Profezia
e sapienza
negli
scritti di Pier Cesare Bori
Enrico
Peyretti
Per
Servitium. Quaderni di ricerca spirituale, fascicolo su “Quali
profeti oggi?”
Il
binomio profezia-sapienza ricorre spesso negli scritti di Pier Cesare
Bori (1937-2012), studioso fecondo di scienze esegetiche, di storia
delle sapienze umane, di filosofia morale e diritti umani, docente
nell'Università di Bologna dal 1970, e nel carcere Dozza coi
detenuti maghrebini. Bori ha attinto alla radice comune della
«pluralità
delle vie», ha avuto fiducia nella «luce che illumina ogni uomo»
(vangelo di Giovanni 1,9), ha attraversato muri e confini con spirito
universalista.
Egli
distingueva profezia (la luce, la rivelazione, l'aspetto contemplativo mistico-filosofico) e sapienza (la prassi illuminata,
l'aspetto etico e pratico, che sperimenta la verità intuita). (Cfr
Per
un percorso etico tra culture,
Carocci, 2003, p. 16). Scriveva con profonda convinzione:
«Il futuro del cristianesimo dipende dalla mistica e dall'etica,
l'una e l'altra radicalmente pensate nel rapporto sapienziale con
culture diverse dal cattolicesimo» (Dall'immagine
alla somiglianza. L'umano come progetto nella tradizione cristiana,
Marietti 2013, p. 10).
Il
suo pensiero su questo punto mi sembra nodale nei suoi studi e nella
sua esperienza spirituale (della quale dà conto, alla fine della
vita, in CV
1937-2012,
Il Mulino 2012, un “curriculum vitae”, intensa autobiografia
culturale e interiore, volume che contiene anche tutta la sua ampia
bibliografia). Perciò ritengo utile raccogliere dai suoi scritti
alcuni passi e frammenti che illustrano quel concetto.
La
parola che eccede, l'esperienza che traduce
L'espressione
più chiara di Bori su profezia e sapienza nella Bibbia mi pare in
Per
un consenso etico tra culture
(Marietti 1995): «Nella
Bibbia l'oggetto fondamentale, la “tradizione della legge”, il
racconto del dono della legge e della sua ricezione, ci è
significata sotto due punti di vista. Da un lato il punto di vista
profetico, che esalta il ruolo della parola potente che si manifesta
in tempi, luoghi eccezionali, con mediatori carismatici, i profeti
appunto che “parlano al posto di”, eccedendo la tradizione, la
cultura, il sapere esistente; dall'altro il punto di vista
sapienziale, che riflette il bisogno che la parola eccezionale sia
tradotta, attraverso l'opera di maestri, in conoscenza e in
disciplina ordinarie, in esperienze comuni e comunicabili, in forza
della preliminare convinzione che nella coscienza umana si diano una
evidenza e una argomentabilità del bene, esternamente attestato
dalla tradizione, e che bene e male ricevano anzitutto una
retribuzione immanente» (pp. 38-39).
Nella
Introduzione ai “testi antichi di tradizione scritta”, la cui
lettura ha costituito il corso di Filosofia morale, raccolti nel
libro Per
un percorso etico tra culture
(Carocci, seconda edizione 2003), Bori scrive: «L'aspetto
imperativo è pure dominante nella cultura biblica, dove i profeti
che si succedono presentano i voleri di Dio indipendentemente da ogni
aspettativa umana. Ma l'alternarsi di profezia e sapienza, entrambe
essenziali nella Bibbia, mostra la presenza di un'altra prospettiva,
in cui ciò che risuona come imperativo dall'alto viene presentato
come una voce che proviene da un bisogno umano, in cui il dono è
presentato come la risposta ad un bisogno e il risultato di una
ricerca comune a tutta l'umanità, e in cui la felicità è
conseguenza normale dell'obbedienza» (p. 15). La profezia è la
guida autorevole di Dio, che incontra il desiderio e la ricerca umana
di bene, la sapienza.
