Storia
Giampaolo
Pansa e la Resistenza
condannata
(edizione
accorciata)
Giampaolo
Pansa, morto recentemente, ha cercato, nella storia della
Resistenza, i fatti di violenza non giustificabile, per toglierle
l'aura di eroismo, e per sottrarla al monopolio delle sinistre. Non
si possono negare casi di violenza. Io stesso, all'età di nove anni
(l'ho scritto una quantità di volte), a fine aprile 1945, a Bagnone,
in Lunigiana, a guerra appena finita, ho visto partigiani uccidere
senza alcuna necessità tre soldati tedeschi sbandati nella ritirata,
rimasti per sempre senza nome. Li ho visti vivi, e subito dopo morti,
gettati su un carretto tirato da un asino. Erano dalla parte
sbagliata, ma sono stati i miei primi maestri di pace, della
necessità di abolire la guerra omicida, mentre cominciavo ad
osservare il mondo. Ho visitato, anni dopo, le loro tombe senza nome
a Costermano.
Poco
tempo prima, nella frazione dove eravamo sfollati, ho conosciuto il
prete, don Lorenzelli, poi preso e ucciso dai partigiani, perché
fascista entusiasta della bonifica pontina a beneficio di contadini
poveri, e ammiratore pubblico di Mussolini. A noi bambini non
insegnava male, in chiesa. Lo presero e lo uccisero. Uccisero
anche un certo Lorenzino, nostro lontano parente, fascista esaltato,
ma in realtà un po' scemo. Avevo forse sette anni quando gli dissi,
in casa sua, sulla moneta da 50 centesimi: «Ora
l'aquila porta il tuo fascio sul mare e lo fa affondare». Mi fece
vedere due o tre fucili, in una stanza buia: «Se lo dici di nuovo,
ti sparo».
Si fucila uno scemo fascista?
Pansa
abusa di simili casi per condannare tutta la Resistenza. Ma c'è
invece chi evidenzia la più vasta componente della Resistenza,
quella civile e non armata, che indica il vasto risveglio di
coscienza umana, dopo gli anni in cui l'ideologia fascista esaltante
la violenza aveva infestato gli animi. I partigiani armati non erano
terroristi. Insieme a chi lottava senza le armi, volevano uscire
dalla violenza bellica, come proclamerà la Costituzione del 1948 con
l'articolo 11. Noi li esaltiamo non perché hanno vinto, ma per ciò
che volevano, e perché erano dalla parte giusta.
C'è
una vasta storiografia sulla Resistenza (italiana ed europea),
seguita alla prima immagine, tutta militare, ma Pansa, e tanti altri
storici, non ne hanno tenuto conto. Oggi non si può ignorare questa
ricca documentazione. Anna Bravo, scomparsa recentemente, è una
delle protagoniste di questa ricerca. Un'ampia bibliografia, non solo
italiana, Difesa
senza guerra,
è anche in internet e nel mio blog. Un volume che orienta bene è
Resistenza
nonviolenta 1943-1945,
di Ercole Ongaro (Bologna 2013), che abbiamo brevemente segnalato in
il
foglio
n. 412, maggio 2014. Si veda anche Conversazione
sulla Resistenza,
n. 424, settembre 2015, un confronto serio con lo storico De Luna.
La
Resistenza civile non era attendismo
Richiamo
qualche dato dal libro di Ongaro. Si
stima che abbiano partecipato più persone alla Resistenza civile,
non armata, che a quella armata. L'appoggio
non armato alla lotta armata non è da confondere con l'autonoma
mobilitazione popolare in difesa dei diritti umani e civili né con
la disobbedienza agli ordini nazi-fascisti. Claudio Pavone, nel
numero della rivista Il
Ponte dedicato al
50°, nel 1995, riconobbe che la resistenza civile, documentata da
storiche come Anna Bravo ed altre, era tutt'altro che zona grigia o
attendismo. Lutz Klinkhammer, il maggiore storico dell'occupazione
tedesca dell'Italia, valuta che la resistenza civile in forme
collettive può avere più forza di un gesto armato. Lidia Menapace
ha mostrato che la Resistenza fu un movimento essenzialmente
politico, dove l'aspetto militare era del tutto strumentale, non
fondativo, come invece in un esercito. Una guerra è sempre violenta:
una resistenza può essere violenta o nonviolenta. A Lodi partecipò
alla Resistenza lo scultore Ettore Archinti, che era stato obiettore
di coscienza nella prima guerra mondiale.
