martedì 28 maggio 2019

Bori commenta Simone Weil "Ogni religione è l'unica vera"

Bori commenta Simone Weil: «Ogni religione è l'unica vera»
di Enrico Peyretti

Inviato 25 maggio 2019 a <daniela.deleo@unisalento.it> direttrice della rivista del Salento “Rivista scientifica Segni e Comprensione”.
Pubblicato su il foglio n. 466, novembre 2019 (www.ilfoglio.info)

«Ogni religione è l'unica vera»: su questa formula provocatoria di Simone Weil, scrisse un saggio importante Pier Cesare Bori (1937-2012), l' intraprendente e acuto studioso dell'universalismo religioso e culturale. Lo pubblicò in Filosofia e teologia, 8 (1994), pp. 393-403, e in versione ridotta in
Testimonianze, 12 (1994), pp. 45-52. Ne parlò in una conferenza a Torino, nel gennaio di quell'anno, della quale resi conto in Rocca, 15 febbraio 1994. Il saggio di Bori esce ora nuovamente, insieme allo scritto di Simone Weil, del 1942, Lettera a un religioso (Castelvecchi, 2019, purtroppo in una edizione spoglia, priva di ogni presentazione sulla filosofa francese e su Bori, e con alcuni errori di stampa, alle pp. 47, 57, 82, 84, 87, 90).
La formula è scelta da Bori come insegna di quell'universalismo che, per Simone Weil, è un imperativo del tempo presente. Per Bori, la Lettera a un religioso permette anche di vedere quale sia il cristianesimo della Weil.
«Ogni religione è l'unica vera» si legge in un Quaderno del 1941, in polemica contro l'«ortodossia totalitaria della Chiesa», che è «mancanza di fede», scrive la Weil. «Ogni religione è l'unica vera, nel senso che, nel momento in cui la si pensa, è necessario applicarle così tanta attenzione, come se non vi fosse nient'altro». Allo stesso modo, ogni paesaggio, ogni poesia, ogni bellezza è l'unica, è tutta la bellezza, se vi poniamo l'attenzione piena. Al contrario, «la “sintesi“ delle religioni implica una qualità di attenzione inferiore», dice con riferimento a quegli esperimenti, che vanno dalla gnosi antica, al Rinascimento, fino a Tolstoj. Nell'attenzione l'oggetto diventa unico. Una cosa perfettamente bella, è l'unica bellezza. Ogni oggetto è unico.
Oggi l'universalità deve essere esplicita, nel linguaggio e nella maniera di essere (è questa la vocazione culturale di Bori, che ne trova belle radici anche nella Weil). Il comandamento dell'amore è anonimo, perciò universale. L'universalismo non è una superlingua. Cambiare religione è come cambiare lingua per uno scrittore, e può essere funesto.
Viene a proposito un confronto con Gandhi, che, contrario ad ogni proselitismo, ammetteva il cambiamento di religione come approdo spirituale autonomo, ma esortava ciascuno ad approfondire la propria fede per giungere alla «vera Religione», a quel centro comune di tutte le fedi, che sono tutte vere perché hanno ognuna un punto di vista sulla verità. Del cristianesimo e dell’islam Gandhi diceva: «Considero tutt’e due le religioni ugualmente vere quanto la mia. Ma la mia mi soddisfa pienamente (...). La mia costante preghiera è pertanto che il cristiano e il musulmano diventino un migliore cristiano e un migliore musulmano» (Young India, 4 settembre 1924).
Per la Weil, la religione cattolica contiene esplicitamente verità che altre religioni contengono implicitamente, e queste contengono esplicitamente verità che nel cristianesimo sono soltanto implicite. Il cristiano meglio istruito può imparare molto sulle cose divine anche da altre tradizioni religiose, sebbene la luce interiore possa fargli percepire tutto attraverso la propria tradizione. E tuttavia, se le altre religioni sparissero, la perdita sarebbe irreparabile. «I missionari ne hanno già fatte sparire troppe», scrive la Weil al religioso cattolico al quale confida le ragioni per cui quando legge il vangelo sente che quella fede è sua, ma quando legge il Catechismo del Concilio di Trento le sembra di non avere niente in comune. Perciò non volle il battesimo, pur sentendosi sulla soglia della chiesa cattolica.
Simone Weil cercava di aprire il cristianesimo dall'interno attraverso la lettura simultanea di fonti cristiane e non cristiane. L'indologo Max Müller (che forse influì su di lei) osservava che per ognuno la religione è come la lingua materna, né eguale né rivale di altre lingue, ma da vedere come parte di un vasto insieme. Per vedere bene il cristianesimo nella storia universale, tra le religioni dell'umanità, bisogna paragonarlo non solo con il giudaismo ma con le aspirazioni religiose del mondo intero.
La Weil vede una identità profonda, essenziale, tra le religioni, al di sotto della differenza linguistica, come vede Gandhi. Essa si riferisce a Giovanni 1,9: «... la luce che viene con ogni uomo». Lei intende con piuttosto che in. Questo versetto è fondamentale nella spiritualità dei Quaccheri, a cui Pier Cesare Bori aderì nel 1993, pur senza rinnegare la chiesa cattolica di origine.
