelta delle armi in quel momento da parte dei partigiani,
anche data la non conoscenza di esperienze nonviolente, ma
riconosciamo anche che esistono tragiche situazioni estreme –
ammesse anche da Gandhi, assunte anche da Bonhoeffer pacifista – in
cui uccidere diventa una brutta necessità. Eppure non ci si può
acquietare in ciò, e bisogna cercare, nelle esperienze storiche come
nei progetti politici, lo sviluppo di mezzi di lotte giuste libere
dall'uso della morte artificale aggiunta alla nostra universale
mortalità naturale. Questo sarebbe una evoluzione umana, una
emancipazione dalla necessità ripetitiva. Il non uccidere è un
obiettivo irrinunciabile di umanizzazione, non è un di più per
anime belle.
Nella
bella e serena discussione è rimasta la giusta differenza tra il
taglio storiografico e il taglio etico-politico, pur appoggiato su
esperienze storiche da evidenziare. De Luna ha ritenuto che gli
storici della Resistenza civile, negli ultimi venti anni, abbiano
posto come un anatema sulla lotta armata. A me pare di no. Ho sempre
sentito da parte dei primi il rispetto e il riconoscimento che ho già
detto. Il problema è passare dai fatti ai progetti più avanzati. Il
punto non è solo la coraggiosa decisione personale-esistenziale di
passare la soglia oltre la quale c'è il morire e far morire (la
soglia tracciata da Barbato ben illustrata nel libro di De Luna), ma
è soprattutto lottare, anche a rischio di morire, con la forza e la
volontà umana di giustizia, senza affidare il giudizio alla capacità
distruttiva delle armi, che facilmente sfugge al criterio umano e
facilmente si ritorce anche in effetti di disumanizzazione di chi usa
le armi, pur con giuste ragioni. Ho raccontato a questo riguardo una
mia esperienza vissuta all'età di nove anni, nei giorni successivi
alla fine della guerra. Senza dire che l'escalation degli armamenti è
arrivato alla distruttività nucleare totale, che impone alla ragione
l'assoluta interruzione della logica armata, se ci preme la vita
dell'umanità sulla terra.
Questi
sono pochi primi appunti pro-memoria, del tutto integrabili e
correggibili.
Grazie
a chi ha partecipato! Enrico Peyretti, 26 maggio 2015
II
27
maggio 2015 -
De Luna a Peyretti
Caro
Peyretti, anch’io ti sono grato per l’opportunità che hai dato a
tutti noi di avviare un confronto stimolante e proficuo. A me è
spiaciuto solo che la discussione si sia sviluppata prescindendo
dalla lettura del libro. Tu lo sai; quello che nei vari interventi è
sembrato una sorta di ping-pong etico-politico-storiografico, nella
concretezza della ricerca che alimenta il libro si presenta con
caratteri molto più sfumati. Leletta, l’assoluta protagonista, non
spara mai; pure il suo coinvolgimento è totale e il suo ruolo è
decisivo nel disegnare la “Resistenza perfetta”. Lo stesso
discorso vale per sua madre, “la baronessa dei partigiani”, come
la chiamavano i fascisti. Quando si arrampica a duemila metri con la
sola compagnia del parroco per andare a recuperare il corpo di un
caduto, il suo gesto in quale categoria interpretativa lo
collochiamo? E che dire delle altre figure femminili (la zia Barbara,
“allenata” sui treni ospedali ai suoi nuovi compiti partigiani;
la contadina che disattendendo gli ordini del marito rifocilla i
patrioti; ecc…). E per quanto riguarda i maschi: abbiamo
giustamente parlato di Giuriolo, ma il libro propone il percorso di
Alberto Prunas Tola, che va in banda, si rifiuta di sparare e entra
nello SMOM come infermiere soccorrendo nelle giornate insurrezionali
partigiani e fascisti. Leletta, Dedo, e gli altri loro amici si
interrogano a fondo sulla sua scelta e la loro discussione avrebbe
meritato più attenzione nel nostro dibattito.
Insomma
l’intreccio resistenza civile /resistenza armata è strettissimo e
solo moltiplicando i comportamenti analizzati dagli storici se ne
viene a capo. Per il resto, sai come la penso a proposito della
resistenza civile; aver utilizzato questa categoria ha determinato
uno scossone salutare agli studi sulla lotta partigiana, ampliando
l’orizzonte della ricerca; resta per me quella che è stata
definita la gerarchizzazione, il vedere la lotta armata come elemento
decisivo e fondante di quello che è successo nel “venti mesi”.
