giovedì 30 gennaio 2020

Dossier 2015 su Resistenza armata e Resistenza nonviolenta

Dossier 2015 su Resistenza armata, nonviolenta,
con De Luna, Anna Bravo, Peyretti e altri

I
Una utile conversazione sulla Resistenza (25-05-2015)

Ci siamo trovati alcune decine di persone all'Istoreto, lunedì 25 maggio 2015, studiosi maturi ed anziani, giovani ricercatori, per conversare con storici di classe come Anna Bravo e Giovanni De Luna, autori entrambi di recenti importanti libri, sulla Resistenza armata, non armata e nonviolenta.
De Luna, nel suo recente La Resistenza perfetta, afferma che senza la Resistenza armata, quella civile non avrebbe avuto ragione di essere. Anna Bravo, come altri autori, da Semelin in qua, afferma che, in tutta Europa, la Resistenza civile al dominio nazista e fascista, ha avuto una sua autonomia di mezzi e di azione (posizione assolutamemte diversa dall'attendismo, ha riconosciuto Pavone) rispetto alla forma armata, pur convergenti entrambe allo stesso fine di difesa e liberazione, e nel rispetto e riconoscimento da parte dei resistenti civili della dedizione e sacrificio dei partigiani combattenti.
Avendo promosso l'incontro, io l'ho introdotto ponendo all'esame questa ipotesi: la Resistenza italiana è stata il meglio della nostra storia, superiore in valore di civiltà anche al Risorgimento elitario e nazionalista (per non dire del periodaccio recente, che ha offesa la Resistenza paragonata al terrorismo!), tanto che ha prodotto la bella Costituzione; allora, non è forse da pensare un oltrepassamento evolutivo della stessa Resistenza pensando e volendo forme di difesa dei giusti diritti, e di trasformazione dei conflitti, emancipati dall'uso delle armi omicide? Cioè: difesa popolare nonviolenta, corpi civili di pace, prevenzione, mediazione, riconciliazione nei conflitti su media o grande scala, realizzazione del diritto planetario di pace. Questa è la ricerca della cultura della nonviolenza.
Allora, sia la ricerca storica nello scoprire e valorizzare le forme e le esperienze inizialmente ignorate di resistenza non armata e nonviolenta (detta per lo più: civile), sia la ricerca etico-politica per l'oggi e il domani, non possono/devono collaborare in reciproca autonomia dei metodi, per una cultura del conflitto liberata dalla ideologia fatalistica della necessità delle armi omicide?
È venuta in discussione la presunta gerarchizzazione delle due forme di lotta, che secondo gli interpreti dell'immagine armata della Resistenza verrebbe compiuta dai ricercatori della nonviolenza nella storia e nella politica. Questi però ribadiscono: riconosciamo non solo la scelta delle armi in quel momento da parte dei partigiani, anche data la non conoscenza di esperienze nonviolente, ma riconosciamo anche che esistono tragiche situazioni estreme – ammesse anche da Gandhi, assunte anche da Bonhoeffer pacifista – in cui uccidere diventa una brutta necessità. Eppure non ci si può acquietare in ciò, e bisogna cercare, nelle esperienze storiche come nei progetti politici, lo sviluppo di mezzi di lotte giuste libere dall'uso della morte artificale aggiunta alla nostra universale mortalità naturale. Questo sarebbe una evoluzione umana, una emancipazione dalla necessità ripetitiva. Il non uccidere è un obiettivo irrinunciabile di umanizzazione, non è un di più per anime belle.
Nella bella e serena discussione è rimasta la giusta differenza tra il taglio storiografico e il taglio etico-politico, pur appoggiato su esperienze storiche da evidenziare. De Luna ha ritenuto che gli storici della Resistenza civile, negli ultimi venti anni, abbiano posto come un anatema sulla lotta armata. A me pare di no. Ho sempre sentito da parte dei primi il rispetto e il riconoscimento che ho già detto. Il problema è passare dai fatti ai progetti più avanzati. Il punto non è solo la coraggiosa decisione personale-esistenziale di passare la soglia oltre la quale c'è il morire e far morire (la soglia tracciata da Barbato ben illustrata nel libro di De Luna), ma è soprattutto lottare, anche a rischio di morire, con la forza e la volontà umana di giustizia, senza affidare il giudizio alla capacità distruttiva delle armi, che facilmente sfugge al criterio umano e facilmente si ritorce anche in effetti di disumanizzazione di chi usa le armi, pur con giuste ragioni. Ho raccontato a questo riguardo una mia esperienza vissuta all'età di nove anni, nei giorni successivi alla fine della guerra. Senza dire che l'escalation degli armamenti è arrivato alla distruttività nucleare totale, che impone alla ragione l'assoluta interruzione della logica armata, se ci preme la vita dell'umanità sulla terra.
Questi sono pochi primi appunti pro-memoria, del tutto integrabili e correggibili.
Grazie a chi ha partecipato! Enrico Peyretti, 26 maggio 2015