E-statica
e in- statica
Da
alcune lettere del 1994 raccolgo dei passi significativi, pur nella
forma immediata epistolare.
In
questa trovo una interessante chiarificazione dei concetti: «A
proposito di sapienza e profezia. La domanda potrebbe essere: qual è
la situazione prototipica della profezia (di quella sapienziale ho
già detto, è l'istruzione materna fondamentale). È la situazione
della creatività, è quando il bambino dice parole sue, rispondendo
all'affetto con quello che ha appreso, spesso attraverso il gioco, la
cantilena, la poesia, l'indovinello… (Vedere Gunkel, I
profeti).
L'elemento essenziale è comunque un far proprio e trasmettere un
sapere altrui in forma e forza propria (in una certa misura). Nel
Nuovo Testamento: “ti sei procacciato una lode attraverso bambini e
lattanti”; “ti lodo o Padre perché l'hai rivelato ai piccoli”
(a questo punto egli è come loro: egli esulta, perché la
rivelazione fatta a lui, è fatta anche e soprattutto ai piccoli);
“esultò il bambino nel mio seno”. Forse l'elemento comune è
l'”esultare”, agalliaomai
(esultare, cfr. Grande Lessico del NT) sicuramente uno dei registri
profetici (l'altro, opposto a quello euforico, è quello depressivo,
lamentoso, o aggressivo: “ahimé”, o “guai!”). Si tratta
comunque di diverse tonalità all'interno di un unico affetto (da
evitare la svalutazione spinoziana dei sentimenti,
dell'immaginazione)»
(1°
febbraio).
«Continuo
a riflettere sulla profezia. Ho letto Gunkel, I
profeti
e “esultare” nel GLNT. L'elemento e-statico è centrale, quello
che fa parlare a nome di Dio, la sapienza è in-statica, è parlare a
nome della nostra esperienza e riflessione. Sono due modi di
approccio alla legge, dall'esterno e dall'interno».
(5 febbraio).
«Il
punto fondamentale, la mia “scoperta” è che “il desiderio è
desiderio di sapienza”, e cioè che “non c'è opposizione tra
desiderio e disciplina”. Questo, se ho capito bene il Simposio,
e basandomi sul rapporto madre-bambino, rende inutili tutte le
preoccupazioni di Kant contro le motivazioni eudemonistiche» ( 18
maggio) .
In
precedenza, riferendo l'intervento di un intellettuale ebreo nella
sua lezione, trova «interessante
lo sforzo di spiegare la categoria della rivelazione (per
contrapposto alla filosofia e alla sapienza) come il momento
iniziale, non razionale, l'innesco della riflessione. Coincide con le
mie riflessioni sulla profezia (perfino il ricordo di Bergson)»
(19
marzo).
Della
«complementarietà
e irresolubilità reciproca della profezia e della sapienza»,
parla nel resoconto di un convegno su “Il culto in spirito e
verità” (26 maggio 1995)
La
luce che illumina ogni uomo
Bori
aderì alla Società degli Amici, i Quaccheri, nel 1993, «senza
alcun bisogno di compiere una rottura formale con la Chiesa
cattolica»,
perché «la duplice appartenenza è abbastanza normale tra gli
Amici, oggi» (v. CV,
pp. 130-131). Sui Quaccheri egli tenne una conferenza a Torino, il 22
maggio 2001, nel Centro Evangelico di cultura. Nei miei appunti,
leggo: «L'Islam
è una profetologia, il quaccherismo è profetismo cristiano».
«Cristo
profeta (da Dt 18, 15-22: “susciterò un profeta come te...”):
nell'esperienza post-pasquale Cristo in persona viene a insegnare al
suo popolo, non i pastori, neppure la Bibbia. Gv 1,9: Cristo è “la
luce che illumina ogni uomo”».