Quel versetto evangelico contraddice, per Simone Weil, la teoria cattolica del battesimo. Il Verbo abita in segreto in ogni persona, battezzata o no. È luce, da fuori, che disperde la “tenebra”; ed è seme, innato, che è nesso di continuità tra ordine naturale-creaturale e ordine della grazia, tra Vecchio e Nuovo Testamento. Il cristianesimo può impregnare tutto senza essere totalitario solo se riconosce che la luce naturale è la luce soprannaturale discesa nella natura; che il profano è ispirato dal sacro; che l'arte, la bellezza, discende ed è mossa dalla fede. L'illuminazione è necessaria e sufficiente, anche se non è necessaria l'identificazione della luce del Verbo nel Gesù storico, attraverso la Chiesa. Si va al Padre solo mediante il Verbo, ma non è necessario dare un nome al Verbo, forse neppure a Dio. Per la salvezza è necessario e sufficiente il Logos, lo Spirito, la Luce, che nasce con ogni uomo. Riconoscere il Cristo in Gesù è frutto del Logos stesso, ma non è necessario che accada per ognuno, e comunque può accadere anche fuori e prima della Chiesa e del cristianesimo.
Troviamo una grande professione di fede di Simone Weil: «C'è una realtà fuori del mondo, cioè fuori dello spazio e del tempo, fuori da ogni portata delle facoltà umane. A questa realtà corrisponde al centro del cuore dell'uomo questa esigenza di un bene assoluto che vi abita sempre e che non trova alcun oggetto in questo mondo». È la luce del Prologo di Giovanni, luce del Bene (come quella che attira fuori dalla caverna di Platone). La conoscenza essenziale, la verità essenziale, riguardo a Dio, è che Dio è il Bene. Tutto il resto è secondario . «Dio solo è buono» (Marco 10,18). Il Bene è al di sopra dell'Essere.
Questo pensiero è talmente contrario alla natura che può sorgere solo in un'anima divorata dal fuoco dello Spirito Santo (idea già trovata nei pitagorici, prima di Platone, che non lo apprende da Mosè). Questa categoria del Bene permette alla Weil di criticare la storia di Israele e la storia cristiana, e lo stesso testo biblico, dove c'è la forza, l'idolatria sociale-nazionale di Israele. In Agostino l'idea del bene dipende da un regime teologico ed ecclesiologico, in Simone Weil invece giudica la teologia, Israele e la Chiesa.
Il suo è un cristianesimo critico. La pietra di paragone dell'armonia tra individui e collettività, tra persone e chiesa, è la situazione dell'intelligenza: «La funzione propria dell'intelligenza esige una libertà totale, che implica il diritto di negare tutto, e l'assenza di ogni forma di predominio». Perciò è necessario un cristianesimo in cui la verità e la veracità non siano subordinate all'adesione religiosa, ma siano esse il principio normativo. Non c'è il cristiano e gli altri, ma solo la verità e l'errore.
Su cristianesimo e veracità, Bori richiama la famosa opposizione tra Dostoevskij (preferire Cristo, più della stessa verità) e Tolstoj, che, nella Risposta al Sinodo, scrive: «Chi comincia con l'amare il cristianesimo più della verità amerà poi la sua setta o chiesa più del cristianesimo e finirà per amare se stesso più di ogni altra cosa». Simone Weil denuncia un «totalitarismo della fede» per cui «l'intelligenza deve essere imbavagliata». I mistici accettano l'insegnamento della Chiesa non come verità, ma come un velo dietro cui si trova la verità. Cioè intendono i dogmi non come teoremi ma come metafore. Ci sarebbe una religione dei mistici e l'altra religione. Le tendenze mistiche, razionalistiche, critiche, attorno al cristianesimo, coprono un'area molto vasta (tipico Spinoza). Bori osserva: «Forse è qui la casa spirituale di Simone Weil, e forse qui occorrerebbe ritornare ad imparare».
Quale universalismo dovrà impregnare il nostro linguaggio e il nostro modo d'essere? Non un universalismo di una sola verità, non di chi non ha radici e passione di verità; ma quello di chi aderisce alla propria tradizione, alla luce che ne trae, mentre riconosce la presenza della stessa luce in altre tradizioni.
Conclude Bori dicendo che Simone Weil si allinea ad altri mistici che hanno trasceso dall'interno il proprio limite culturale. Per esempio Al-Hallaj: «Le religioni sono molti rami di un'unica fonte. Non pretendere dunque dall'uomo che ne professi una, ché così si allontanerebbe dalla fonte sicura». E l'induista Kabir Das : i nomi del Signore sono tutti verità; Egli attira tutti i diversamente devoti, che non osano avventurarsi fuori dal tempio e dalla moschea; Egli non dimora nel tempio né nella moschea: «Egli è presente in ogni cosa e in essi stessi».
Enrico Peyretti