II
27 maggio 2015 - De Luna a Peyretti

Caro Peyretti, anch’io ti sono grato per l’opportunità che hai dato a tutti noi di avviare un confronto stimolante e proficuo. A me è spiaciuto solo che la discussione si sia sviluppata prescindendo dalla lettura del libro. Tu lo sai; quello che nei vari interventi è sembrato una sorta di ping-pong etico-politico-storiografico, nella concretezza della ricerca che alimenta il libro si presenta con caratteri molto più sfumati. Leletta, l’assoluta protagonista, non spara mai; pure il suo coinvolgimento è totale e il suo ruolo è decisivo nel disegnare la “Resistenza perfetta”. Lo stesso discorso vale per sua madre, “la baronessa dei partigiani”, come la chiamavano i fascisti. Quando si arrampica a duemila metri con la sola compagnia del parroco per andare a recuperare il corpo di un caduto, il suo gesto in quale categoria interpretativa lo collochiamo? E che dire delle altre figure femminili (la zia Barbara, “allenata” sui treni ospedali ai suoi nuovi compiti partigiani; la contadina che disattendendo gli ordini del marito rifocilla i patrioti; ecc…). E per quanto riguarda i maschi: abbiamo giustamente parlato di Giuriolo, ma il libro propone il percorso di Alberto Prunas Tola, che va in banda, si rifiuta di sparare e entra nello SMOM come infermiere soccorrendo nelle giornate insurrezionali partigiani e fascisti. Leletta, Dedo, e gli altri loro amici si interrogano a fondo sulla sua scelta e la loro discussione avrebbe meritato più attenzione nel nostro dibattito.

Insomma l’intreccio resistenza civile /resistenza armata è strettissimo e solo moltiplicando i comportamenti analizzati dagli storici se ne viene a capo. Per il resto, sai come la penso a proposito della resistenza civile; aver utilizzato questa categoria ha determinato uno scossone salutare agli studi sulla lotta partigiana, ampliando l’orizzonte della ricerca; resta per me quella che è stata definita la gerarchizzazione, il vedere la lotta armata come elemento decisivo e fondante di quello che è successo nel “venti mesi”. E’ una scelta che appartiene al mio bagaglio di storico e che propongo con convinzione. Ma la nettezza delle proprie opinioni non comporta affatto il rifiuto a priori di quelle degli altri.

Ti ringrazio ancora di tutto. E se ci fosse un’altra opportunità dopo aver letto il libro sarei molto contento.

