lunedì 17 dicembre 2018

Assemblea il 6 aprile a Roma
 <info@chiesadituttichiesadeipoveri.it>

RIUNIRE I POPOLI FRANTUMATI
Una convocazione per “Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri”. Sei urgenze messianiche per i nati in questo secolo. Non solo aspettare e vedere, ma decidere e operare. Il programma dell’incontro
È convocata per il 6 aprile 2019 a Roma, presso il centro Congressi di via dei Frentani, alle 10, un’assemblea nazionale di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”, secondo il seguente programma.
I compiti dei nati in questo secolo
RIUNIRE I POPOLI  FRANTUMATI  E ALTRE URGENZE

 I beni promessi e perduti: sei emergenze messianiche

1- RIUNIRE I POPOLI FRANTUMATI
2- DEPORRE IL DENARO DAL TRONO,  INNALZARVI IL DIRITTO
3- INVERTIRE LE STATISTICHE: NON PIÙ  DIECI RICCHI E MILIONI DI POVERI
4- DISIMPARARE L’ARTE DELLA GUERRA
5- RIMETTERE IL CHIAVISTELLO ALLE ACQUE E IL TERMOSTATO ALLA TERRA
6- RESTARE UMANI DONNE E UOMINI DUE UNIVERSI IN UNA SOLA CARNE
Il programma prevede un’introduzione che enunci e motivi il problema posto all’Assemblea: una sorta di “tagliando” da fare al millennio da poco iniziato per individuare i nodi cruciali su cui se ne deciderà il destino. Una relazione del teologo Giuseppe Ruggieri offrirà criteri per una lettura dell’attuale crisi messianica. In seguito sui problemi più urgenti saranno presentati interventi intergenerazionali che li metteranno all’ordine del giorno in prospettiva di futuro, ciò di cui consisterà il dibattito dell’Assemblea. È possibile che durante la discussione venga abbozzato un documento postassembleare le cui linee generali siano approvate dalla stessa assemblea.
Quali i motivi che hanno suggerito al Comitato coordinatore di “Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri” questa convocazione e questo tema?
Il passaggio dal secondo al terzo millennio, a 18 anni dal suo inizio, si sta rivelando veramente cruciale. È in corso un cambiamento d’epoca in cui sono messi in gioco beni primari così importanti e anelati dagli uomini fin dall’inizio dei tempi che sono stati chiamati beni messianici e sono stati oggetto delle promesse messianiche, e sono oggi riproposti e annunciati dall’attuale pontificato:
1) L’unità nella differenza di tutti i popoli, le culture e le fedi, l’unità di tutta la famiglia umana (oggi negata dalla guerra ai migranti, allo straniero, dagli scarti, dagli apartheid, dai muri, dalle frontiere in armi, dai sovranismi antagonistici, “prima l’America”, “prima gli italiani”, ecc.).
2) Il valore dello scambio gratuito nei rapporti umani di cui il fondamento e il modello è lo “scambio” tra Dio e l’uomo nella misericordia e nella croce (oggi negato dall’assoluta sovranità del denaro come unico mediatore dello scambio tra gli uomini, onde la finanza cieca sorda e muta domina la terra e mette fuori gioco la politica e il diritto).
3) Il valore della terra data come nutrice agli uomini e a loro affidata come madre (oggi negato dall’artificio che arroventa il clima, che fa saltare il chiavistello delle acque, che converte l’Amazzonia in denaro e porta al collasso del sistema).
4) La messa al bando della guerra, invenzione della cultura che non si trova in natura, tanto che la promessa messianica è che “non si impari più l’arte della guerra” (oggi negata dal rifiuto di aderire al Trattato per l’interdizione delle armi nucleari, dal ripristino della guerra come mezzo di intimidazione e di dominio, dal mito tecnologico di una guerra in cui si muore da una parte sola).
5) L’essere due in una carne sola degli uomini e delle donne, per un’alleanza che come dice papa Francesco va ben oltre il sigillo dell’unione coniugale e alla quale sono affidati “il creato e la storia”, e anche “la regia dell’intera società” (oggi negato dalla perdita della loro “differenza benedetta” e dall’utopia del “neutro” che tende a non fare più dell’essere umano un “nato da donna”, così com’è negato dall’ “hybris” o potenza della tecnologia che costruisce l’uomo artificiale e il mondo dei robot).
Tutto ciò da un lato produce una “sofferenza messianica” per il dolore del mondo e per l’inadempimento di attese così vitali e d’altra parte invita a prendere in mano queste urgenze messianiche e a congiurare per il loro adempimento: non solo stare a guardare come andrà a finire, ma decidere e operare E questo è appunto il compito del millennio che ora comincia; ma questo compito è messo ora nelle mani dei nati in questo secolo, dei giovani che sono giunti all’età della ragione e all’età adulta in questo snodo cruciale dal secondo al terzo millennio.
E ciò quando i vecchi messianismi del ‘900 sono falliti (il nazionalismo, il messianismo proletario e quello terzomondista) e i nuovi falsi messianismi sono in campo: il populismo, la tecnologia onnipotente, il sovranismo identitario, ed è perciò importante riscoprire l’autentico senso del cristianesimo, come messianismo né politico, né sacerdotale, né regale, ma di tutti gli uomini e in particolare delle minoranze ignorate, eppure propositive e custodi e serve del destino di tutti.
Naturalmente non dovrebbe trattarsi di un cahier de doléances ma di punti di partenza dell’analisi in vista del futuro da assumere come compito, in uno scambio intergenerazionale di saperi, di esperienze e, come dice il papa parlando di anziani e di giovani, di “sogni e speranze” da una parte e di “profezia” dall’altra.
Fin da ora saranno gradite adesioni e prenotazioni per la partecipazione all’assemblea.

venerdì 7 dicembre 2018

Dossier 2015 su Resistenza armata, nonviolenta,
con De Luna, Anna Bravo, Peyretti e altri

I
Una utile conversazione sulla Resistenza (25-05-2015)