Tra
coloro che aiutarono gli ebrei perseguitati si trovano molti preti,
soprattutto del basso clero, ma anche alcuni vescovi, come il
cardinale di Torino, Fossati. Vi si può vedere un riscatto
dall'appoggio cattolico dato al fascismo negli anni del regime. Si
può aggiungere la testimonianza del milanese don
Giovanni Barbaresch, un prete “ribelle per amore”.
Per
salvare gli ebrei, si falsificavano abilmente le loro carte
d'identità: a questa operazione partecipò anche Gino Bartali,
riconosciuto “giusto tra le nazioni”. Nel
momento del rastrellamento e deportazione degli ebrei di Roma, il 16
ottobre 1943, Pio XII restò in un ben discutibile silenzio,
probabilmente temendo ritorsioni sui cattolici. Ma, mentre 2091
furono gli ebrei romani deportati, 4.447 furono nascosti e salvati in
istituti religiosi cattolici. Gli ebrei in Italia erano 45.000: 8.566
furono deportati, 37.000 furono aiutati. Le lotte del 1943 nelle
fabbriche, nelle campagne e nelle scuole, furono un vero prodromo
della Resistenza attiva. A Genova due operai furono fucilati, ma un
gruppo di carabinieri con il loro tenente rifiutarono di fucilare
otto prigionieri politici, condannati per rappresaglia dell'uccisione
di un ufficiale tedesco. Anche le donne contadine si distinguono
nella lotta.
L'80-85%
degli internati militari in Germania, a costo di gravi sofferenze
fisiche e morali, rifiutarono di venire rimpatriati purché
aderissero all'esercito della Repubblica sociale, collaborazionista
dei tedeschi. Questo capitolo toccante fu solo tardivamente
riconosciuto come vera eroica resistenza. Io ricordo bene la
semplicità con cui, a guerra finita, questi militari tornarono a
casa senza nessun vanto. Il mio giovane professore di lettere,
Orlando Lecchini, in prima media, ottobre 1945, era appena rientrato
e noi lo sapemmo dopo diversi anni.
La
storia dei deportati politici e razziali è più nota. Anche tra loro
ci furono reali azioni di Resistenza, soprattutto per “restare
umani” in un sistema studiato per distruggere la dignità umana.
Tra i deportati politici, i più resistenti erano quelli sostenuti
specialmente da una fede religiosa o politica ideale. Ongaro, nel suo
libro, indica
sempre con precisione i numeri dei deportati e delle vittime (come le
donne a Ravensbrück).
Nei
vari lager d'Europa, e non solo in quelli di transito, si formarono
comitati di resistenza che agivano, in condizioni inimmaginabili, con
determinatezza e precisione. Ciò dimostra «che un sistema aberrante
e disumano può assassinare i suoi “nemici”, ma non può
annientare i sentimenti umani e la dignità di chi sopravvive». I
renitenti alla leva imposta dalla repubblica fascista erano causa di
angoscia nelle famiglie, di arresto dei loro genitori. Ci furono
azioni nonviolente di donne a Crema, a Torino. C'era la pena di
morte, eppure avvennero fughe e diserzioni con l'aiuto della
popolazione, manifestazioni di donne, ma anche fucilazioni. Giovani
reclutati esprimevano dissenso sovversivo fin dentro le caserme.