Un caro saluto e a presto

Giovanni De Luna


III


4 giugno 2015 - Anna Bravo a Peyretti e De Luna

Caro Enrico,
grazie di tutto, e anche per aver ribadito che nessuno studioso di resistenza civile si è mai sognato di lanciare anatemi contro la resistenza armata o di contrapporre le due realtà. Anzi, si è cercato di farle dialogare. Quante volte abbiamo fatto notare che l'inclinazione guerriera della storiografia aveva sminuito l'immagine del partigiano, perché non valorizzava il registro della mediazione e della riduzione del danno, che invece non gli era affatto estraneo - contrariamente a quel che faceva intendere Buttiglione. Io ho sempre cercato di sottolineare i comportamenti di pace in tempo di guerra - Giovanni, ricorderai le tante volte in cui ho suggerito di studiare le tregue fra partigiani e fascisti/tedeschi, che esprimono, anche, il rifiuto di considerare inevitabile l’estensione della distruttività. Il tema è ancora oggi pochissimo presente (il libro recente di Roberta Mira non è stato molto sostenuto).
Dichiarare la lotta armata l'"elemento decisivo e fondante", è una visione troppo rigida. Nelle zone dove la lotta armata non esiste oppure è esilissima, si può dire che non ci sia resistenza? O che le azioni non abbiano senso compiuto (cioè, svolazzerebbero nella storia senza trovare posto al suo interno)? penso alla protezione degli sbandati e dei prigionieri evasi, che mette in luce un contenzioso specifico fra nazisti/fascisti e settori della popolazione, e che ha l'indelicatezza di avvenire a resistenza non ancora iniziata. E la Danimarca?
Ma non mi riferisco esclusivamente ai salvataggi, nella cui esaltazione c'è se mai il rischio di far apparire la R.C. solo come la faccia umanitaria della resistenza armata. Penso alle sue altre forme, come il rifiuto di sfollare in massa (Carrara), gli onori resi ai morti, gli assalti ai treni carichi di viveri, le "strategie di isolamento" del nemico (Il Silenzio del mare). Lotte per il futuro, che puntano alla tutela materiale e simbolica delle comunità, della famiglia, della professione, della chiesa.
Certo che il contributo in armi è stato assunto come fondamento del riscatto! all'epoca era ovvio, dovunque si faceva la conta dei combattenti in armi (e dei morti), e nessun politico italiano è stato in grado di far pesare la conta dei vivi, in particolare l'aiuto ai prigionieri alleati, che nel 46 viene invece pubblicamente riconosciuto dall'ambasciatore inglese in Italia.
Dopo 70 anni non possiamo "oltrepassare" quei criteri, come chiede Enrico? La gerarchia armati/inermi ha già pesato troppo nella ricerca - senza Absalom non avremmo saputo niente dei contadini soccorritori dei prigionieri. Io resto pienamente convinta che il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato.
E' vero, Giovanni, ho rimandato una lettura che temevo mi avrebbe colpito, ma mi sono fondata sull'autopresentazione che hai dato alla Stampa e sulla conoscenza degli altri tuoi libri. Non è il massimo, lo capisco, ma bisogna pur proteggersi un po'.

IV
Pietro Polito- Che cos’è stata la Resistenza?

newsletter 2015/14 | venerdì 8 maggio 2015 (www.serenoregis.org)