Ci siamo trovati alcune decine di persone all'Istoreto, lunedì 25 maggio 2015, studiosi maturi ed anziani, giovani ricercatori, per conversare con storici di classe come Anna Bravo e Giovanni De Luna, autori entrambi di recenti importanti libri, sulla Resistenza armata, non armata e nonviolenta.
De Luna, nel suo recente La Resistenza perfetta, afferma che senza la Resistenza armata, quella civile non avrebbe avuto ragione di essere. Anna Bravo, come altri autori, da Semelin in qua, afferma che, in tutta Europa, la Resistenza civile al dominio nazista e fascista, ha avuto una sua autonomia di mezzi e di azione (posizione assolutamemte diversa dall'attendismo, ha riconosciuto Pavone) rispetto alla forma armata, pur convergenti entrambe allo stesso fine di difesa e liberazione, e nel rispetto e riconoscimento da parte dei resistenti civili della dedizione e sacrificio dei partigiani combattenti.
Avendo promosso l'incontro, io l'ho introdotto ponendo all'esame questa ipotesi: la Resistenza italiana è stata il meglio della nostra storia, superiore in valore di civiltà anche al Risorgimento elitario e nazionalista (per non dire del periodaccio recente, che ha offesa la Resistenza paragonata al terrorismo!), tanto che ha prodotto la bella Costituzione; allora, non è forse da pensare un oltrepassamento evolutivo della stessa Resistenza pensando e volendo forme di difesa dei giusti diritti, e di trasformazione dei conflitti, emancipati dall'uso delle armi omicide? Cioè: difesa popolare nonviolenta, corpi civili di pace, prevenzione, mediazione, riconciliazione nei conflitti su media o grande scala, realizzazione del diritto planetario di pace. Questa è la ricerca della cultura della nonviolenza.
Allora, sia la ricerca storica nello scoprire e valorizzare le forme e le esperienze inizialmente ignorate di resistenza non armata e nonviolenta (detta per lo più: civile), sia la ricerca etico-politica per l'oggi e il domani, non possono/devono collaborare in reciproca autonomia dei metodi, per una cultura del conflitto liberata dalla ideologia fatalistica della necessità delle armi omicide?
È venuta in discussione la presunta gerarchizzazione delle due forme di lotta, che secondo gli interpreti dell'immagine armata della Resistenza verrebbe compiuta dai ricercatori della nonviolenza nella storia e nella politica. Questi però ribadiscono: riconosciamo non solo la scelta delle armi in quel momento da parte dei partigiani, anche data la non conoscenza di esperienze nonviolente, ma riconosciamo anche che esistono tragiche situazioni estreme – ammesse anche da Gandhi, assunte anche da Bonhoeffer pacifista – in cui uccidere diventa una brutta necessità. Eppure non ci si può acquietare in ciò, e bisogna cercare, nelle esperienze storiche come nei progetti politici, lo sviluppo di mezzi di lotte giuste libere dall'uso della morte artificale aggiunta alla nostra universale mortalità naturale. Questo sarebbe una evoluzione umana, una emancipazione dalla necessità ripetitiva. Il non uccidere è un obiettivo irrinunciabile di umanizzazione, non è un di più per anime belle.
Nella bella e serena discussione è rimasta la giusta differenza tra il taglio storiografico e il taglio etico-politico, pur appoggiato su esperienze storiche da evidenziare. De Luna ha ritenuto che gli storici della Resistenza civile, negli ultimi venti anni, abbiano posto come un anatema sulla lotta armata. A me pare di no. Ho sempre sentito da parte dei primi il rispetto e il riconoscimento che ho già detto. Il problema è passare dai fatti ai progetti più avanzati. Il punto non è solo la coraggiosa decisione personale-esistenziale di passare la soglia oltre la quale c'è il morire e far morire (la soglia tracciata da Barbato ben illustrata nel libro di De Luna), ma è soprattutto lottare, anche a rischio di morire, con la forza e la volontà umana di giustizia, senza affidare il giudizio alla capacità distruttiva delle armi, che facilmente sfugge al criterio umano e facilmente si ritorce anche in effetti di disumanizzazione di chi usa le armi, pur con giuste ragioni. Ho raccontato a questo riguardo una mia esperienza vissuta all'età di nove anni, nei giorni successivi alla fine della guerra. Senza dire che l'escalation degli armamenti è arrivato alla distruttività nucleare totale, che impone alla ragione l'assoluta interruzione della logica armata, se ci preme la vita dell'umanità sulla terra.
Questi sono pochi primi appunti pro-memoria, del tutto integrabili e correggibili.
Grazie a chi ha partecipato! Enrico Peyretti, 26 maggio 2015

II
27 maggio 2015 - De Luna a Peyretti

Caro Peyretti, anch’io ti sono grato per l’opportunità che hai dato a tutti noi di avviare un confronto stimolante e proficuo. A me è spiaciuto solo che la discussione si sia sviluppata prescindendo dalla lettura del libro. Tu lo sai; quello che nei vari interventi è sembrato una sorta di ping-pong etico-politico-storiografico, nella concretezza della ricerca che alimenta il libro si presenta con caratteri molto più sfumati. Leletta, l’assoluta protagonista, non spara mai; pure il suo coinvolgimento è totale e il suo ruolo è decisivo nel disegnare la “Resistenza perfetta”. Lo stesso discorso vale per sua madre, “la baronessa dei partigiani”, come la chiamavano i fascisti. Quando si arrampica a duemila metri con la sola compagnia del parroco per andare a recuperare il corpo di un caduto, il suo gesto in quale categoria interpretativa lo collochiamo? E che dire delle altre figure femminili (la zia Barbara, “allenata” sui treni ospedali ai suoi nuovi compiti partigiani; la contadina che disattendendo gli ordini del marito rifocilla i patrioti; ecc…). E per quanto riguarda i maschi: abbiamo giustamente parlato di Giuriolo, ma il libro propone il percorso di Alberto Prunas Tola, che va in banda, si rifiuta di sparare e entra nello SMOM come infermiere soccorrendo nelle giornate insurrezionali partigiani e fascisti. Leletta, Dedo, e gli altri loro amici si interrogano a fondo sulla sua scelta e la loro discussione avrebbe meritato più attenzione nel nostro dibattito.