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venerdì 24 maggio 2019

TORNA IL TEMA “FEDE E POLITICA”
Molto dibattuto ai tempi del partito cattolico, questo tema era poi uscito di scena. È invece una questione apertissima. Pace, giustizia, libertà, fraternità, uguale dignità di tutte le persone, questi sono i compiti della politica e le speranze della fede
Enrico Peyretti
Pare che papa Francesco intenda indire un Sinodo su “fede e politica”.
E’ utile che nella comunità ecclesiale si raccolgano riflessioni e punti d’appoggio per elaborare oggi questo tema.
Per esempio:
1. La politica è l’arte e le tecniche del vivere bene insieme, cioè in pace, giustizia, libertà, fraternità, quindi nel riconoscimento dell’uguale dignità di tutte le persone.
2. La fede cristiana è fiducia e desiderio di accogliere la buona notizia di Gesù, che è questa: siamo tutti amati dal Padre buono e misericordioso, perciò è possibile a noi tutti vivere insieme in pace e giustizia, nelle singole comunità politiche come nella comunità planetaria dei popoli, perché lo Spirito del Padre è dato a tutte le persone umane, che lo accolgono nella buona volontà.
3. Le altre fedi religiose, o visioni morali della vita, più vissute lungo la storia umana per dare significato ad una buona vita, concordano in profondità attorno al valore degli esseri umani e della natura, e vedono la “regola d’oro” (rispetto reciproco e giustizia, nell’uguale valore di ogni altra persona) come fondamento del vivere insieme.
4. Il cristianesimo concorda profondamente, nell’essenziale, con queste visioni. Il vangelo cristiano è una “profezia” che tende a tradursi in una “sapienza” del buon vivere generoso, un bene comune alle altre più sperimentate visioni e ricerche positive della vita.
5. Le chiese cristiane, e i singoli cristiani, intendono portare in ogni società la promessa e la speranza del vangelo di Gesù, testimoniandolo nella fraternità con tutti, e non vogliono cercare il potere, ma il servizio al bene comune, anzitutto degli ultimi, dei poveri, dei sofferenti.
6. La politica ha bisogno di una “fede”, cioè una fiducia:
– nella possibiltà di una società “dal volto umano”;
– nel valore di tutte le persone umane al di sopra delle cose, del denaro, della forza;
– nel principio che convivere non è dominare o essere dominati, ma “vivere gli uni per gli altri”, e che ogni singola persona si realizza in questo;
– nel sapere rispettare la libertà nella giustizia e la giustizia nella libertà;
– nella possibilità della necessaria pace, che consiste nella resistenza nonviolenta alla prepotenza, e nella soluzione concordata e costruttiva dei conflitti, nel primato del bene comune;
– nella possibilità e dovere di una economia della vita, a servizio delle persone, a liberazione dei poveri, e dunque di una equa distribuzione delle ricchezze non concentrate in posizioni di dominio, e di uno sviluppo che conservi i beni della natura necessari a tutte le vite, nel fondamentale “rispetto per la vita”.
7. La fede dà una buona anima alla politica, senza la minima costrizione, e la buona politica può progressivamente e liberamente attuare nella storia quei beni umani che la fede spera e ama.
Enrico Peyretti

martedì 14 maggio 2019

Profezia e sapienza
negli scritti di Pier Cesare Bori

Enrico Peyretti


Per Servitium. Quaderni di ricerca spirituale, fascicolo su “Quali profeti oggi?”

Il binomio profezia-sapienza ricorre spesso negli scritti di Pier Cesare Bori (1937-2012), studioso fecondo di scienze esegetiche, di storia delle sapienze umane, di filosofia morale e diritti umani, docente nell'Università di Bologna dal 1970, e nel carcere Dozza coi detenuti maghrebini. Bori ha attinto alla radice comune della «pluralità delle vie», ha avuto fiducia nella «luce che illumina ogni uomo» (vangelo di Giovanni 1,9), ha attraversato muri e confini con spirito universalista.
Egli distingueva profezia (la luce, la rivelazione, l'aspetto contemplativo mistico-filosofico) e sapienza (la prassi illuminata, l'aspetto etico e pratico, che sperimenta la verità intuita). (Cfr Per un percorso etico tra culture, Carocci, 2003, p. 16). Scriveva con profonda convinzione: «Il futuro del cristianesimo dipende dalla mistica e dall'etica, l'una e l'altra radicalmente pensate nel rapporto sapienziale con culture diverse dal cattolicesimo» (Dall'immagine alla somiglianza. L'umano come progetto nella tradizione cristiana, Marietti 2013, p. 10).
Il suo pensiero su questo punto mi sembra nodale nei suoi studi e nella sua esperienza spirituale (della quale dà conto, alla fine della vita, in CV 1937-2012, Il Mulino 2012, un “curriculum vitae”, intensa autobiografia culturale e interiore, volume che contiene anche tutta la sua ampia bibliografia). Perciò ritengo utile raccogliere dai suoi scritti alcuni passi e frammenti che illustrano quel concetto.



