martedì 14 maggio 2019

Profezia e sapienza
negli scritti di Pier Cesare Bori

Enrico Peyretti


Per Servitium. Quaderni di ricerca spirituale, fascicolo su “Quali profeti oggi?”

Il binomio profezia-sapienza ricorre spesso negli scritti di Pier Cesare Bori (1937-2012), studioso fecondo di scienze esegetiche, di storia delle sapienze umane, di filosofia morale e diritti umani, docente nell'Università di Bologna dal 1970, e nel carcere Dozza coi detenuti maghrebini. Bori ha attinto alla radice comune della «pluralità delle vie», ha avuto fiducia nella «luce che illumina ogni uomo» (vangelo di Giovanni 1,9), ha attraversato muri e confini con spirito universalista.
Egli distingueva profezia (la luce, la rivelazione, l'aspetto contemplativo mistico-filosofico) e sapienza (la prassi illuminata, l'aspetto etico e pratico, che sperimenta la verità intuita). (Cfr Per un percorso etico tra culture, Carocci, 2003, p. 16). Scriveva con profonda convinzione: «Il futuro del cristianesimo dipende dalla mistica e dall'etica, l'una e l'altra radicalmente pensate nel rapporto sapienziale con culture diverse dal cattolicesimo» (Dall'immagine alla somiglianza. L'umano come progetto nella tradizione cristiana, Marietti 2013, p. 10).
Il suo pensiero su questo punto mi sembra nodale nei suoi studi e nella sua esperienza spirituale (della quale dà conto, alla fine della vita, in CV 1937-2012, Il Mulino 2012, un “curriculum vitae”, intensa autobiografia culturale e interiore, volume che contiene anche tutta la sua ampia bibliografia). Perciò ritengo utile raccogliere dai suoi scritti alcuni passi e frammenti che illustrano quel concetto.



La parola che eccede, l'esperienza che traduce

L'espressione più chiara di Bori su profezia e sapienza nella Bibbia mi pare in Per un consenso etico tra culture (Marietti 1995): «Nella Bibbia l'oggetto fondamentale, la “tradizione della legge”, il racconto del dono della legge e della sua ricezione, ci è significata sotto due punti di vista. Da un lato il punto di vista profetico, che esalta il ruolo della parola potente che si manifesta in tempi, luoghi eccezionali, con mediatori carismatici, i profeti appunto che “parlano al posto di”, eccedendo la tradizione, la cultura, il sapere esistente; dall'altro il punto di vista sapienziale, che riflette il bisogno che la parola eccezionale sia tradotta, attraverso l'opera di maestri, in conoscenza e in disciplina ordinarie, in esperienze comuni e comunicabili, in forza della preliminare convinzione che nella coscienza umana si diano una evidenza e una argomentabilità del bene, esternamente attestato dalla tradizione, e che bene e male ricevano anzitutto una retribuzione immanente» (pp. 38-39).
Nella Introduzione ai “testi antichi di tradizione scritta”, la cui lettura ha costituito il corso di Filosofia morale, raccolti nel libro Per un percorso etico tra culture (Carocci, seconda edizione 2003), Bori scrive: «L'aspetto imperativo è pure dominante nella cultura biblica, dove i profeti che si succedono presentano i voleri di Dio indipendentemente da ogni aspettativa umana. Ma l'alternarsi di profezia e sapienza, entrambe essenziali nella Bibbia, mostra la presenza di un'altra prospettiva, in cui ciò che risuona come imperativo dall'alto viene presentato come una voce che proviene da un bisogno umano, in cui il dono è presentato come la risposta ad un bisogno e il risultato di una ricerca comune a tutta l'umanità, e in cui la felicità è conseguenza normale dell'obbedienza» (p. 15). La profezia è la guida autorevole di Dio, che incontra il desiderio e la ricerca umana di bene, la sapienza.


E-statica e in- statica

Da alcune lettere del 1994 raccolgo dei passi significativi, pur nella forma immediata epistolare.
In questa trovo una interessante chiarificazione dei concetti: «A proposito di sapienza e profezia. La domanda potrebbe essere: qual è la situazione prototipica della profezia (di quella sapienziale ho già detto, è l'istruzione materna fondamentale). È la situazione della creatività, è quando il bambino dice parole sue, rispondendo all'affetto con quello che ha appreso, spesso attraverso il gioco, la cantilena, la poesia, l'indovinello… (Vedere Gunkel, I profeti). L'elemento essenziale è comunque un far proprio e trasmettere un sapere altrui in forma e forza propria (in una certa misura). Nel Nuovo Testamento: “ti sei procacciato una lode attraverso bambini e lattanti”; “ti lodo o Padre perché l'hai rivelato ai piccoli” (a questo punto egli è come loro: egli esulta, perché la rivelazione fatta a lui, è fatta anche e soprattutto ai piccoli); “esultò il bambino nel mio seno”. Forse l'elemento comune è l'”esultare”, agalliaomai (esultare, cfr. Grande Lessico del NT) sicuramente uno dei registri profetici (l'altro, opposto a quello euforico, è quello depressivo, lamentoso, o aggressivo: “ahimé”, o “guai!”). Si tratta comunque di diverse tonalità all'interno di un unico affetto (da evitare la svalutazione spinoziana dei sentimenti, dell'immaginazione)» (1° febbraio).
«Continuo a riflettere sulla profezia. Ho letto Gunkel, I profeti e “esultare” nel GLNT. L'elemento e-statico è centrale, quello che fa parlare a nome di Dio, la sapienza è in-statica, è parlare a nome della nostra esperienza e riflessione. Sono due modi di approccio alla legge, dall'esterno e dall'interno». (5 febbraio).
«Il punto fondamentale, la mia “scoperta” è che “il desiderio è desiderio di sapienza”, e cioè che “non c'è opposizione tra desiderio e disciplina”. Questo, se ho capito bene il Simposio, e basandomi sul rapporto madre-bambino, rende inutili tutte le preoccupazioni di Kant contro le motivazioni eudemonistiche» ( 18 maggio) .
In precedenza, riferendo l'intervento di un intellettuale ebreo nella sua lezione, trova «interessante lo sforzo di spiegare la categoria della rivelazione (per contrapposto alla filosofia e alla sapienza) come il momento iniziale, non razionale, l'innesco della riflessione. Coincide con le mie riflessioni sulla profezia (perfino il ricordo di Bergson)» (19 marzo).
Della «complementarietà e irresolubilità reciproca della profezia e della sapienza», parla nel resoconto di un convegno su “Il culto in spirito e verità” (26 maggio 1995)