E’ una scelta che appartiene al mio bagaglio di storico e che
propongo con convinzione. Ma la nettezza delle proprie opinioni non
comporta affatto il rifiuto a priori di quelle degli altri.
Ti
ringrazio ancora di tutto. E se ci fosse un’altra opportunità dopo
aver letto il libro sarei molto contento.
Un
caro saluto e a presto
Giovanni
De Luna
III
4
giugno 2015 - Anna
Bravo a Peyretti e De Luna
Caro
Enrico,
grazie
di tutto, e anche per aver ribadito che nessuno studioso di
resistenza civile si è mai sognato di lanciare anatemi contro la
resistenza armata o di contrapporre le due realtà. Anzi, si è
cercato di farle dialogare. Quante volte abbiamo fatto notare che
l'inclinazione guerriera della storiografia aveva sminuito l'immagine
del partigiano, perché non valorizzava il registro della mediazione
e della riduzione del danno, che invece non gli era affatto estraneo
- contrariamente a quel che faceva intendere Buttiglione. Io ho
sempre cercato di sottolineare i comportamenti di pace in tempo di
guerra - Giovanni, ricorderai le tante volte in cui ho suggerito di
studiare le tregue fra partigiani e fascisti/tedeschi, che esprimono,
anche, il rifiuto di considerare inevitabile l’estensione della
distruttività. Il tema è ancora oggi pochissimo presente (il libro
recente di Roberta Mira non è stato molto sostenuto).
Dichiarare
la lotta armata l'"elemento decisivo e fondante", è una
visione troppo rigida. Nelle zone dove la lotta armata non esiste
oppure è esilissima, si può dire che non ci sia resistenza?
O che le azioni non abbiano senso compiuto (cioè, svolazzerebbero
nella storia senza trovare posto al suo interno)? penso
alla protezione degli sbandati e dei prigionieri evasi, che mette in
luce un contenzioso specifico fra nazisti/fascisti e settori della
popolazione, e che ha l'indelicatezza di avvenire a resistenza non
ancora iniziata. E la Danimarca?
Ma
non mi riferisco esclusivamente ai salvataggi, nella cui esaltazione
c'è se mai il rischio di far apparire la R.C. solo come la faccia
umanitaria della resistenza armata. Penso alle sue altre forme, come
il rifiuto di sfollare in massa (Carrara), gli onori resi ai morti,
gli assalti ai treni carichi di viveri, le "strategie di
isolamento" del nemico (Il
Silenzio
del mare).
Lotte per il futuro, che puntano alla tutela materiale e simbolica
delle comunità, della famiglia, della professione, della chiesa.
Certo
che il contributo in armi è stato assunto come fondamento del
riscatto! all'epoca era ovvio, dovunque si faceva la conta dei
combattenti in armi (e dei morti), e nessun politico italiano è
stato in grado di far pesare la conta dei vivi, in particolare
l'aiuto ai prigionieri alleati, che nel
46 viene
invece pubblicamente riconosciuto dall'ambasciatore
inglese in Italia.
Dopo
70 anni non possiamo "oltrepassare" quei criteri, come
chiede Enrico? La gerarchia armati/inermi ha già pesato troppo nella
ricerca - senza Absalom non avremmo saputo niente dei contadini
soccorritori dei prigionieri.
Io resto pienamente convinta che il sangue risparmiato fa storia come
il sangue versato.
E'
vero, Giovanni, ho rimandato una lettura che temevo mi avrebbe
colpito, ma mi sono fondata sull'autopresentazione che hai dato alla
Stampa e sulla conoscenza degli altri tuoi libri. Non è il massimo,
lo capisco, ma bisogna pur proteggersi un po'.