La parola che eccede, l'esperienza che traduce

L'espressione più chiara di Bori su profezia e sapienza nella Bibbia mi pare in Per un consenso etico tra culture (Marietti 1995): «Nella Bibbia l'oggetto fondamentale, la “tradizione della legge”, il racconto del dono della legge e della sua ricezione, ci è significata sotto due punti di vista. Da un lato il punto di vista profetico, che esalta il ruolo della parola potente che si manifesta in tempi, luoghi eccezionali, con mediatori carismatici, i profeti appunto che “parlano al posto di”, eccedendo la tradizione, la cultura, il sapere esistente; dall'altro il punto di vista sapienziale, che riflette il bisogno che la parola eccezionale sia tradotta, attraverso l'opera di maestri, in conoscenza e in disciplina ordinarie, in esperienze comuni e comunicabili, in forza della preliminare convinzione che nella coscienza umana si diano una evidenza e una argomentabilità del bene, esternamente attestato dalla tradizione, e che bene e male ricevano anzitutto una retribuzione immanente» (pp. 38-39).
Nella Introduzione ai “testi antichi di tradizione scritta”, la cui lettura ha costituito il corso di Filosofia morale, raccolti nel libro Per un percorso etico tra culture (Carocci, seconda edizione 2003), Bori scrive: «L'aspetto imperativo è pure dominante nella cultura biblica, dove i profeti che si succedono presentano i voleri di Dio indipendentemente da ogni aspettativa umana. Ma l'alternarsi di profezia e sapienza, entrambe essenziali nella Bibbia, mostra la presenza di un'altra prospettiva, in cui ciò che risuona come imperativo dall'alto viene presentato come una voce che proviene da un bisogno umano, in cui il dono è presentato come la risposta ad un bisogno e il risultato di una ricerca comune a tutta l'umanità, e in cui la felicità è conseguenza normale dell'obbedienza» (p. 15). La profezia è la guida autorevole di Dio, che incontra il desiderio e la ricerca umana di bene, la sapienza.


E-statica e in- statica

Da alcune lettere del 1994 raccolgo dei passi significativi, pur nella forma immediata epistolare.
In questa trovo una interessante chiarificazione dei concetti: «A proposito di sapienza e profezia. La domanda potrebbe essere: qual è la situazione prototipica della profezia (di quella sapienziale ho già detto, è l'istruzione materna fondamentale). È la situazione della creatività, è quando il bambino dice parole sue, rispondendo all'affetto con quello che ha appreso, spesso attraverso il gioco, la cantilena, la poesia, l'indovinello… (Vedere Gunkel, I profeti). L'elemento essenziale è comunque un far proprio e trasmettere un sapere altrui in forma e forza propria (in una certa misura). Nel Nuovo Testamento: “ti sei procacciato una lode attraverso bambini e lattanti”; “ti lodo o Padre perché l'hai rivelato ai piccoli” (a questo punto egli è come loro: egli esulta, perché la rivelazione fatta a lui, è fatta anche e soprattutto ai piccoli); “esultò il bambino nel mio seno”. Forse l'elemento comune è l'”esultare”, agalliaomai (esultare, cfr. Grande Lessico del NT) sicuramente uno dei registri profetici (l'altro, opposto a quello euforico, è quello depressivo, lamentoso, o aggressivo: “ahimé”, o “guai!”). Si tratta comunque di diverse tonalità all'interno di un unico affetto (da evitare la svalutazione spinoziana dei sentimenti, dell'immaginazione)» (1° febbraio).
«Continuo a riflettere sulla profezia. Ho letto Gunkel, I profeti e “esultare” nel GLNT. L'elemento e-statico è centrale, quello che fa parlare a nome di Dio, la sapienza è in-statica, è parlare a nome della nostra esperienza e riflessione. Sono due modi di approccio alla legge, dall'esterno e dall'interno». (5 febbraio).
«Il punto fondamentale, la mia “scoperta” è che “il desiderio è desiderio di sapienza”, e cioè che “non c'è opposizione tra desiderio e disciplina”. Questo, se ho capito bene il Simposio, e basandomi sul rapporto madre-bambino, rende inutili tutte le preoccupazioni di Kant contro le motivazioni eudemonistiche» ( 18 maggio) .
In precedenza, riferendo l'intervento di un intellettuale ebreo nella sua lezione, trova «interessante lo sforzo di spiegare la categoria della rivelazione (per contrapposto alla filosofia e alla sapienza) come il momento iniziale, non razionale, l'innesco della riflessione. Coincide con le mie riflessioni sulla profezia (perfino il ricordo di Bergson)» (19 marzo).
Della «complementarietà e irresolubilità reciproca della profezia e della sapienza», parla nel resoconto di un convegno su “Il culto in spirito e verità” (26 maggio 1995)