Come fenomeno europeo, la Resistenza è stata un moto di liberazione nazionale contro il nazismo: in quanto tale la nostra Resistenza non differisce da quella di altri paesi. Come fenomeno italiano, la guerra contro il nazismo è stata insieme una lotta di liberazione dalla dittatura fascista in nome dei diritti inviolabili – così li chiama la nostra Costituzione – dell’uomo. Ma la Resistenza ha avuto anche un significato universale: in quanto guerra popolare, spontanea, non comandata dall’alto, essa è stata un grande moto di emancipazione umana, che mirava molto più lontano e i cui effetti, proprio per questo, non sono ancora finiti: a una società internazionale più giusta, ispirata agli ideali di pace e di fraternità tra i popoli”. (Norberto Bobbio)
Questa definizione della Resistenza si trova in un rapido appunto scritto da Bobbio per una dichiarazione alla radio trasmessa l’8 settembre 1963. Essa fa parte delle riflessioni che Bobbio è venuto svolgendo tra il 1955 e il 1999 sul significato della Resistenza (in larga parte inedite, ma ora si possono leggere nel recente volume Eravamo ridiventati uomini, Einaudi, Torino 2015. La citazione è a p. 56).
Le pagine di Bobbio consentono di abbozzare una risposta sufficientemente chiara e definita alla domanda: “Che cosa è stata la Resistenza?”.
Bobbio si pone esplicitamente la domanda in un discorso per il 25 aprile 1961, chiarendo che è insufficiente interpretare la nostra Resistenza “soltanto” come “un movimento italiano” contro il fascismo e insistendo sul nesso tra la “nostra Resistenza” (la formula è di Bobbio) e il “grande movimento europeo di liberazione contro l’oppressione nazista”.
Riprendendo la definizione posta all’inizio, secondo Bobbio, la Resistenza è stata un movimento europeo, nazionale, universale. Così intesa essa può essere definita e valutata sotto tre aspetti: 1. le anime; 2. gli attori e gli scopi; 3. i risultati.
Le anime della Resistenza
Come movimento europeo, la Resistenza italiana è stata “un episodio, l’ultimo episodio della tragica e nobile storia della libertà europea rivendicata”; come movimento italiano, “la nostra Resistenza” si distingue dalle altre: mentre negli altri paesi è stata prevalentemente un movimento di liberazione dallo straniero, in Italia la Resistenza è stata al tempo stesso “un movimento patriottico e antifascista, contro il nemico esterno e contro il nemico interno”; come movimento universale di emancipazione sociale, la Resistenza è stata una “guerra popolare”, “un moto popolare, l’unico grande moto popolare nella storia dell’Italia moderna”.
Naturalmente l’espressione “guerra popolare” non viene usata nel senso di guerra di popolo, combattuta da un popolo, ma nel senso della lotta di una minoranza, “la lotta impari e disperata” di una minoranza che “non sarebbe stata possibile senza il consenso e la collaborazione degli operai nelle città, dei contadini nelle campagne, di intellettuali, di amministratori, di professionisti che costituirono una fitta rete protettiva delle bande armate e dei gruppi d’azione partigiana”.
Nell’animo di una parte importante e attiva dei partigiani la Resistenza è stata una guerra rivoluzionaria”: in questo terzo significato, può essere considerata “un movimento universale, che trascende l’occasione che l’ha generata e i risultati raggiunti”.
Gli attori e gli scopi.
Le finalità della Resistenza furono molteplici.
La guerra patriottica, fu combattuta da quella parte dell’esercito rimasta fedele alla Monarchia con lo scopo della restaurazione dell’indipendenza nazionale; la guerra antifascista dai partiti antifascisti riuniti nei Comitati di liberazione nazionale con l’obiettivo della riconquista della libertà politica; la guerra rivoluzionaria da un partito che preesisteva se pure di poco al fascismo, il Partito comunista, e da un partito nuovo, nato con la Resistenza, il Partito d’azione, con il fine dell’instaurazione dello stato nuovo. Il Partito d’Azione e il Partito comunista furono i partiti militarmente più organizzati, i più decisi e i più audaci, i principali organizzatori della guerra per bande.
I risultati della Resistenza.
I risultati vanno valutati in base agli scopi.
Il principale scopo della guerra patriottica, la liberazione dell’Italia dal dominio straniero, è stato raggiunto. L’Italia deve alla guerra patriottica il suo essere ridiventata una nazione libera, democratica, inserita a pieno diritto nella comunità internazionale.
Pure la guerra antifascista ha raggiunto i suoi scopi. Certo la sconfitta del fascismo non può essere ascritta a merito esclusivo dei partigiani, ma “la Resistenza italiana ebbe il merito di inserirsi nella direzione giusta della lotta al momento giusto”.
Naturalmente il giudizio è più controverso per quel che riguarda la Resistenza come rivoluzione sociale tendente alla trasformazione radicale della società italiana. Scriveva Bobbio nel lontano 25 aprile 1961: “Orbene, la democrazia che è stata attuata in Italia è soltanto quella apparente, non quella sostanziale. La democrazia sostanziale c’è, sì, negli articoli della Costituzione, ma non c’è nella realtà. L’Italia continua ad essere la nazione delle grandi sperequazioni, tra classe e classe, tra regione e regione”.
E oggi?
oooooo


Pansa e la Resistenza condannata

Storia
Giampaolo Pansa e la Resistenza condannata (edizione accorciata)