IV
Pietro
Polito- Che cos’è stata la Resistenza?
newsletter
2015/14 | venerdì 8 maggio 2015 (www.serenoregis.org)
“Come
fenomeno europeo, la Resistenza è stata un moto di liberazione
nazionale contro il nazismo: in quanto tale la nostra Resistenza non
differisce da quella di altri paesi. Come fenomeno italiano, la
guerra contro il nazismo è stata insieme una lotta di liberazione
dalla dittatura fascista in nome dei diritti inviolabili – così li
chiama la nostra Costituzione – dell’uomo. Ma la Resistenza ha
avuto anche un significato universale: in quanto guerra popolare,
spontanea, non comandata dall’alto, essa è stata un grande moto di
emancipazione umana, che mirava molto più lontano e i cui effetti,
proprio per questo, non sono ancora finiti: a una società
internazionale più giusta, ispirata agli ideali di pace e di
fraternità tra i popoli”. (Norberto Bobbio)
Questa
definizione della Resistenza si trova in un rapido appunto scritto da
Bobbio per una dichiarazione alla radio trasmessa l’8 settembre
1963. Essa fa parte delle riflessioni che Bobbio è venuto svolgendo
tra il 1955 e il 1999 sul significato della Resistenza (in larga
parte inedite, ma ora si possono leggere nel recente volume Eravamo
ridiventati uomini,
Einaudi, Torino 2015. La citazione è a p. 56).
Le
pagine di Bobbio consentono di abbozzare una risposta
sufficientemente chiara e definita alla domanda: “Che cosa è stata
la Resistenza?”.
Bobbio
si pone esplicitamente la domanda in un discorso per il 25 aprile
1961, chiarendo che è insufficiente interpretare la nostra
Resistenza “soltanto” come “un movimento italiano” contro il
fascismo e insistendo sul nesso tra la “nostra Resistenza” (la
formula è di Bobbio) e il “grande movimento europeo di liberazione
contro l’oppressione nazista”.
Riprendendo
la definizione posta all’inizio, secondo Bobbio, la Resistenza è
stata un movimento europeo, nazionale, universale. Così intesa essa
può essere definita e valutata sotto tre aspetti: 1. le anime; 2.
gli attori e gli scopi; 3. i risultati.
Le
anime della Resistenza
Come
movimento europeo, la Resistenza italiana è stata “un episodio,
l’ultimo episodio della tragica e nobile storia della libertà
europea rivendicata”; come movimento italiano, “la nostra
Resistenza” si distingue dalle altre: mentre negli altri paesi è
stata prevalentemente un movimento di liberazione dallo straniero, in
Italia la Resistenza è stata al tempo stesso “un movimento
patriottico e antifascista, contro il nemico esterno e contro il
nemico interno”; come movimento universale di emancipazione
sociale, la Resistenza è stata una “guerra popolare”, “un moto
popolare, l’unico grande moto popolare nella storia dell’Italia
moderna”.
Naturalmente
l’espressione “guerra popolare” non viene usata nel senso di
guerra di popolo, combattuta da un popolo, ma nel senso della lotta
di una minoranza, “la lotta impari e disperata” di una minoranza
che “non sarebbe stata possibile senza il consenso e la
collaborazione degli operai nelle città, dei contadini nelle
campagne, di intellettuali, di amministratori, di professionisti che
costituirono una fitta rete protettiva delle bande armate e dei
gruppi d’azione partigiana”.
Nell’animo
di una parte importante e attiva dei partigiani la Resistenza è
stata una guerra rivoluzionaria”:
in questo terzo
significato, può essere considerata “un movimento universale, che
trascende l’occasione che l’ha generata e i risultati raggiunti”.
Gli
attori e gli scopi.
Le
finalità della Resistenza furono molteplici.
La
guerra patriottica, fu combattuta da quella parte dell’esercito
rimasta fedele alla Monarchia con lo scopo della restaurazione
dell’indipendenza nazionale; la guerra antifascista dai partiti
antifascisti riuniti nei Comitati di liberazione nazionale con
l’obiettivo della riconquista della libertà politica; la guerra
rivoluzionaria da un partito che preesisteva se pure di poco al
fascismo, il Partito comunista, e da un partito nuovo, nato con la
Resistenza, il Partito d’azione, con il fine dell’instaurazione
dello stato nuovo. Il Partito d’Azione e il Partito comunista
furono i partiti militarmente più organizzati, i più decisi e i più
audaci, i principali organizzatori della guerra per bande.
I
risultati della Resistenza.
I
risultati vanno valutati in base agli scopi.
Il
principale scopo della guerra patriottica, la liberazione dell’Italia
dal dominio straniero, è stato raggiunto. L’Italia deve alla
guerra patriottica il suo essere ridiventata una nazione libera,
democratica, inserita a pieno diritto nella comunità internazionale.