La luce che illumina ogni uomo

Bori aderì alla Società degli Amici, i Quaccheri, nel 1993, «senza alcun bisogno di compiere una rottura formale con la Chiesa cattolica», perché «la duplice appartenenza è abbastanza normale tra gli Amici, oggi» (v. CV, pp. 130-131). Sui Quaccheri egli tenne una conferenza a Torino, il 22 maggio 2001, nel Centro Evangelico di cultura. Nei miei appunti, leggo: «L'Islam è una profetologia, il quaccherismo è profetismo cristiano». «Cristo profeta (da Dt 18, 15-22: “susciterò un profeta come te...”): nell'esperienza post-pasquale Cristo in persona viene a insegnare al suo popolo, non i pastori, neppure la Bibbia. Gv 1,9: Cristo è “la luce che illumina ogni uomo”».
Posso indicare in Universalismo come pluralità delle vie (Marietti 1820, Genova-Milano 2004) alcune pagine su Gesù profeta e altre su Gesù “più che profeta”. Come profeta si configura sulla linea della tradizione profetica ebraica, con l'autorità e la potenza di Dio, oltre la cultura etico-religiosa vigente, con un ruolo critico che richiama una concezione superiore della divinità, che propone un'etica al di là del ritualismo, con una speciale attenzione agli scartati, avvalorando con gesti terapeutici la propria missione, con diffidenza verso le mediazioni del potere politico e religioso, confidando nella potenza indifesa della parola affidata, a rischio della propria vita (pp. 63-65).

La giustizia diventa grazia

Ma altre pagine mostrano come «Gesù andò più in là». Rispetto all'ascetismo apocalittico di Giovanni, Gesù passa ad una aperta commensalità, si identifica con la Sapienza che grida per le strade e invita tutti al suo banchetto (Proverbi 1,20; 8,1 s; 9, 1-6). Le più antiche tradizioni vedono questo Dio della bontà misericordiosa in una figura femminile, la Sophìa, Sapienza divina. Il suo ambiente vitale è la comunione di mensa di Gesù con pubblicani, prostitute, peccatori. Al Gesù profeta, nella sua “andata verso il popolo” si affaccia un altro modello, quello sapienziale. La profezia di Gesù si fa sapienza quando alla radicalizzazione sino all'impossibile della richiesta morale si aggiunge l'abbandono assoluto al Padre. Il risultato paradossale è che i piccoli, gli ignoranti, quelli non “perbene”, gli ultimi, sono i più disposti a capire la profezia, a entrare nel ”Regno”. La radicalizzazione rende tutti trasgressori. Ma quando al “tu devi” corrisponde un “non posso” creaturale, questo diventa un appello irresistibile di cui il creatore si fa carico, e «la giustizia diventa grazia, l'inesorabile misericordia». Allora, il Regno è già qui e ora, il banchetto è “per tutti”. La parola profetica si fa carne: entrare nel Regno diventa aderire quasi fisicamente a questa persona (non senza problemi relativi al culto di Gesù e all'universalismo) (pp, 66-70).
Avrei altri riferimenti, in tema di profezia e sapienza, negli scritti di Pier Cesare Bori, a cui mi ha legato un'amicizia e un ascolto di otre 50 anni, ma mi limito ora a rinviare al suo già citato CV, scritto negli ultimi mesi di vita, dove si trovano diversi cenni sparsi su questo tema a lui caro.

La presenza diffusa e il sofferto divieto delle immagini

Vorrei però chiudere questi appunti con una confessione travagliata di Pier Cesare, in una sua lettera dell'agosto 1994. «Quel che mi rimprovero in questi giorni – o meglio rivolgo verso di me il rimprovero che immagino mi rivolgerebbero gli amici che appartengono al cristianesimo tradizionale – è di non sapere più pregare Gesù, ma di rivolgermi solo a Dio, o meglio al suo spirito, alla sua vita, alla sua sapienza, alla sua luce. In questo momento infatti mi sembra più giusto pensare a una presenza diffusa dello spirito di sapienza e di profezia attraverso la storia: Mosè, Gesù, Mohammed. Non posso più pensare che solo Gesù sia il logos, e penso che questo esclusivismo, necessario forse in altri tempi (tempi miei e tempi di storia del cristianesimo) sia oggi ingiusto e dannoso. E perciò mi pare in coscienza più giusto e coerente ricorrere – quando ne sento il bisogno, e sono più che mai bisognoso – a formulazioni più comprensive, che non escludono però il pensiero e la comunione con Gesù come maestro ed esempio più vicino. E tuttavia quel che intellettualmente è chiaro, emotivamente è una perdita che cagiona scrupoli e sofferenza. Ma – mi dico – è la sofferenza del divieto delle immagini cui presto o tardi ogni percorso spirituale deve arrivare. Devo pensare a questo come un travaglio di distacco e di crescita».