Posso
indicare in Universalismo
come pluralità delle vie
(Marietti 1820,
Genova-Milano 2004) alcune pagine su Gesù profeta e altre su Gesù
“più che profeta”. Come profeta si configura sulla linea della
tradizione profetica ebraica, con l'autorità e la potenza di Dio,
oltre la cultura etico-religiosa vigente, con un ruolo critico che
richiama una concezione superiore della divinità, che propone
un'etica al di là del ritualismo, con una speciale attenzione agli
scartati, avvalorando con gesti terapeutici la propria missione, con
diffidenza verso le mediazioni del potere politico e religioso,
confidando nella potenza indifesa della parola affidata, a rischio
della propria vita (pp. 63-65).
La
giustizia diventa grazia
Ma
altre pagine mostrano come «Gesù andò più in là». Rispetto
all'ascetismo apocalittico di Giovanni, Gesù passa ad una aperta
commensalità, si identifica con la Sapienza che grida per le strade
e invita tutti al suo banchetto (Proverbi 1,20; 8,1 s; 9, 1-6). Le
più antiche tradizioni vedono questo Dio della bontà misericordiosa
in una figura femminile, la Sophìa, Sapienza divina. Il suo ambiente
vitale è la comunione di mensa di Gesù con pubblicani, prostitute,
peccatori. Al Gesù profeta, nella sua “andata verso il popolo”
si affaccia un altro modello, quello sapienziale. La profezia di Gesù
si fa sapienza quando alla radicalizzazione sino all'impossibile
della richiesta morale si aggiunge l'abbandono assoluto al Padre. Il
risultato paradossale è che i piccoli, gli ignoranti, quelli non
“perbene”, gli ultimi, sono i più disposti a capire la profezia,
a entrare nel ”Regno”. La radicalizzazione rende tutti
trasgressori. Ma quando al “tu devi” corrisponde un “non posso”
creaturale, questo diventa un appello irresistibile di cui il
creatore si fa carico, e «la giustizia diventa grazia, l'inesorabile
misericordia». Allora, il Regno è già qui e ora, il banchetto è
“per tutti”. La parola profetica si fa carne: entrare nel Regno
diventa aderire quasi fisicamente a questa persona (non senza
problemi relativi al culto di Gesù e all'universalismo) (pp, 66-70).
Avrei
altri riferimenti, in tema di profezia e sapienza, negli scritti di
Pier Cesare Bori, a cui mi ha legato un'amicizia e un ascolto di otre
50 anni, ma mi limito ora a rinviare al suo già citato CV,
scritto negli ultimi mesi di vita, dove si trovano diversi cenni
sparsi su questo tema a lui caro.
La
presenza diffusa e il sofferto divieto delle immagini
Vorrei
però chiudere questi appunti con una confessione travagliata di Pier
Cesare, in una sua lettera dell'agosto 1994. «Quel che mi rimprovero
in questi giorni – o meglio rivolgo verso di me il rimprovero che
immagino mi rivolgerebbero gli amici che appartengono al
cristianesimo tradizionale – è di non sapere più pregare Gesù,
ma di rivolgermi solo a Dio, o meglio al suo spirito, alla sua vita,
alla sua sapienza, alla sua luce. In questo momento infatti mi sembra
più giusto pensare a una presenza diffusa dello spirito di sapienza
e di profezia attraverso la storia: Mosè, Gesù, Mohammed. Non posso
più pensare che solo Gesù sia il
logos, e penso che questo esclusivismo, necessario forse in altri
tempi (tempi miei e tempi di storia del cristianesimo) sia oggi
ingiusto e dannoso. E perciò mi pare in coscienza più giusto e
coerente ricorrere – quando ne sento il bisogno, e sono più che
mai bisognoso – a formulazioni più comprensive, che non escludono
però il pensiero e la comunione con Gesù come maestro ed esempio
più vicino. E tuttavia quel che intellettualmente è chiaro,
emotivamente è una perdita che cagiona scrupoli e sofferenza. Ma –
mi dico – è la sofferenza del divieto delle immagini cui presto o
tardi ogni percorso spirituale deve arrivare. Devo pensare a questo
come un travaglio di distacco e di crescita».
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