Pure
la guerra antifascista ha raggiunto i suoi scopi. Certo la sconfitta
del fascismo non può essere ascritta a merito esclusivo dei
partigiani, ma “la Resistenza italiana ebbe il merito di inserirsi
nella direzione giusta della lotta al momento giusto”.
Naturalmente
il giudizio è più controverso per quel che riguarda la Resistenza
come rivoluzione sociale tendente alla trasformazione radicale della
società italiana. Scriveva Bobbio nel lontano 25 aprile 1961:
“Orbene, la democrazia che è stata attuata in Italia è soltanto
quella apparente, non quella sostanziale. La democrazia sostanziale
c’è, sì, negli articoli della Costituzione, ma non c’è nella
realtà. L’Italia continua ad essere la nazione delle grandi
sperequazioni, tra classe e classe, tra regione e regione”.
E
oggi?
oooooo
Dossier
2015 su Resistenza armata, nonviolenta,
con
De Luna, Anna Bravo, Peyretti e altri
I
Una utile conversazione
sulla Resistenza
(25-05-2015)
Ci
siamo trovati alcune decine di persone all'Istoreto, lunedì 25
maggio 2015, studiosi maturi ed anziani, giovani ricercatori, per
conversare con storici di classe come Anna Bravo e Giovanni De Luna,
autori entrambi di recenti importanti libri, sulla Resistenza armata,
non armata e nonviolenta.
De
Luna, nel suo recente La
Resistenza perfetta,
afferma che senza la Resistenza armata, quella civile non avrebbe
avuto ragione di essere. Anna Bravo, come altri autori, da Semelin in
qua, afferma che, in tutta Europa, la Resistenza civile al dominio
nazista e fascista, ha avuto una sua autonomia di mezzi e di azione
(posizione assolutamemte diversa dall'attendismo, ha riconosciuto
Pavone) rispetto alla forma armata, pur convergenti entrambe allo
stesso fine di difesa e liberazione, e nel rispetto e riconoscimento
da parte dei resistenti civili della dedizione e sacrificio dei
partigiani combattenti.
Avendo
promosso l'incontro, io l'ho introdotto ponendo all'esame questa
ipotesi: la Resistenza italiana è stata il meglio della nostra
storia, superiore in valore di civiltà anche al Risorgimento
elitario e nazionalista (per non dire del periodaccio recente, che ha
offesa la Resistenza paragonata al terrorismo!), tanto che ha
prodotto la bella Costituzione; allora, non è forse da pensare un
oltrepassamento evolutivo della stessa Resistenza pensando e volendo
forme di difesa dei giusti diritti, e di trasformazione dei
conflitti, emancipati dall'uso delle armi omicide? Cioè: difesa
popolare nonviolenta, corpi civili di pace, prevenzione, mediazione,
riconciliazione nei conflitti su media o grande scala, realizzazione
del diritto planetario di pace. Questa è la ricerca della cultura
della nonviolenza.
Allora,
sia la ricerca storica nello scoprire e valorizzare le forme e le
esperienze inizialmente ignorate di resistenza non armata e
nonviolenta (detta per lo più: civile), sia la ricerca
etico-politica per l'oggi e il domani, non possono/devono collaborare
in reciproca autonomia dei metodi, per una cultura del conflitto
liberata dalla ideologia fatalistica della necessità delle armi
omicide?
È
venuta in discussione la presunta gerarchizzazione delle due forme
di lotta, che secondo gli interpreti dell'immagine armata della
Resistenza verrebbe compiuta dai ricercatori della nonviolenza nella
storia e nella politica. Questi però ribadiscono: riconosciamo non
solo la scelta delle armi in quel momento da parte dei partigiani,
anche data la non conoscenza di esperienze nonviolente, ma
riconosciamo anche che esistono tragiche situazioni estreme –
ammesse anche da Gandhi, assunte anche da Bonhoeffer pacifista – in
cui uccidere diventa una brutta necessità. Eppure non ci si può
acquietare in ciò, e bisogna cercare, nelle esperienze storiche come
nei progetti politici, lo sviluppo di mezzi di lotte giuste libere
dall'uso della morte artificale aggiunta alla nostra universale
mortalità naturale. Questo sarebbe una evoluzione umana, una
emancipazione dalla necessità ripetitiva. Il non uccidere è un
obiettivo irrinunciabile di umanizzazione, non è un di più per
anime belle.