Insomma l’intreccio resistenza civile /resistenza armata è strettissimo e solo moltiplicando i comportamenti analizzati dagli storici se ne viene a capo. Per il resto, sai come la penso a proposito della resistenza civile; aver utilizzato questa categoria ha determinato uno scossone salutare agli studi sulla lotta partigiana, ampliando l’orizzonte della ricerca; resta per me quella che è stata definita la gerarchizzazione, il vedere la lotta armata come elemento decisivo e fondante di quello che è successo nel “venti mesi”. E’ una scelta che appartiene al mio bagaglio di storico e che propongo con convinzione. Ma la nettezza delle proprie opinioni non comporta affatto il rifiuto a priori di quelle degli altri.

Ti ringrazio ancora di tutto. E se ci fosse un’altra opportunità dopo aver letto il libro sarei molto contento.

Un caro saluto e a presto

Giovanni De Luna


III


4 giugno 2015 - Anna Bravo a Peyretti e De Luna

Caro Enrico,
grazie di tutto, e anche per aver ribadito che nessuno studioso di resistenza civile si è mai sognato di lanciare anatemi contro la resistenza armata o di contrapporre le due realtà. Anzi, si è cercato di farle dialogare. Quante volte abbiamo fatto notare che l'inclinazione guerriera della storiografia aveva sminuito l'immagine del partigiano, perché non valorizzava il registro della mediazione e della riduzione del danno, che invece non gli era affatto estraneo - contrariamente a quel che faceva intendere Buttiglione. Io ho sempre cercato di sottolineare i comportamenti di pace in tempo di guerra - Giovanni, ricorderai le tante volte in cui ho suggerito di studiare le tregue fra partigiani e fascisti/tedeschi, che esprimono, anche, il rifiuto di considerare inevitabile l’estensione della distruttività. Il tema è ancora oggi pochissimo presente (il libro recente di Roberta Mira non è stato molto sostenuto).
Dichiarare la lotta armata l'"elemento decisivo e fondante", è una visione troppo rigida. Nelle zone dove la lotta armata non esiste oppure è esilissima, si può dire che non ci sia resistenza? O che le azioni non abbiano senso compiuto (cioè, svolazzerebbero nella storia senza trovare posto al suo interno)? penso alla protezione degli sbandati e dei prigionieri evasi, che mette in luce un contenzioso specifico fra nazisti/fascisti e settori della popolazione, e che ha l'indelicatezza di avvenire a resistenza non ancora iniziata. E la Danimarca?
Ma non mi riferisco esclusivamente ai salvataggi, nella cui esaltazione c'è se mai il rischio di far apparire la R.C. solo come la faccia umanitaria della resistenza armata. Penso alle sue altre forme, come il rifiuto di sfollare in massa (Carrara), gli onori resi ai morti, gli assalti ai treni carichi di viveri, le "strategie di isolamento" del nemico (Il Silenzio del mare). Lotte per il futuro, che puntano alla tutela materiale e simbolica delle comunità, della famiglia, della professione, della chiesa.
Certo che il contributo in armi è stato assunto come fondamento del riscatto! all'epoca era ovvio, dovunque si faceva la conta dei combattenti in armi (e dei morti), e nessun politico italiano è stato in grado di far pesare la conta dei vivi, in particolare l'aiuto ai prigionieri alleati, che nel 46 viene invece pubblicamente riconosciuto dall'ambasciatore inglese in Italia.
Dopo 70 anni non possiamo "oltrepassare" quei criteri, come chiede Enrico? La gerarchia armati/inermi ha già pesato troppo nella ricerca - senza Absalom non avremmo saputo niente dei contadini soccorritori dei prigionieri. Io resto pienamente convinta che il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato.
E' vero, Giovanni, ho rimandato una lettura che temevo mi avrebbe colpito, ma mi sono fondata sull'autopresentazione che hai dato alla Stampa e sulla conoscenza degli altri tuoi libri. Non è il massimo, lo capisco, ma bisogna pur proteggersi un po'.

IV
Pietro Polito- Che cos’è stata la Resistenza?

newsletter 2015/14 | venerdì 8 maggio 2015 (www.serenoregis.org)