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martedì 7 maggio 2019

Dissacrare i confini, costruire contatti
 
Seminario “I confini della disobbedienza”, 6 maggio 2019, Polo del Novecento, Torino
Promosso dall'Istituto di Studi Storici Gaetano Salvemini e dal Centro Studi Sereno Regis

Intervento di Enrico Peyretti: “Dissacrare i confini, costruire contatti”

Intendo il tema datomi come interrogazione su quanto obbedire e quanto disobbedire ai confini. Quindi: "dissacrare" i confini , e però valorizzarli come limite e come punti di incontro: da con-fini a con-tatti (territoriali, culturali, personali)
Riflettendo sui confini, vediamo: 1) limiti del potere 2) confini sul territorio 3) confini tra noi persone 4) confini dentro di noi persone
1 – I confini del potere
ll confine più importante è quello posto al potere: nessun potere legittimo è illimitato; nessuno ha tutto il potere sugli altri; il potere esercitato senza limiti è prepotenza, offesa, violenza. Il potere, di fatto, tende ad espandersi, a sopraffare: il primo problema relativo al potere, nella vita politica, è dargli dei limiti chiari.
Lo stato costituzionale di diritto è tale perché nessun potere è assoluto, nemmeno il potere del popolo: art. 1 Cost. “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
La democrazia è tale non solo perché il potere è del popolo, ma perché il popolo non può fare quello tutto quello che vuole: non può opprimere le minoranze, non può condannare a morte, né a pene che siano “trattamenti contrari al senso di umanità” (art. 27 Cost.)
Sovrano vuol dire “superiorem non recognoscens”: ma nessuno è al di sopra di tutto, nemmeno il popolo. Populismo e sovranismo sono la pretesa di opprimere altri (all'interno o all'esterno) perché ogni potere senza regole e limiti è ingiusto.
Nemmeno il potere della maggioranza è assoluto: sarebbe “dittatura della maggioranza” (Tocqueville). La democrazia non consiste nel dare tutto alla maggioranza, ma nel mantenere la libertà e le possibilità delle minoranze. La democrazia non è tanto “comanda la maggioranza”, quanto “la maggioranza non stracomanda sulle minoranze”.
La democrazia è un sistema intelligente, perché tutela e coltiva sempre le alternative, dal momento che niente, neppure la migliore giustizia, è definitiva e completa. La giustizia è più della legge, perché è l'obiettivo e il limite della legge. La giustizia non è individuata sempre dalla maggioranza, ma dal lavoro continuo, ininterrotto, illimitato, della ragione e della coscienza, nel dialogo umano universale, libero, critico, sperimentale, correttivo, amante dell'umanità.
L'unica cosa al mondo che non ha limiti e confini è questa ricerca e autocorrezione continua. Il cammino verso la giustizia, per vederla e praticarla, è il cammino umano infinito. È la dimensione infinita della finitezza umana. Quindi la nostra alta dignità.
Nessuno che ha una funzione di potere può disobbedire ai confini del potere. Chi ha una funzione di potere deve obbedire ai confini del potere.

2 – Confini sul territorio
Erano dichiarati “sacri” i confini della Patria, perciò ad essi si sacrificavano vite umane, per difenderli, o per allargarli con la conquista. Ritornano falsamente sacri, ora che li si difende contro profughi e migranti. Mentre i profughi hanno bisogno di noi, noi abbiamo bisogno dei migranti.
È venuta l'ora, nel mondo unificato materialmente, che i confini siano alleggeriti, siano dissacrati e naturalizzati, perché viene il tempo della vicinanza e della convivenza. È una malvagia politica quella che indurisce i confini, li rende spinosi e taglienti, cementificati, e chiude i porti – queste braccia aperte, che sono sempre stati e restano sacri per natura, come le vite che vi cercano rifugio; queste aperture da qui ad ogni orizzonte – negandovi l'approdo a chi ha bisogno: crimine di lesa umanità.
È difficile dire quanto questa provincializzazione e disumanizzazione del potere, e la sua falsità, superi le violenze politiche della storia passata. Importante, davanti a una tale politica, è soffrire e reagire: soffrire com-passione per gli esclusi, reagire con in-sofferenza e in-dignazione verso gli escludenti, e con la loro condanna politica.
Oggi, una reazione sana compare, comincia la resistenza Si moltiplicano le analisi sulla manovra cinica che ha gonfiato una falsa paura negli strati deboli e impoveriti, contro i più poveri. Ma più importanti sono le prassi civili di accoglienza, di apertura mentale e cordiale alla nuova inevitabile positiva vicinanza e convivenza dei popoli.
La vicinanza è accresciuta, per necessità, dalle tirannie e dalle guerre che scacciano i poveri dalle loro case e terre, dal degrado della terra, che affama, e spinge dove si spera di vivere meglio; ma è dovuta anche – in positivo - alla comunicazione tra i popoli e al dialogo tra le culture e le forme di vita.
I confini duri, esaltati, tagliano l'umanità come il machete nel genocidio in Rwanda. Il confine più duro è il “fronte” di guerra, dove una parte nega e colpisce l'altra. Ma oggi la guerra non è più su un confine territoriale, è universalizzata, dal cielo alla terra, da vicino e da lontano, contro tutta una terra abitata: è guerra contro i popoli. La distruttività è totale, minacciati siamo tutti. Il confine di guerra è dovunque, la guerra è nella volontà di potenza e di rapina, è nei calcoli disumani, nella tecnocrazia senza scopi umani.
Si può sperare, si deve sperare attivamente - se riusciremo ad evitare la catastrofe nucleare e ambientale, e a spegnere gli spiriti di odio - che l'umanità proceda all'unità nella diversità, all'universalismo diversificato, alla pluralità delle vie verso il compimento umano.
Ma ora, nell'immediato, bisogna disobbedire alle politiche crudeli, soprattutto liberare i poveri dall'inganno del pifferaio che li scatena contro altri poveri, per usarli come servi del suo potere. Dare al popolo un nemico, quello che sta di là dal fiume, serve ad adescarne gli istinti più rozzi, ignoranti della nuova realtà. Il tema politico è più che mai: quale umanità? Forse, se ci aiutiamo tutti, riusciremo. La politica è il vivere insieme, quindi è coscienza di umanità, prima che potere, prima che azione.
Ai confini induriti, inferociti, bisogna disobbedire, in nome dell'unità umana: molteplice e dialettica, ma unità. Questo è il prodigio e il valore della civiltà planetaria: liberamente insieme nella libera diversità.