Nella
bella e serena discussione è rimasta la giusta differenza tra il
taglio storiografico e il taglio etico-politico, pur appoggiato su
esperienze storiche da evidenziare. De Luna ha ritenuto che gli
storici della Resistenza civile, negli ultimi venti anni, abbiano
posto come un anatema sulla lotta armata. A me pare di no. Ho sempre
sentito da parte dei primi il rispetto e il riconoscimento che ho già
detto. Il problema è passare dai fatti ai progetti più avanzati. Il
punto non è solo la coraggiosa decisione personale-esistenziale di
passare la soglia oltre la quale c'è il morire e far morire (la
soglia tracciata da Barbato ben illustrata nel libro di De Luna), ma
è soprattutto lottare, anche a rischio di morire, con la forza e la
volontà umana di giustizia, senza affidare il giudizio alla capacità
distruttiva delle armi, che facilmente sfugge al criterio umano e
facilmente si ritorce anche in effetti di disumanizzazione di chi usa
le armi, pur con giuste ragioni. Ho raccontato a questo riguardo una
mia esperienza vissuta all'età di nove anni, nei giorni successivi
alla fine della guerra. Senza dire che l'escalation degli armamenti è
arrivato alla distruttività nucleare totale, che impone alla ragione
l'assoluta interruzione della logica armata, se ci preme la vita
dell'umanità sulla terra.
Questi
sono pochi primi appunti pro-memoria, del tutto integrabili e
correggibili.
Grazie
a chi ha partecipato! Enrico Peyretti, 26 maggio 2015
II
27
maggio 2015 -
De Luna a Peyretti
Caro
Peyretti, anch’io ti sono grato per l’opportunità che hai dato a
tutti noi di avviare un confronto stimolante e proficuo. A me è
spiaciuto solo che la discussione si sia sviluppata prescindendo
dalla lettura del libro. Tu lo sai; quello che nei vari interventi è
sembrato una sorta di ping-pong etico-politico-storiografico, nella
concretezza della ricerca che alimenta il libro si presenta con
caratteri molto più sfumati. Leletta, l’assoluta protagonista, non
spara mai; pure il suo coinvolgimento è totale e il suo ruolo è
decisivo nel disegnare la “Resistenza perfetta”. Lo stesso
discorso vale per sua madre, “la baronessa dei partigiani”, come
la chiamavano i fascisti. Quando si arrampica a duemila metri con la
sola compagnia del parroco per andare a recuperare il corpo di un
caduto, il suo gesto in quale categoria interpretativa lo
collochiamo? E che dire delle altre figure femminili (la zia Barbara,
“allenata” sui treni ospedali ai suoi nuovi compiti partigiani;
la contadina che disattendendo gli ordini del marito rifocilla i
patrioti; ecc…). E per quanto riguarda i maschi: abbiamo
giustamente parlato di Giuriolo, ma il libro propone il percorso di
Alberto Prunas Tola, che va in banda, si rifiuta di sparare e entra
nello SMOM come infermiere soccorrendo nelle giornate insurrezionali
partigiani e fascisti. Leletta, Dedo, e gli altri loro amici si
interrogano a fondo sulla sua scelta e la loro discussione avrebbe
meritato più attenzione nel nostro dibattito.
Insomma
l’intreccio resistenza civile /resistenza armata è strettissimo e
solo moltiplicando i comportamenti analizzati dagli storici se ne
viene a capo. Per il resto, sai come la penso a proposito della
resistenza civile; aver utilizzato questa categoria ha determinato
uno scossone salutare agli studi sulla lotta partigiana, ampliando
l’orizzonte della ricerca; resta per me quella che è stata
definita la gerarchizzazione, il vedere la lotta armata come elemento
decisivo e fondante di quello che è successo nel “venti mesi”.
E’ una scelta che appartiene al mio bagaglio di storico e che
propongo con convinzione. Ma la nettezza delle proprie opinioni non
comporta affatto il rifiuto a priori di quelle degli altri.
Ti
ringrazio ancora di tutto. E se ci fosse un’altra opportunità dopo
aver letto il libro sarei molto contento.