Giampaolo Pansa, morto recentemente, ha cercato, nella storia della Resistenza, i fatti di violenza non giustificabile, per toglierle l'aura di eroismo, e per sottrarla al monopolio delle sinistre. Non si possono negare casi di violenza. Io stesso, all'età di nove anni (l'ho scritto una quantità di volte), a fine aprile 1945, a Bagnone, in Lunigiana, a guerra appena finita, ho visto partigiani uccidere senza alcuna necessità tre soldati tedeschi sbandati nella ritirata, rimasti per sempre senza nome. Li ho visti vivi, e subito dopo morti, gettati su un carretto tirato da un asino. Erano dalla parte sbagliata, ma sono stati i miei primi maestri di pace, della necessità di abolire la guerra omicida, mentre cominciavo ad osservare il mondo. Ho visitato, anni dopo, le loro tombe senza nome a Costermano.
Poco tempo prima, nella frazione dove eravamo sfollati, ho conosciuto il prete, don Lorenzelli, poi preso e ucciso dai partigiani, perché fascista entusiasta della bonifica pontina a beneficio di contadini poveri, e ammiratore pubblico di Mussolini. A noi bambini non insegnava male, in chiesa. Lo presero e lo uccisero. Uccisero anche un certo Lorenzino, nostro lontano parente, fascista esaltato, ma in realtà un po' scemo. Avevo forse sette anni quando gli dissi, in casa sua, sulla moneta da 50 centesimi: «Ora l'aquila porta il tuo fascio sul mare e lo fa affondare». Mi fece vedere due o tre fucili, in una stanza buia: «Se lo dici di nuovo, ti sparo». Si fucila uno scemo fascista?
Pansa abusa di simili casi per condannare tutta la Resistenza. Ma c'è invece chi evidenzia la più vasta componente della Resistenza, quella civile e non armata, che indica il vasto risveglio di coscienza umana, dopo gli anni in cui l'ideologia fascista esaltante la violenza aveva infestato gli animi. I partigiani armati non erano terroristi. Insieme a chi lottava senza le armi, volevano uscire dalla violenza bellica, come proclamerà la Costituzione del 1948 con l'articolo 11. Noi li esaltiamo non perché hanno vinto, ma per ciò che volevano, e perché erano dalla parte giusta.
C'è una vasta storiografia sulla Resistenza (italiana ed europea), seguita alla prima immagine, tutta militare, ma Pansa, e tanti altri storici, non ne hanno tenuto conto. Oggi non si può ignorare questa ricca documentazione. Anna Bravo, scomparsa recentemente, è una delle protagoniste di questa ricerca. Un'ampia bibliografia, non solo italiana, Difesa senza guerra, è anche in internet e nel mio blog. Un volume che orienta bene è Resistenza nonviolenta 1943-1945, di Ercole Ongaro (Bologna 2013), che abbiamo brevemente segnalato in il foglio n. 412, maggio 2014. Si veda anche Conversazione sulla Resistenza, n. 424, settembre 2015, un confronto serio con lo storico De Luna.