3 - Confini tra noi persone
Ecco un cammino per noi: lo straniero diventa un vicino, il confine si chiama vicinato. Ogni con-fine è un con-tatto, occasione di incontro. Il limite mio e il limite tuo com-baciano. Dobbiamo rispettarci, e possiamo anche toccarci, uscire dalla miseria della distanza e chiusura.
Questo vale anche per i nostri corpi, che si toccano felicemente quando riconoscono il limite e il rispetto, l'alterità. L'alterità ci dà consistenza più che estraneità. La violenza fisica, criminale, sessuale, è disobbedienza al confine-diritto personale, che è sacro, in quanto superiore ad ogni volontà di potenza.
Lo scontro è la negazione dell'incontro. Il nemico mi nega nel mio essere, mi annulla, come io annullo lui. Fare fronti di inimicizia, fare nemico il diverso, chiamare “invasione” l'incontro, è tagliare l'umanità: non rompe solo la comunità dei popoli, ma la nostra personale umanità. La quale si nutre alla fonte dell'umanità universale, madre di tutti noi, fisicamente, culturalmente, spiritualmente.
I confini personali distinguono ma con-giungono, con-giungono ma non con-fondono. Io devo limitarmi perché tu viva, per non invaderti, “occuparti”; e così tu devi limitarti per non “prendermi”, occuparmi, conquistarmi. Libertà e solidarietà sono una congiunzione articolata, come la “insocievole socievolezza” vista da Kant, come le articolazioni del nostro corpo, capacità di differente azione. Né l'una né l'altra sono tutto. Sono tutto insieme.
Io vivo grazie a te, se mi riconosci e ti fermi davanti a me. Tu vivi grazie a me se ti riconosco e mi fermo davanti a te. Mi fermo, ti fermi, dove ci incontriamo, dove facciamo un insieme di liberi non solitari, nel dialogo e nella collaborazione.
Ci dice Emmanuel Levinas: si ha coscienza di sé solo nell'incontro con l'altro. Il volto dell'altro è specchio del mio. Non vedo e non ho coscienza del mio volto, del mio essere, se non vedendo e riconoscendo il tuo. Un esempio banale, un po' comico: io vedo nel volto del mio coetaneo il mio invecchiare, che non vedo in me stesso.
Tra me e te c'è un confine, che rispetto, che non valico, ma ecco che io mi ritrovo anche di là dal confine, riconoscendomi in te. E viceversa. Differenti, abbiamo in comune l'essere umani. Su questo si basa l'universale “regola d'oro”, il principio etico presente, in formulazioni assai simili, in tutte le civiltà, le morali, le religioni: “Tratta gli altri come vorresti essere trattato tu. Non fare agli altri quel che non vorresti che fosse fatto a te”. La ragione di questo respiro per vivere, è l'uguaglianza di valore tra tutti noi, attraverso tutte le possibili differenze; è l'unità nell'alterità.
Sul tema dei confini e contatti tra le culture, tra le spiritualità umane, ci limitiamo ora a segnalare quella linea di pensiero universalista-pluralista, fondamento della pace plurale, espressa da alcune maggiori voci, attraverso tempi e luoghi, nelle culture greco-romana, cinese, indiana, biblica, cristiana, islamica, rinascimentale, riformata-evangelica, moderna pluralista, gandhiana, ecumenica (un autore che ha ricapitolato e promosso questo pensiero è Pier Cesare Bori, Per un percorso etico tra culture, Carocci 2003; Pluralità delle vie, Feltrinelli, 2000; Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 2004).
I confini – territoriali, culturali, sociali, interpersonali – sono indicatori delle ricca colorata varietà umana. Usare i confini come taglienti e negatori vuol dire offendere l'umanità in ciascuna persona e in ciascuna forma di civiltà umana.
In questo cammino di civilizzazione, l'Italia può vantare il grande art. 3 della Costituzione, che afferma l'uguale dignità delle persone, senza alcuna discriminazione, senza tagli che ammettano alcuni ed escludano altri. Se c'è qualcosa di sacro (senza uso di questo termine) nella nostra Costituzione, è questo art. 3, così forte che impegna la Repubblica, cioè la politica, cioè obbliga ogni governo, a «rimuovere gli ostacoli» che di fatto limitano questo valore, perciò sono indebiti confini dell'eguaglianza: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge», con esclusione di ogni discriminazione. Le discriminazioni escluse sono tali che qui si deve intendere “cittadini” non in senso nazionale, di sangue, né burocratico, di registrati allo stato civile, come non è da intendere i cittadini uomini e non donne, ma nel semplice significato di esseri umani.
Tanto è vero che, poiché troviamo tra le distinzioni escluse costituzionalmente anche la razza, anche le condizioni personali e sociali, dobbiamo giudicare che una politica governativa, come l'attuale, che riduca a reato la condizione dello straniero non registrato, che respinga migranti bisognosi di riparo e li sequestri fuori dai “porti chiusi”, che respinga profughi in paesi che li maltrattano gravemente, sia una politica che viola profondamente l'art. 3 della Costituzione, perciò davvero una politica illegittima, da contrastare, a cui resistere e dkisobbedire, in forma democratica e nonviolenta, cioè con la forza della non-collaborazione.
E ciò, nonostante il consenso popolare contrario al patto costituzionale. Così come nessun consenso popolare potrebbe introdurre la pena di morte, esclusa dall'art. 27 Cost. (tolta anche con la legge 25 ottobre 2007 l'eccezione crudele delle leggi militari di guerra).
Ecco, confine - nel senso di limite invalicabile che l'Italia si è dato in Costituzione, e che non possiamo superare senza violare qualcosa di veramente sacro - è la discriminazione tra gli esseri umani, perciò la riduzione dei diritti personali inviolabili degli stranieri. Davanti a tale violazione la politica deve retrocedere. Superare questo confine è perdere senso umano. Come la ringhiera del balcone è il vero salutare confine del mio spazio abitabile, vivibile. Non mi impedisce: mi protegge. Il divieto costituzionale protegge la civiltà etico-politica italiana dal precipitare nell'imbarbarimento neo-fascista e nazional-razzista.
I limiti delle possibilità pratiche di accoglienza di profughi e migranti sono comprensibili, ma non è giustificabile, davanti alla legge fondamentale della Patria, che si riducano volontariamente quelle possibilità, mancando a doveri di solidarietà nella Patria umana, che costituiscono la civiltà di un popolo.
Ai confini escludenti e respingenti bisogna disobbedire. Ai confini punti d'incontro bisogna collaborare.