Come fenomeno europeo, la Resistenza è stata un moto di liberazione nazionale contro il nazismo: in quanto tale la nostra Resistenza non differisce da quella di altri paesi. Come fenomeno italiano, la guerra contro il nazismo è stata insieme una lotta di liberazione dalla dittatura fascista in nome dei diritti inviolabili – così li chiama la nostra Costituzione – dell’uomo. Ma la Resistenza ha avuto anche un significato universale: in quanto guerra popolare, spontanea, non comandata dall’alto, essa è stata un grande moto di emancipazione umana, che mirava molto più lontano e i cui effetti, proprio per questo, non sono ancora finiti: a una società internazionale più giusta, ispirata agli ideali di pace e di fraternità tra i popoli”. (Norberto Bobbio)
Questa definizione della Resistenza si trova in un rapido appunto scritto da Bobbio per una dichiarazione alla radio trasmessa l’8 settembre 1963. Essa fa parte delle riflessioni che Bobbio è venuto svolgendo tra il 1955 e il 1999 sul significato della Resistenza (in larga parte inedite, ma ora si possono leggere nel recente volume Eravamo ridiventati uomini, Einaudi, Torino 2015. La citazione è a p. 56).
Le pagine di Bobbio consentono di abbozzare una risposta sufficientemente chiara e definita alla domanda: “Che cosa è stata la Resistenza?”.
Bobbio si pone esplicitamente la domanda in un discorso per il 25 aprile 1961, chiarendo che è insufficiente interpretare la nostra Resistenza “soltanto” come “un movimento italiano” contro il fascismo e insistendo sul nesso tra la “nostra Resistenza” (la formula è di Bobbio) e il “grande movimento europeo di liberazione contro l’oppressione nazista”.
Riprendendo la definizione posta all’inizio, secondo Bobbio, la Resistenza è stata un movimento europeo, nazionale, universale. Così intesa essa può essere definita e valutata sotto tre aspetti: 1. le anime; 2. gli attori e gli scopi; 3. i risultati.
Le anime della Resistenza
Come movimento europeo, la Resistenza italiana è stata “un episodio, l’ultimo episodio della tragica e nobile storia della libertà europea rivendicata”; come movimento italiano, “la nostra Resistenza” si distingue dalle altre: mentre negli altri paesi è stata prevalentemente un movimento di liberazione dallo straniero, in Italia la Resistenza è stata al tempo stesso “un movimento patriottico e antifascista, contro il nemico esterno e contro il nemico interno”; come movimento universale di emancipazione sociale, la Resistenza è stata una “guerra popolare”, “un moto popolare, l’unico grande moto popolare nella storia dell’Italia moderna”.
Naturalmente l’espressione “guerra popolare” non viene usata nel senso di guerra di popolo, combattuta da un popolo, ma nel senso della lotta di una minoranza, “la lotta impari e disperata” di una minoranza che “non sarebbe stata possibile senza il consenso e la collaborazione degli operai nelle città, dei contadini nelle campagne, di intellettuali, di amministratori, di professionisti che costituirono una fitta rete protettiva delle bande armate e dei gruppi d’azione partigiana”.
Nell’animo di una parte importante e attiva dei partigiani la Resistenza è stata una guerra rivoluzionaria”: in questo terzo significato, può essere considerata “un movimento universale, che trascende l’occasione che l’ha generata e i risultati raggiunti”.
Gli attori e gli scopi.
Le finalità della Resistenza furono molteplici.
La guerra patriottica, fu combattuta da quella parte dell’esercito rimasta fedele alla Monarchia con lo scopo della restaurazione dell’indipendenza nazionale; la guerra antifascista dai partiti antifascisti riuniti nei Comitati di liberazione nazionale con l’obiettivo della riconquista della libertà politica; la guerra rivoluzionaria da un partito che preesisteva se pure di poco al fascismo, il Partito comunista, e da un partito nuovo, nato con la Resistenza, il Partito d’azione, con il fine dell’instaurazione dello stato nuovo. Il Partito d’Azione e il Partito comunista furono i partiti militarmente più organizzati, i più decisi e i più audaci, i principali organizzatori della guerra per bande.
I risultati della Resistenza.
I risultati vanno valutati in base agli scopi.
Il principale scopo della guerra patriottica, la liberazione dell’Italia dal dominio straniero, è stato raggiunto. L’Italia deve alla guerra patriottica il suo essere ridiventata una nazione libera, democratica, inserita a pieno diritto nella comunità internazionale.
Pure la guerra antifascista ha raggiunto i suoi scopi. Certo la sconfitta del fascismo non può essere ascritta a merito esclusivo dei partigiani, ma “la Resistenza italiana ebbe il merito di inserirsi nella direzione giusta della lotta al momento giusto”.
Naturalmente il giudizio è più controverso per quel che riguarda la Resistenza come rivoluzione sociale tendente alla trasformazione radicale della società italiana. Scriveva Bobbio nel lontano 25 aprile 1961: “Orbene, la democrazia che è stata attuata in Italia è soltanto quella apparente, non quella sostanziale. La democrazia sostanziale c’è, sì, negli articoli della Costituzione, ma non c’è nella realtà. L’Italia continua ad essere la nazione delle grandi sperequazioni, tra classe e classe, tra regione e regione”.
E oggi?
oooooo


Dossier 2015 su Resistenza armata, nonviolenta,
con De Luna, Anna Bravo, Peyretti e altri

I
Una utile conversazione sulla Resistenza (25-05-2015)

Ci siamo trovati alcune decine di persone all'Istoreto, lunedì 25 maggio 2015, studiosi maturi ed anziani, giovani ricercatori, per conversare con storici di classe come Anna Bravo e Giovanni De Luna, autori entrambi di recenti importanti libri, sulla Resistenza armata, non armata e nonviolenta.
De Luna, nel suo recente La Resistenza perfetta, afferma che senza la Resistenza armata, quella civile non avrebbe avuto ragione di essere. Anna Bravo, come altri autori, da Semelin in qua, afferma che, in tutta Europa, la Resistenza civile al dominio nazista e fascista, ha avuto una sua autonomia di mezzi e di azione (posizione assolutamemte diversa dall'attendismo, ha riconosciuto Pavone) rispetto alla forma armata, pur convergenti entrambe allo stesso fine di difesa e liberazione, e nel rispetto e riconoscimento da parte dei resistenti civili della dedizione e sacrificio dei partigiani combattenti.
Avendo promosso l'incontro, io l'ho introdotto ponendo all'esame questa ipotesi: la Resistenza italiana è stata il meglio della nostra storia, superiore in valore di civiltà anche al Risorgimento elitario e nazionalista (per non dire del periodaccio recente, che ha offesa la Resistenza paragonata al terrorismo!), tanto che ha prodotto la bella Costituzione; allora, non è forse da pensare un oltrepassamento evolutivo della stessa Resistenza pensando e volendo forme di difesa dei giusti diritti, e di trasformazione dei conflitti, emancipati dall'uso delle armi omicide? Cioè: difesa popolare nonviolenta, corpi civili di pace, prevenzione, mediazione, riconciliazione nei conflitti su media o grande scala, realizzazione del diritto planetario di pace. Questa è la ricerca della cultura della nonviolenza.
Allora, sia la ricerca storica nello scoprire e valorizzare le forme e le esperienze inizialmente ignorate di resistenza non armata e nonviolenta (detta per lo più: civile), sia la ricerca etico-politica per l'oggi e il domani, non possono/devono collaborare in reciproca autonomia dei metodi, per una cultura del conflitto liberata dalla ideologia fatalistica della necessità delle armi omicide?
È venuta in discussione la presunta gerarchizzazione delle due forme di lotta, che secondo gli interpreti dell'immagine armata della Resistenza verrebbe compiuta dai ricercatori della nonviolenza nella storia e nella politica. Questi però ribadiscono: riconosciamo non solo la scelta delle armi in quel momento da parte dei partigiani, anche data la non conoscenza di esperienze nonviolente, ma riconosciamo anche che esistono tragiche situazioni estreme – ammesse anche da Gandhi, assunte anche da Bonhoeffer pacifista – in cui uccidere diventa una brutta necessità. Eppure non ci si può acquietare in ciò, e bisogna cercare, nelle esperienze storiche come nei progetti politici, lo sviluppo di mezzi di lotte giuste libere dall'uso della morte artificale aggiunta alla nostra universale mortalità naturale. Questo sarebbe una evoluzione umana, una emancipazione dalla necessità ripetitiva. Il non uccidere è un obiettivo irrinunciabile di umanizzazione, non è un di più per anime belle.
Nella bella e serena discussione è rimasta la giusta differenza tra il taglio storiografico e il taglio etico-politico, pur appoggiato su esperienze storiche da evidenziare. De Luna ha ritenuto che gli storici della Resistenza civile, negli ultimi venti anni, abbiano posto come un anatema sulla lotta armata. A me pare di no. Ho sempre sentito da parte dei primi il rispetto e il riconoscimento che ho già detto. Il problema è passare dai fatti ai progetti più avanzati. Il punto non è solo la coraggiosa decisione personale-esistenziale di passare la soglia oltre la quale c'è il morire e far morire (la soglia tracciata da Barbato ben illustrata nel libro di De Luna), ma è soprattutto lottare, anche a rischio di morire, con la forza e la volontà umana di giustizia, senza affidare il giudizio alla capacità distruttiva delle armi, che facilmente sfugge al criterio umano e facilmente si ritorce anche in effetti di disumanizzazione di chi usa le armi, pur con giuste ragioni. Ho raccontato a questo riguardo una mia esperienza vissuta all'età di nove anni, nei giorni successivi alla fine della guerra. Senza dire che l'escalation degli armamenti è arrivato alla distruttività nucleare totale, che impone alla ragione l'assoluta interruzione della logica armata, se ci preme la vita dell'umanità sulla terra.
Questi sono pochi primi appunti pro-memoria, del tutto integrabili e correggibili.
Grazie a chi ha partecipato! Enrico Peyretti, 26 maggio 2015