La luce che illumina ogni uomo

Bori aderì alla Società degli Amici, i Quaccheri, nel 1993, «senza alcun bisogno di compiere una rottura formale con la Chiesa cattolica», perché «la duplice appartenenza è abbastanza normale tra gli Amici, oggi» (v. CV, pp. 130-131). Sui Quaccheri egli tenne una conferenza a Torino, il 22 maggio 2001, nel Centro Evangelico di cultura. Nei miei appunti, leggo: «L'Islam è una profetologia, il quaccherismo è profetismo cristiano». «Cristo profeta (da Dt 18, 15-22: “susciterò un profeta come te...”): nell'esperienza post-pasquale Cristo in persona viene a insegnare al suo popolo, non i pastori, neppure la Bibbia. Gv 1,9: Cristo è “la luce che illumina ogni uomo”».
Posso indicare in Universalismo come pluralità delle vie (Marietti 1820, Genova-Milano 2004) alcune pagine su Gesù profeta e altre su Gesù “più che profeta”. Come profeta si configura sulla linea della tradizione profetica ebraica, con l'autorità e la potenza di Dio, oltre la cultura etico-religiosa vigente, con un ruolo critico che richiama una concezione superiore della divinità, che propone un'etica al di là del ritualismo, con una speciale attenzione agli scartati, avvalorando con gesti terapeutici la propria missione, con diffidenza verso le mediazioni del potere politico e religioso, confidando nella potenza indifesa della parola affidata, a rischio della propria vita (pp. 63-65).

La giustizia diventa grazia

Ma altre pagine mostrano come «Gesù andò più in là». Rispetto all'ascetismo apocalittico di Giovanni, Gesù passa ad una aperta commensalità, si identifica con la Sapienza che grida per le strade e invita tutti al suo banchetto (Proverbi 1,20; 8,1 s; 9, 1-6). Le più antiche tradizioni vedono questo Dio della bontà misericordiosa in una figura femminile, la Sophìa, Sapienza divina. Il suo ambiente vitale è la comunione di mensa di Gesù con pubblicani, prostitute, peccatori. Al Gesù profeta, nella sua “andata verso il popolo” si affaccia un altro modello, quello sapienziale. La profezia di Gesù si fa sapienza quando alla radicalizzazione sino all'impossibile della richiesta morale si aggiunge l'abbandono assoluto al Padre. Il risultato paradossale è che i piccoli, gli ignoranti, quelli non “perbene”, gli ultimi, sono i più disposti a capire la profezia, a entrare nel ”Regno”. La radicalizzazione rende tutti trasgressori. Ma quando al “tu devi” corrisponde un “non posso” creaturale, questo diventa un appello irresistibile di cui il creatore si fa carico, e «la giustizia diventa grazia, l'inesorabile misericordia». Allora, il Regno è già qui e ora, il banchetto è “per tutti”. La parola profetica si fa carne: entrare nel Regno diventa aderire quasi fisicamente a questa persona (non senza problemi relativi al culto di Gesù e all'universalismo) (pp, 66-70).
Avrei altri riferimenti, in tema di profezia e sapienza, negli scritti di Pier Cesare Bori, a cui mi ha legato un'amicizia e un ascolto di otre 50 anni, ma mi limito ora a rinviare al suo già citato CV, scritto negli ultimi mesi di vita, dove si trovano diversi cenni sparsi su questo tema a lui caro.

La presenza diffusa e il sofferto divieto delle immagini

Vorrei però chiudere questi appunti con una confessione travagliata di Pier Cesare, in una sua lettera dell'agosto 1994. «Quel che mi rimprovero in questi giorni – o meglio rivolgo verso di me il rimprovero che immagino mi rivolgerebbero gli amici che appartengono al cristianesimo tradizionale – è di non sapere più pregare Gesù, ma di rivolgermi solo a Dio, o meglio al suo spirito, alla sua vita, alla sua sapienza, alla sua luce. In questo momento infatti mi sembra più giusto pensare a una presenza diffusa dello spirito di sapienza e di profezia attraverso la storia: Mosè, Gesù, Mohammed. Non posso più pensare che solo Gesù sia il logos, e penso che questo esclusivismo, necessario forse in altri tempi (tempi miei e tempi di storia del cristianesimo) sia oggi ingiusto e dannoso. E perciò mi pare in coscienza più giusto e coerente ricorrere – quando ne sento il bisogno, e sono più che mai bisognoso – a formulazioni più comprensive, che non escludono però il pensiero e la comunione con Gesù come maestro ed esempio più vicino. E tuttavia quel che intellettualmente è chiaro, emotivamente è una perdita che cagiona scrupoli e sofferenza. Ma – mi dico – è la sofferenza del divieto delle immagini cui presto o tardi ogni percorso spirituale deve arrivare. Devo pensare a questo come un travaglio di distacco e di crescita».

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