4 – Confini dentro di noi
Ma il tema non è solo politico. C'è un confine anche dentro di noi. Io stesso sono altro da me, ospite, migrante, estraneo a me stesso” (Carlo Bolpin “Io straniero a me stesso”, rivista Esodo n.1, 2019). Qualcuno mi avverte: guardiamo anche il Salvini che è in noi. Co-scienza, ri-flessione, de-cisione: sono atti di ritorno su noi stessi, atti di controllo e di scelta sul confine tra ciò che vogliamo e ciò che non vogliamo essere, tra ciò che dobbiamo o non dobbiamo essere; sono atti di controllo sul vero o il falso di noi stessi, sulla differenza tra umano e disumano, tra giusto e ingiusto in noi, perché la decisione intima personale si rifletta anche, mediante la collaborazione morale, nell'ethos comune e nella politica.
Se non chiariamo il confine personale interno, non abbiamo accesso alla coscienza umana universale. Allora si ricorre a identitarismi parziali e contrapposti, a falsi universali, per esempio, all'idea del suprematismo razziale bianco, oggi rappresentata da uomini di potere tanto quanto dai terroristi. Dal barbaro nazista Blut und Boden («sangue e suolo», «sangue e terra») al rozzo “America first”, “Prima gli italiani”, “Prima l'Italia” c'è la continuità di una miserabile riduzione umana, che tutti ci offende.
La coscienza umana universale, assimilata nelle coscienze personali, è la più profonda garanzia del rispetto anche dei propri diritti e dignità, dei diritti e della dignità del proprio popolo, cultura, civiltà. Io mi sento ben riconosciuto e rispettato nella mia dignità e diritti, se avverto che tu hai coscienza della dignità di ogni altra persona umana, prima di me. Così, la tua garanzia del mio rispetto per te, ben prima che nella legge, sta nella mia coscienza del valore di ogni persona.
Oggi - nell'incontro dei popoli, nel comune planetario rischio dei danni ambientali irreparabili, e delle guerre alimentate dai suprematismi e dal libero criminale mercato di armi - l'opera politica e civile più necessaria è abbassare i confini escludenti, gettare ponti di conoscenza, di riconoscimento e di accoglienza solidale, tra le culture, tra le persone, perché il destino umano è sempre più comune, inseparabile. A questo argine universale alla disumanizzazione, è nostro stringente dovere, e anche sana convenienza, obbedire attivamente.
Enrico Peyretti, 6 maggio 2019