II
27 maggio 2015 - De Luna a Peyretti

Caro Peyretti, anch’io ti sono grato per l’opportunità che hai dato a tutti noi di avviare un confronto stimolante e proficuo. A me è spiaciuto solo che la discussione si sia sviluppata prescindendo dalla lettura del libro. Tu lo sai; quello che nei vari interventi è sembrato una sorta di ping-pong etico-politico-storiografico, nella concretezza della ricerca che alimenta il libro si presenta con caratteri molto più sfumati. Leletta, l’assoluta protagonista, non spara mai; pure il suo coinvolgimento è totale e il suo ruolo è decisivo nel disegnare la “Resistenza perfetta”. Lo stesso discorso vale per sua madre, “la baronessa dei partigiani”, come la chiamavano i fascisti. Quando si arrampica a duemila metri con la sola compagnia del parroco per andare a recuperare il corpo di un caduto, il suo gesto in quale categoria interpretativa lo collochiamo? E che dire delle altre figure femminili (la zia Barbara, “allenata” sui treni ospedali ai suoi nuovi compiti partigiani; la contadina che disattendendo gli ordini del marito rifocilla i patrioti; ecc…). E per quanto riguarda i maschi: abbiamo giustamente parlato di Giuriolo, ma il libro propone il percorso di Alberto Prunas Tola, che va in banda, si rifiuta di sparare e entra nello SMOM come infermiere soccorrendo nelle giornate insurrezionali partigiani e fascisti. Leletta, Dedo, e gli altri loro amici si interrogano a fondo sulla sua scelta e la loro discussione avrebbe meritato più attenzione nel nostro dibattito.

Insomma l’intreccio resistenza civile /resistenza armata è strettissimo e solo moltiplicando i comportamenti analizzati dagli storici se ne viene a capo. Per il resto, sai come la penso a proposito della resistenza civile; aver utilizzato questa categoria ha determinato uno scossone salutare agli studi sulla lotta partigiana, ampliando l’orizzonte della ricerca; resta per me quella che è stata definita la gerarchizzazione, il vedere la lotta armata come elemento decisivo e fondante di quello che è successo nel “venti mesi”. E’ una scelta che appartiene al mio bagaglio di storico e che propongo con convinzione. Ma la nettezza delle proprie opinioni non comporta affatto il rifiuto a priori di quelle degli altri.

Ti ringrazio ancora di tutto. E se ci fosse un’altra opportunità dopo aver letto il libro sarei molto contento.