Un
caro saluto e a presto
Giovanni
De Luna
III
4
giugno 2015 - Anna
Bravo a Peyretti e De Luna
Caro
Enrico,
grazie
di tutto, e anche per aver ribadito che nessuno studioso di
resistenza civile si è mai sognato di lanciare anatemi contro la
resistenza armata o di contrapporre le due realtà. Anzi, si è
cercato di farle dialogare. Quante volte abbiamo fatto notare che
l'inclinazione guerriera della storiografia aveva sminuito l'immagine
del partigiano, perché non valorizzava il registro della mediazione
e della riduzione del danno, che invece non gli era affatto estraneo
- contrariamente a quel che faceva intendere Buttiglione. Io ho
sempre cercato di sottolineare i comportamenti di pace in tempo di
guerra - Giovanni, ricorderai le tante volte in cui ho suggerito di
studiare le tregue fra partigiani e fascisti/tedeschi, che esprimono,
anche, il rifiuto di considerare inevitabile l’estensione della
distruttività. Il tema è ancora oggi pochissimo presente (il libro
recente di Roberta Mira non è stato molto sostenuto).
Dichiarare
la lotta armata l'"elemento decisivo e fondante", è una
visione troppo rigida. Nelle zone dove la lotta armata non esiste
oppure è esilissima, si può dire che non ci sia resistenza?
O che le azioni non abbiano senso compiuto (cioè, svolazzerebbero
nella storia senza trovare posto al suo interno)? penso
alla protezione degli sbandati e dei prigionieri evasi, che mette in
luce un contenzioso specifico fra nazisti/fascisti e settori della
popolazione, e che ha l'indelicatezza di avvenire a resistenza non
ancora iniziata. E la Danimarca?
Ma
non mi riferisco esclusivamente ai salvataggi, nella cui esaltazione
c'è se mai il rischio di far apparire la R.C. solo come la faccia
umanitaria della resistenza armata. Penso alle sue altre forme, come
il rifiuto di sfollare in massa (Carrara), gli onori resi ai morti,
gli assalti ai treni carichi di viveri, le "strategie di
isolamento" del nemico (Il
Silenzio
del mare).
Lotte per il futuro, che puntano alla tutela materiale e simbolica
delle comunità, della famiglia, della professione, della chiesa.
Certo
che il contributo in armi è stato assunto come fondamento del
riscatto! all'epoca era ovvio, dovunque si faceva la conta dei
combattenti in armi (e dei morti), e nessun politico italiano è
stato in grado di far pesare la conta dei vivi, in particolare
l'aiuto ai prigionieri alleati, che nel
46 viene
invece pubblicamente riconosciuto dall'ambasciatore
inglese in Italia.
Dopo
70 anni non possiamo "oltrepassare" quei criteri, come
chiede Enrico? La gerarchia armati/inermi ha già pesato troppo nella
ricerca - senza Absalom non avremmo saputo niente dei contadini
soccorritori dei prigionieri.
Io resto pienamente convinta che il sangue risparmiato fa storia come
il sangue versato.
E'
vero, Giovanni, ho rimandato una lettura che temevo mi avrebbe
colpito, ma mi sono fondata sull'autopresentazione che hai dato alla
Stampa e sulla conoscenza degli altri tuoi libri. Non è il massimo,
lo capisco, ma bisogna pur proteggersi un po'.
IV
Pietro
Polito- Che cos’è stata la Resistenza?
newsletter
2015/14 | venerdì 8 maggio 2015 (www.serenoregis.org)
“Come
fenomeno europeo, la Resistenza è stata un moto di liberazione
nazionale contro il nazismo: in quanto tale la nostra Resistenza non
differisce da quella di altri paesi. Come fenomeno italiano, la
guerra contro il nazismo è stata insieme una lotta di liberazione
dalla dittatura fascista in nome dei diritti inviolabili – così li
chiama la nostra Costituzione – dell’uomo. Ma la Resistenza ha
avuto anche un significato universale: in quanto guerra popolare,
spontanea, non comandata dall’alto, essa è stata un grande moto di
emancipazione umana, che mirava molto più lontano e i cui effetti,
proprio per questo, non sono ancora finiti: a una società
internazionale più giusta, ispirata agli ideali di pace e di
fraternità tra i popoli”. (Norberto Bobbio)
Questa
definizione della Resistenza si trova in un rapido appunto scritto da
Bobbio per una dichiarazione alla radio trasmessa l’8 settembre
1963. Essa fa parte delle riflessioni che Bobbio è venuto svolgendo
tra il 1955 e il 1999 sul significato della Resistenza (in larga
parte inedite, ma ora si possono leggere nel recente volume Eravamo
ridiventati uomini,
Einaudi, Torino 2015. La citazione è a p. 56).