La Resistenza civile non era attendismo
Richiamo qualche dato dal libro di Ongaro. Si stima che abbiano partecipato più persone alla Resistenza civile, non armata, che a quella armata. L'appoggio non armato alla lotta armata non è da confondere con l'autonoma mobilitazione popolare in difesa dei diritti umani e civili né con la disobbedienza agli ordini nazi-fascisti. Claudio Pavone, nel numero della rivista Il Ponte dedicato al 50°, nel 1995, riconobbe che la resistenza civile, documentata da storiche come Anna Bravo ed altre, era tutt'altro che zona grigia o attendismo. Lutz Klinkhammer, il maggiore storico dell'occupazione tedesca dell'Italia, valuta che la resistenza civile in forme collettive può avere più forza di un gesto armato. Lidia Menapace ha mostrato che la Resistenza fu un movimento essenzialmente politico, dove l'aspetto militare era del tutto strumentale, non fondativo, come invece in un esercito. Una guerra è sempre violenta: una resistenza può essere violenta o nonviolenta. A Lodi partecipò alla Resistenza lo scultore Ettore Archinti, che era stato obiettore di coscienza nella prima guerra mondiale.
Tra coloro che aiutarono gli ebrei perseguitati si trovano molti preti, soprattutto del basso clero, ma anche alcuni vescovi, come il cardinale di Torino, Fossati. Vi si può vedere un riscatto dall'appoggio cattolico dato al fascismo negli anni del regime. Si può aggiungere la testimonianza del milanese don Giovanni Barbaresch, un prete “ribelle per amore”. Per salvare gli ebrei, si falsificavano abilmente le loro carte d'identità: a questa operazione partecipò anche Gino Bartali, riconosciuto “giusto tra le nazioni”. Nel momento del rastrellamento e deportazione degli ebrei di Roma, il 16 ottobre 1943, Pio XII restò in un ben discutibile silenzio, probabilmente temendo ritorsioni sui cattolici. Ma, mentre 2091 furono gli ebrei romani deportati, 4.447 furono nascosti e salvati in istituti religiosi cattolici. Gli ebrei in Italia erano 45.000: 8.566 furono deportati, 37.000 furono aiutati. Le lotte del 1943 nelle fabbriche, nelle campagne e nelle scuole, furono un vero prodromo della Resistenza attiva. A Genova due operai furono fucilati, ma un gruppo di carabinieri con il loro tenente rifiutarono di fucilare otto prigionieri politici, condannati per rappresaglia dell'uccisione di un ufficiale tedesco. Anche le donne contadine si distinguono nella lotta.
L'80-85% degli internati militari in Germania, a costo di gravi sofferenze fisiche e morali, rifiutarono di venire rimpatriati purché aderissero all'esercito della Repubblica sociale, collaborazionista dei tedeschi. Questo capitolo toccante fu solo tardivamente riconosciuto come vera eroica resistenza. Io ricordo bene la semplicità con cui, a guerra finita, questi militari tornarono a casa senza nessun vanto. Il mio giovane professore di lettere, Orlando Lecchini, in prima media, ottobre 1945, era appena rientrato e noi lo sapemmo dopo diversi anni.
La storia dei deportati politici e razziali è più nota. Anche tra loro ci furono reali azioni di Resistenza, soprattutto per “restare umani” in un sistema studiato per distruggere la dignità umana. Tra i deportati politici, i più resistenti erano quelli sostenuti specialmente da una fede religiosa o politica ideale. Ongaro, nel suo libro, indica sempre con precisione i numeri dei deportati e delle vittime (come le donne a Ravensbrück).
Nei vari lager d'Europa, e non solo in quelli di transito, si formarono comitati di resistenza che agivano, in condizioni inimmaginabili, con determinatezza e precisione. Ciò dimostra «che un sistema aberrante e disumano può assassinare i suoi “nemici”, ma non può annientare i sentimenti umani e la dignità di chi sopravvive». I renitenti alla leva imposta dalla repubblica fascista erano causa di angoscia nelle famiglie, di arresto dei loro genitori. Ci furono azioni nonviolente di donne a Crema, a Torino. C'era la pena di morte, eppure avvennero fughe e diserzioni con l'aiuto della popolazione, manifestazioni di donne, ma anche fucilazioni. Giovani reclutati esprimevano dissenso sovversivo fin dentro le caserme. Anche dei carabinieri passarono ai ribelli. Un nostro conoscente, bersagliere repubblichino, di nome Vismara, si mise in borghese, presenti noi bambini che potevamo parlarne, e passò ai partigiani. Qualcuno poi insinuò che andasse come spia. Ma dopo guerra, lo ritrovammo al mare, vivo.
«Nella storia dell'Italia unita non era mai stata scritta una pagina di così intensa mobilitazione popolare e di diffusa disobbedienza civile per dire no ad un esercito che combatteva a fianco dell'occupante nazista». Nel gennaio 1945, Mussolini passò in Lunigiana, fingendo una visita al fronte non lontano. Madre e figlia Berardi, nostre conoscenti, che dovettero ospitarlo nell'unica casa signorile di Mocrone, ci raccontavano che era anche fisicamente irriconoscibile. Ma anche in Sicilia, per un nuovo reclutamento nel contingente italiano che combatteva con gli Alleati sulla Linea Gotica, una donna, Maria Occhipinti, si ribella e solleva una rivolta popolare contro la continuazione della guerra. Mussolini non era più lo spavaldo dittatore della nazione.
Resistenza delle donne
Tutto il capitolo 9 di Ongaro è dedicato alla resistenza, armata o non armata, delle donne. Sono state nonviolente non per natura, ma per scelta morale e pratica. Una toccante testimonianza mostra la relazione misteriosa tra madri che non si conoscevano: proteggendo qui un soldato in pericolo speravano che un'altra madre proteggesse il loro figlio lontano, in guerra. A Roma, nel marzo 1944, manifestazioni di donne ottengono l'abolizione del traffico militare tedesco attraverso la “città aperta”. Due donne vengono uccise, altre dieci sono fucilate il 7 aprile.
Notevole il moto di migliaia di donne di Carrara, il 10-11 luglio 1944, che si ribellavano all'ordine di sgombero della città imposto dai tedeschi, fino a costringerli a revocarlo. Io frequentai il ginnasio e liceo a Carrara dal 1948 al 53, solo quattro anni dopo, e mi sorprende il fatto che non seppi mai nulla di questa eroica azione. La guidava Francesca Rolla. Il mio professore di filosofia si chiamava Rolla. Che fosse parente? Pur fortemente antifascista, non ci parlò mai di quella forte resistenza di donne. Ma ci raccontò un divertente aneddoto del padre e del bambino, durante il fascismo, una specie di teatro di strada: «O pa', aiò fama!». «Grida alalà, e la fama t' pasarà». (Alalà era uno slogan fascista). Quell'uomo fece dei giorni di prigione, per questa scena di opposizione. Nell'aprile 1944, a Parma, una manifestazione tumultuosa di donne ottiene la revoca o sospensione di alcune condanne a morte di partigiani. Altro si dovrebbe segnalare, sulla stampa clandestina, vera arma nonviolenta di movimento delle coscienze, e sui Comitati di Liberazione Nazionale.
Pansa ha voluto vedere solo una guerra civile, ugualmente violenta dalle due parti. Ongaro si chiede nell'ultimo capitolo: «Quale senso per la Resistenza armata?». Riconoscendo il valore innovatore della Resistenza non armata, civile, nonviolenta, noi non condanniamo i partigiani che lottarono con le armi. Ongaro mostra bene in quali condizioni molti decisero per la lotta armata. Le forme nonviolente furono quasi solo spontanee, senza tecniche organizzate. Molti partigiani usarono il meno possibile le armi, parecchi parteciparono senza mai usarle. Ci disse Norberto Bobbio in un incontro tra pochi, nel 1994: «A volte mi sono pentito di non avere ucciso un tedesco, ma so che se l'avessi fatto me ne pentirei».