Un caro saluto e a presto

Giovanni De Luna


III


4 giugno 2015 - Anna Bravo a Peyretti e De Luna

Caro Enrico,
grazie di tutto, e anche per aver ribadito che nessuno studioso di resistenza civile si è mai sognato di lanciare anatemi contro la resistenza armata o di contrapporre le due realtà. Anzi, si è cercato di farle dialogare. Quante volte abbiamo fatto notare che l'inclinazione guerriera della storiografia aveva sminuito l'immagine del partigiano, perché non valorizzava il registro della mediazione e della riduzione del danno, che invece non gli era affatto estraneo - contrariamente a quel che faceva intendere Buttiglione. Io ho sempre cercato di sottolineare i comportamenti di pace in tempo di guerra - Giovanni, ricorderai le tante volte in cui ho suggerito di studiare le tregue fra partigiani e fascisti/tedeschi, che esprimono, anche, il rifiuto di considerare inevitabile l’estensione della distruttività. Il tema è ancora oggi pochissimo presente (il libro recente di Roberta Mira non è stato molto sostenuto).
Dichiarare la lotta armata l'"elemento decisivo e fondante", è una visione troppo rigida. Nelle zone dove la lotta armata non esiste oppure è esilissima, si può dire che non ci sia resistenza? O che le azioni non abbiano senso compiuto (cioè, svolazzerebbero nella storia senza trovare posto al suo interno)? penso alla protezione degli sbandati e dei prigionieri evasi, che mette in luce un contenzioso specifico fra nazisti/fascisti e settori della popolazione, e che ha l'indelicatezza di avvenire a resistenza non ancora iniziata. E la Danimarca?
Ma non mi riferisco esclusivamente ai salvataggi, nella cui esaltazione c'è se mai il rischio di far apparire la R.C. solo come la faccia umanitaria della resistenza armata. Penso alle sue altre forme, come il rifiuto di sfollare in massa (Carrara), gli onori resi ai morti, gli assalti ai treni carichi di viveri, le "strategie di isolamento" del nemico (Il Silenzio del mare). Lotte per il futuro, che puntano alla tutela materiale e simbolica delle comunità, della famiglia, della professione, della chiesa.
Certo che il contributo in armi è stato assunto come fondamento del riscatto! all'epoca era ovvio, dovunque si faceva la conta dei combattenti in armi (e dei morti), e nessun politico italiano è stato in grado di far pesare la conta dei vivi, in particolare l'aiuto ai prigionieri alleati, che nel 46 viene invece pubblicamente riconosciuto dall'ambasciatore inglese in Italia.
Dopo 70 anni non possiamo "oltrepassare" quei criteri, come chiede Enrico? La gerarchia armati/inermi ha già pesato troppo nella ricerca - senza Absalom non avremmo saputo niente dei contadini soccorritori dei prigionieri. Io resto pienamente convinta che il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato.
E' vero, Giovanni, ho rimandato una lettura che temevo mi avrebbe colpito, ma mi sono fondata sull'autopresentazione che hai dato alla Stampa e sulla conoscenza degli altri tuoi libri. Non è il massimo, lo capisco, ma bisogna pur proteggersi un po'.

IV
Pietro Polito- Che cos’è stata la Resistenza?

newsletter 2015/14 | venerdì 8 maggio 2015 (www.serenoregis.org)

Come fenomeno europeo, la Resistenza è stata un moto di liberazione nazionale contro il nazismo: in quanto tale la nostra Resistenza non differisce da quella di altri paesi. Come fenomeno italiano, la guerra contro il nazismo è stata insieme una lotta di liberazione dalla dittatura fascista in nome dei diritti inviolabili – così li chiama la nostra Costituzione – dell’uomo. Ma la Resistenza ha avuto anche un significato universale: in quanto guerra popolare, spontanea, non comandata dall’alto, essa è stata un grande moto di emancipazione umana, che mirava molto più lontano e i cui effetti, proprio per questo, non sono ancora finiti: a una società internazionale più giusta, ispirata agli ideali di pace e di fraternità tra i popoli”. (Norberto Bobbio)
Questa definizione della Resistenza si trova in un rapido appunto scritto da Bobbio per una dichiarazione alla radio trasmessa l’8 settembre 1963. Essa fa parte delle riflessioni che Bobbio è venuto svolgendo tra il 1955 e il 1999 sul significato della Resistenza (in larga parte inedite, ma ora si possono leggere nel recente volume Eravamo ridiventati uomini, Einaudi, Torino 2015. La citazione è a p. 56).
Le pagine di Bobbio consentono di abbozzare una risposta sufficientemente chiara e definita alla domanda: “Che cosa è stata la Resistenza?”.
Bobbio si pone esplicitamente la domanda in un discorso per il 25 aprile 1961, chiarendo che è insufficiente interpretare la nostra Resistenza “soltanto” come “un movimento italiano” contro il fascismo e insistendo sul nesso tra la “nostra Resistenza” (la formula è di Bobbio) e il “grande movimento europeo di liberazione contro l’oppressione nazista”.
Riprendendo la definizione posta all’inizio, secondo Bobbio, la Resistenza è stata un movimento europeo, nazionale, universale. Così intesa essa può essere definita e valutata sotto tre aspetti: 1. le anime; 2. gli attori e gli scopi; 3. i risultati.
Le anime della Resistenza
Come movimento europeo, la Resistenza italiana è stata “un episodio, l’ultimo episodio della tragica e nobile storia della libertà europea rivendicata”; come movimento italiano, “la nostra Resistenza” si distingue dalle altre: mentre negli altri paesi è stata prevalentemente un movimento di liberazione dallo straniero, in Italia la Resistenza è stata al tempo stesso “un movimento patriottico e antifascista, contro il nemico esterno e contro il nemico interno”; come movimento universale di emancipazione sociale, la Resistenza è stata una “guerra popolare”, “un moto popolare, l’unico grande moto popolare nella storia dell’Italia moderna”.
Naturalmente l’espressione “guerra popolare” non viene usata nel senso di guerra di popolo, combattuta da un popolo, ma nel senso della lotta di una minoranza, “la lotta impari e disperata” di una minoranza che “non sarebbe stata possibile senza il consenso e la collaborazione degli operai nelle città, dei contadini nelle campagne, di intellettuali, di amministratori, di professionisti che costituirono una fitta rete protettiva delle bande armate e dei gruppi d’azione partigiana”.
Nell’animo di una parte importante e attiva dei partigiani la Resistenza è stata una guerra rivoluzionaria”: in questo terzo significato, può essere considerata “un movimento universale, che trascende l’occasione che l’ha generata e i risultati raggiunti”.
Gli attori e gli scopi.
Le finalità della Resistenza furono molteplici.
La guerra patriottica, fu combattuta da quella parte dell’esercito rimasta fedele alla Monarchia con lo scopo della restaurazione dell’indipendenza nazionale; la guerra antifascista dai partiti antifascisti riuniti nei Comitati di liberazione nazionale con l’obiettivo della riconquista della libertà politica; la guerra rivoluzionaria da un partito che preesisteva se pure di poco al fascismo, il Partito comunista, e da un partito nuovo, nato con la Resistenza, il Partito d’azione, con il fine dell’instaurazione dello stato nuovo. Il Partito d’Azione e il Partito comunista furono i partiti militarmente più organizzati, i più decisi e i più audaci, i principali organizzatori della guerra per bande.
I risultati della Resistenza.
I risultati vanno valutati in base agli scopi.
Il principale scopo della guerra patriottica, la liberazione dell’Italia dal dominio straniero, è stato raggiunto. L’Italia deve alla guerra patriottica il suo essere ridiventata una nazione libera, democratica, inserita a pieno diritto nella comunità internazionale.
Pure la guerra antifascista ha raggiunto i suoi scopi. Certo la sconfitta del fascismo non può essere ascritta a merito esclusivo dei partigiani, ma “la Resistenza italiana ebbe il merito di inserirsi nella direzione giusta della lotta al momento giusto”.
Naturalmente il giudizio è più controverso per quel che riguarda la Resistenza come rivoluzione sociale tendente alla trasformazione radicale della società italiana. Scriveva Bobbio nel lontano 25 aprile 1961: “Orbene, la democrazia che è stata attuata in Italia è soltanto quella apparente, non quella sostanziale. La democrazia sostanziale c’è, sì, negli articoli della Costituzione, ma non c’è nella realtà. L’Italia continua ad essere la nazione delle grandi sperequazioni, tra classe e classe, tra regione e regione”.
E oggi?
oooooo