Le
pagine di Bobbio consentono di abbozzare una risposta
sufficientemente chiara e definita alla domanda: “Che cosa è stata
la Resistenza?”.
Bobbio
si pone esplicitamente la domanda in un discorso per il 25 aprile
1961, chiarendo che è insufficiente interpretare la nostra
Resistenza “soltanto” come “un movimento italiano” contro il
fascismo e insistendo sul nesso tra la “nostra Resistenza” (la
formula è di Bobbio) e il “grande movimento europeo di liberazione
contro l’oppressione nazista”.
Riprendendo
la definizione posta all’inizio, secondo Bobbio, la Resistenza è
stata un movimento europeo, nazionale, universale. Così intesa essa
può essere definita e valutata sotto tre aspetti: 1. le anime; 2.
gli attori e gli scopi; 3. i risultati.
Le
anime della Resistenza
Come
movimento europeo, la Resistenza italiana è stata “un episodio,
l’ultimo episodio della tragica e nobile storia della libertà
europea rivendicata”; come movimento italiano, “la nostra
Resistenza” si distingue dalle altre: mentre negli altri paesi è
stata prevalentemente un movimento di liberazione dallo straniero, in
Italia la Resistenza è stata al tempo stesso “un movimento
patriottico e antifascista, contro il nemico esterno e contro il
nemico interno”; come movimento universale di emancipazione
sociale, la Resistenza è stata una “guerra popolare”, “un moto
popolare, l’unico grande moto popolare nella storia dell’Italia
moderna”.
Naturalmente
l’espressione “guerra popolare” non viene usata nel senso di
guerra di popolo, combattuta da un popolo, ma nel senso della lotta
di una minoranza, “la lotta impari e disperata” di una minoranza
che “non sarebbe stata possibile senza il consenso e la
collaborazione degli operai nelle città, dei contadini nelle
campagne, di intellettuali, di amministratori, di professionisti che
costituirono una fitta rete protettiva delle bande armate e dei
gruppi d’azione partigiana”.
Nell’animo
di una parte importante e attiva dei partigiani la Resistenza è
stata una guerra rivoluzionaria”:
in questo terzo
significato, può essere considerata “un movimento universale, che
trascende l’occasione che l’ha generata e i risultati raggiunti”.
Gli
attori e gli scopi.
Le
finalità della Resistenza furono molteplici.
La
guerra patriottica, fu combattuta da quella parte dell’esercito
rimasta fedele alla Monarchia con lo scopo della restaurazione
dell’indipendenza nazionale; la guerra antifascista dai partiti
antifascisti riuniti nei Comitati di liberazione nazionale con
l’obiettivo della riconquista della libertà politica; la guerra
rivoluzionaria da un partito che preesisteva se pure di poco al
fascismo, il Partito comunista, e da un partito nuovo, nato con la
Resistenza, il Partito d’azione, con il fine dell’instaurazione
dello stato nuovo. Il Partito d’Azione e il Partito comunista
furono i partiti militarmente più organizzati, i più decisi e i più
audaci, i principali organizzatori della guerra per bande.
I
risultati della Resistenza.
I
risultati vanno valutati in base agli scopi.
Il
principale scopo della guerra patriottica, la liberazione dell’Italia
dal dominio straniero, è stato raggiunto. L’Italia deve alla
guerra patriottica il suo essere ridiventata una nazione libera,
democratica, inserita a pieno diritto nella comunità internazionale.
Pure
la guerra antifascista ha raggiunto i suoi scopi. Certo la sconfitta
del fascismo non può essere ascritta a merito esclusivo dei
partigiani, ma “la Resistenza italiana ebbe il merito di inserirsi
nella direzione giusta della lotta al momento giusto”.
Naturalmente
il giudizio è più controverso per quel che riguarda la Resistenza
come rivoluzione sociale tendente alla trasformazione radicale della
società italiana. Scriveva Bobbio nel lontano 25 aprile 1961:
“Orbene, la democrazia che è stata attuata in Italia è soltanto
quella apparente, non quella sostanziale. La democrazia sostanziale
c’è, sì, negli articoli della Costituzione, ma non c’è nella
realtà. L’Italia continua ad essere la nazione delle grandi
sperequazioni, tra classe e classe, tra regione e regione”.
E
oggi?
oooooo