Anche dei carabinieri passarono ai ribelli. Un nostro conoscente,
bersagliere repubblichino, di nome Vismara, si mise in borghese,
presenti noi bambini che potevamo parlarne, e passò ai partigiani.
Qualcuno poi insinuò che andasse come spia. Ma dopo guerra, lo
ritrovammo al mare, vivo.
«Nella
storia dell'Italia unita non era mai stata scritta una pagina di così
intensa mobilitazione popolare e di diffusa disobbedienza civile per
dire no ad un esercito che combatteva a fianco dell'occupante
nazista». Nel
gennaio 1945, Mussolini passò in Lunigiana, fingendo una visita al
fronte non lontano. Madre e figlia Berardi, nostre conoscenti, che
dovettero ospitarlo nell'unica casa signorile di Mocrone, ci
raccontavano che era anche fisicamente irriconoscibile.
Ma anche in
Sicilia, per un nuovo reclutamento nel contingente italiano che
combatteva con gli Alleati sulla Linea Gotica, una donna, Maria
Occhipinti, si ribella e solleva una rivolta popolare contro la
continuazione della guerra. Mussolini non era più lo spavaldo
dittatore della nazione.
Resistenza
delle donne
Tutto
il capitolo
9 di Ongaro è dedicato alla resistenza,
armata o non armata, delle donne. Sono state nonviolente non per
natura, ma per scelta morale e pratica. Una toccante testimonianza
mostra la relazione misteriosa tra madri che non si conoscevano:
proteggendo qui un soldato in pericolo speravano che un'altra madre
proteggesse il loro figlio lontano, in guerra. A Roma, nel marzo
1944, manifestazioni di donne ottengono l'abolizione del traffico
militare tedesco attraverso la “città aperta”. Due donne vengono
uccise, altre dieci sono fucilate il 7 aprile.
Notevole il moto di
migliaia di
donne di Carrara, il 10-11 luglio 1944, che si ribellavano all'ordine
di sgombero della città imposto dai tedeschi, fino a costringerli a
revocarlo. Io
frequentai il ginnasio e liceo a Carrara dal 1948 al 53, solo quattro
anni dopo, e mi sorprende il fatto che non seppi mai nulla di questa
eroica azione.
La guidava Francesca Rolla. Il mio professore di filosofia si
chiamava Rolla. Che fosse parente? Pur fortemente antifascista, non
ci parlò mai di quella forte resistenza di donne. Ma ci raccontò un
divertente aneddoto del padre e del bambino, durante il fascismo, una
specie di teatro di strada: «O
pa', aiò fama!». «Grida alalà, e la fama t' pasarà». (Alalà
era uno slogan fascista). Quell'uomo fece dei giorni di prigione, per
questa scena di opposizione.
Nell'aprile 1944, a Parma, una manifestazione tumultuosa di donne
ottiene la revoca o sospensione di alcune condanne a morte di
partigiani. Altro si dovrebbe segnalare, sulla stampa clandestina,
vera arma nonviolenta di movimento delle coscienze, e sui Comitati di
Liberazione Nazionale.
Pansa
ha voluto vedere solo una guerra civile, ugualmente violenta dalle
due parti. Ongaro si chiede nell'ultimo capitolo:
«Quale
senso per la Resistenza armata?».
Riconoscendo il valore innovatore della Resistenza non armata,
civile, nonviolenta, noi non condanniamo i partigiani che lottarono
con le armi. Ongaro mostra bene in quali condizioni molti decisero
per la lotta armata. Le forme nonviolente furono quasi solo
spontanee, senza tecniche organizzate. Molti partigiani usarono il
meno possibile le armi, parecchi parteciparono senza mai usarle. Ci
disse Norberto Bobbio in un incontro tra pochi, nel 1994: «A
volte mi sono pentito di non avere ucciso un tedesco, ma so che se
l'avessi fatto me ne pentirei».
Enrico Peyretti
Nessun commento:
Posta un commento