sabato 20 ottobre 2018

Noterella su Dio
Forse la realtà di Dio ci appare quando vediamo in altri, o sperimentiamo in noi, anche solo per un momento, la capacità di dare più di quanto riceviamo. E' questo un cuore del vangelo: p. es. Luca 6,35. Sembra solo un grande esigente precetto, ma è una rivelazione: voi siete questo. A volte, nella povera umanità, compare la capacità di creare bene, che supera il male. E' la rivelazione che l'amore creativo esiste. Noi chiamiamo ancora Dio, secondo un linguaggio diffuso in antiche culture, un ente superiore, dalle formidabili virtù e potenze. E lo invochiamo, se crediamo che esista da qualche parte, in aiuto alla nostra debolezza, ai nostri peccati, al destino avverso. Quando, anche solo in una scintilla, appare tra noi ciò che le religioni chiedono a lui, cioè la presenza del buono, del giusto, non abbiamo più bisogno di scalate metafisiche a dimostrare un "Essere perfettissimo" ecc. ecc. Quella apparizione rivelatrice mette in dubbio il pessimismo metafisico - cioè la legge imponente per cui solo la forza e la sopraffazione regnano nei rapporti umani ("O si domina o si è dominati"), e che l'uomo è egoista (dogma del capitalismo: niente si fa per niente)  - e ci persuade dolcemente che in noi agisce anche uno Spirito più largo del nostro animale (e rispettabile) istinto di conservazione. Se non viviamo sempre solo per noi stessi, ma anche per altri, è segno che in noi c'è una realtà vivente e creatrice, che non è la stretta conservazione, accanita quando si sente minacciata. Già il prodigio della dedizione materna, del soccorso gratuito ad un bisognoso, della generosità, del dono, della compassione, sono suggerimenti di ciò che filosofie e teologie e religioni teorizzano a modo loro, nel tentativo, sempre insufficiente e discusso, ma non vano e inutile, di interpretare la vita. In pratica - dio o non dio -  se siamo capaci a volte di favorire la vita, perché non lo facciamo sempre, in giustizia e amore? Non ne siamo sempre capaci, se non coltiviamo e ascoltiamo lo Spirito buono, chiamandolo e pensandolo come meglio crediamo. Le persone migliori e più illuminate della nostra specie umana lo hanno immaginato o chiamato come realmente Vivente, più di noi, in noi.

lunedì 8 ottobre 2018

Domenica 15 Maggio 2016 10:52

È troppo poco (di Enrico Peyretti)

Pubblicato da Fausto Ferrari


Contrariamente alla religione diventata costume sociale, la festa più grande non è il Natale, e neppure la Pasqua ebraica o cristiana, ma la cosiddetta Pentecoste, perché è festa non di una o due religioni, ma festa universale e quotidiana dello Spirito, che riempie la terra.
«È troppo poco che tu sia mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele, perciò ti farò luce delle nazioni, perché la mia salvezza raggiunga l’estremità della terra» (Isaia 49,6 dal secondo carme del Servo)
È troppo poco l’elezione di Israele: deve essere per tutti i popoli, e non per una terra, ma per tutta l’estensione della terra; non basta la prima alleanza e l’elezione nazionale; non basta la rivelazione ad un popolo, né una religione che prende il nome di quel solo popolo. Non basta che Dio parli e sia ascoltato in una lingua, in una cultura e una storia particolare. O la sua parola è udibile da tutti, o chi parla non è il Dio di tutti. Se Dio non è di tutti, diventa l’arma più potente di alcuni contro altri. Se è di tutti, è il fondamento e l’appello della pace.
Quella prima parola è solo l’inizio di un discorso.
«Nella relazione con Israele, la chiesa è come l’Israele escatologico. Gesù non pensa di fondare un’altra religione, non pensa una chiesa come realtà altra da Israele, ma come il compimento di Israele. Perciò c’è ben più che una relazione: Israele è costitutivo della chiesa e la chiesa è il compimento di Isarele, il superamento del suo limite (vedi in Romani 11,18: radice e rami)» (riflessione raccolta dalla presentazione del libro di Roberto Repole, Il pensiero umile, Ed. Città Nuova, il cui ultimo capitolo è intitolato Una chiesa umile).
A loro volta, il cristianesimo, la chiesa, sono da superare nel loro limite storico e culturale, limite che può essere stato necessario (come per Israele) per avviare il cammino concreto, ma che diventa ostacolo e arresto al cammino stesso quando troppo si consolida: accade così quando papa Ratzinger insiste sulla lingua filosofica greca necessaria per dire il messaggio cristiano; accade così quando la garanzia del messaggio è identificata in una struttura gerarchica.
I cristiani guardano a Gesù il Cristo, ma non basta neppure una religione che prenda il suo nome: è troppo poco. Gesù rinvia allo Spirito, che è dappertutto e non sai donde viene né dove va; i suoi discepoli sono avvertiti che il peccato maggiore non è contro Cristo ma contro lo Spirito; e quando Cristo si assenta, ucciso, resta presente con la sua vita, comunicando lo Spirito che ha spinto e animato lui stesso; e i veri adoratori del Padre non lo adorano in questo o quel tempio, ma in Spirito e verità; cioè, la «vera religione» (tema ampio nella Bibbia) è il soccorso al prossimo bisognoso, chiunque esso sia, di qualunque nazione, religione e idea, perché su questo, non sulla religione e neppure sulla fede esplicita, saremo giudicati, alla fine. La «vera religione» è spirituale, interculturale, interreligiosa, è amore operante, anche se ciascuno di noi, giustamente, esprime questa verità in una sua lingua materna e domestica, purché intimamente comunicante con ogni altro linguaggio ed esperienza dell’unico Spirito.
Perciò, contrariamente alla religione diventata costume sociale, la festa più grande non è il Natale, e neppure la Pasqua ebraica o cristiana, ma la cosiddetta Pentecoste, perché è festa non di una o due religioni, ma festa universale e quotidiana dello Spirito, che riempie la terra, pur contrastato dalle tenebre, ed è effuso in tutti i cuori aperti e anelanti, comunque lo chiamino. Lo Spirito è il non-ancora-detto, dopo tutto il detto delle religioni.