Enrico Peyretti

mercoledì 1 gennaio 2020

1 gennaio 2020 - Fare o pensare?

Fare o pensare?
Fare o pensare? Ovvio, non è un'alternativa. Ma, di fatto, è spesso una separazione. Oggi si vuole una scuola che insegni a lavorare, che dia competenze, il saper fare. E chi dice di no? Ma è un buon lavoro quello fatto senza saper pensare? Pensare non è solo la capacità di costruire un ponte che non crolli (il minimo per un ponte decente, onesto), ma è, oltre il ponte fatto bene, sapere e pensare in quale insieme di vita e di significati giusti e umani quel ponte entra in funzione.
Pensare è interrogarsi, un passo oltre il saper fare: "Perché lo faccio?". L'interrogativo è più importante della risposta, che può nascere solo dalla domanda, dalla fecondità del non sapere, dal travaglio dell'ignoranza viva e pregna perché curiosa. Il pensiero è interrogativo. Proibire le domande è proibire l'umano.
Fare senza pensare è come lo schiavo nell'anima, come il soldato che obbedisce, funziona, e uccide, senza coscienza di sé e degli altri. Anche pensare senza fare, non va bene. Anche il poeta e il pittore, il filosofo e l'astrofisico, devono rendersi utili, almeno dando piacere, almeno insegnando ad altri il loro sapere, la loro arte, almeno proponendo domande e misteri, tra tante certezze.
Sapere non è accumulare conoscenze, né abilità. Come ogni parola, sapere (verbo e sostantivo) ha un grappolo di significati (ogni parola è un albero con radici e rami e fiori, in una foresta di creature sonore). Oltre conoscere, sapere vuol dire anche capire, avere consapevolezza (coscienza), essere saggio, avere sapore, dare e sentire un gusto, buono o cattivo. Non si ha né si trasmette un sapere senza tutto ciò, con la mente, le mani, la lingua, gli occhi, la pelle, e tutti i sensi.
L'insegnante deve trasmettere quello che già sappiamo, ma accanto a lui ci vuole il ricercatore senza vincoli che indaga, curioso, nel grande campo di quel che non sappiamo. E ogni scolaro, ogni studente, deve imparare, ma anche almeno un po' ricercare.
Non c'è un fare umano se non è più del saper fare: cioè capire cosa faccio, farne esperienza e trarne saggezza, gustarne il sapore, pagarne liberamente il prezzo della fatica, goderne il valore e la bellezza. Senza tutto ciò, il lavoratore è uno schiavo ben allenato, e disumanizzato: ma un robot è più bravo di lui, perché non rischia di  pensare.
Certamente, la politica deve creare occasioni di lavoro e degno salario, e la scuola deve dare capacità corrispondenti, per la vita giusta di tutti. Ma, perché sia lavoro umano, deve crescere in compagnia del sapere, di tutti i significati del sapere. La scuola deve educare tutta intera la persona umana: fare cultura è coltivare tutte le dimensioni umane: dall'utile, al gratuito, al bello, al vero, al giusto, al buono. Non solo l'utile. I ragazzi che oggi si svegliano dall'imbambolamento che gli abbiano somministrato, in sostanza forse chiedono questo. Saremo capaci di rispondere?  
E. P.