Enrico Peyretti

Enrico Peyretti ha fondato con altri, nel 1971, il mensile torinese Il foglio; è ricercatore per la pace nel Centro Studi Domenico Sereno Regis di Torino e membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione.
(Testo pubblicato sul n. 7-8 di Interdipendenza, settembre-dicembre 2007)

venerdì 14 settembre 2018

Abbecedario della democrazia

Democrazia sì o no? Democrazia del Capitano, o della piattaforma Rousseau? O quella dei leader e segreterie?
La democrazia è il sistema di decidere contando le teste favorevoli o contrarie, senza tagliare quelle contrarie. Diremo dunque che maggioranza è giustizia? Oppure la democrazia è anche un sistema di valori non decisi dai semplici numeri?
Perché, avendone la possibilità, non decidiamo come piace a noi, che sappiamo con certezza quel che è giusto, mettendo a tacere (o peggio) chi vuole il contrario? Così la chiesa ha sempre pensato, nel tempo della cristianità (reale o immaginata), e così hanno pensato e fatto le ideologie totalitarie, e gli interessi forti, incarnazione della forza-verità storica, che dicono: verità e giustizia e realtà siamo noi, non la maggioranza. Questa semmai verrà dopo, convinta da noi. No, l'idea della verità politica incarnata, più decisiva dei numeri, l'abbiamo superata, con dolorose fatiche storiche. Siamo democratici, decidono i numeri.
Ma decidono tutto? Ci sono valori che non si identificano né con la forza, né col consenso maggioritario. Un valore così è la coscienza libera di ciascuno: nessuno può essere costretto a volere o ad avallare ciò che non trova giusto secondo la propria coscienza. La democrazia che conta le teste deve contare teste libere, rispettate e aiutate nella loro libertà. Legalità non è necessariamente giustizia. Alla legge regolarmente stabilita, una coscienza può sentire il dovere di disobbedire, per giustizia, accettando la sanzione.
Perciò la maggioranza deve rispettare e anche favorire la libera convinzione ed espressione di volontà differenti e alternative. Il metodo democratico e la democrazia come valore politico consistono in due cose: si decide come vuole la maggioranza; si rispetta e si ascolta, nel continuo cammino di umanizzazione, la volontà alternativa delle libere minoranze. Democrazia è azione, ma prima è dialogo, senza imposizioni. Per questo si basa sul “parlamento”, non solo sul lancio della parola istantanea (twitter), senza le mediazioni del “dis-correre”, che si svolge e si corregge nel tempo. La democrazia è la forma primaria e più elementare di nonviolenza. Ogni maggioranza che si crede in diritto di tutto, rovina la conquista storica della democrazia sull'assolutismo.
Il principio umanistico della dignità inviolabile di ogni persona è superiore al principio tecnico della maggioranza, perché ne è la vera ragione sostanziale. Si suppone, con fiducia nella ragione umana, che i più riescano mediamente a vedere e decidere meglio. Ma non è una sicurezza: la maggioranza è legittima, ma può sbagliare, può essere ingiusta, eccome! C'è una cosa che non deve fare: conculcare le minoranze. Cuore più vero della democrazia non è il principio di maggioranza, ma il principio di rispetto delle minoranze. Qualunque opinione che critica ma rispetta le altre, non può essere conculcata. E se c'è un'opinione che non rispetta le altre si spera che la maggioranza delle persone ragionevoli la giudichi e la isoli.
La democrazia non è verità, ma metodo. E non è solo un metodo tecnico, ma una civiltà etica. Il risultato tecnico non è sempre etico. Il valore etico sociale non si attua se non col metodo del consenso di maggioranza. Il consenso può produrre un effetto non etico. Dobbiamo custodire le procedure, e dobbiamo educare il civismo. Sono come il corpo e l'anima della democrazia vivente: reciprocamente necessari.
La democrazia è una scommessa sulla ragionevolezza umana, sul senso della giustizia, sul rispetto dell'altro. Preziosi beni mai conquistati per sempre. La storia cammina, ma l'umanità – bambini e vecchi - è sempre di nuovo a frequentare la prima elementare, ad aprire l'antico abbecedario, insostituibile.
e. p.  

mercoledì 12 settembre 2018

Tempi di Fraternità – Circolo dei Lettori – Torino 10 settembre 2018

Ripartiamo da Erasmo

Perché ritrovare Erasmo, come propone Tempi di Fraternità? Per ritrovare l'umanesimo.
Ci accorgiamo, se ascoltiamo le voci delle coscienze più attente, che il problema del momento politico, civile, sociale, è un problema di umanità. «Restiamo umani», ci ripetono le testimonianze più vive. Ritorniamo umani, ci diciamo davanti a certi fenomeni glaciali e frane spirituali in corso.
Nella nostra comune umanità c'è miseria e grandezza. Sentiamo umiltà, pentimento e bisogno di cambiamento per la miseria comune. Viviamo anelito, desiderio, ricerca, per la grandezza umana, che compare nei maestri illuminati, e resta anelito nascosto nei giusti sconosciuti, su cui poggia il mondo.
La “cultura animi”, la coltivazione dell'umano in noi, l'umanesimo, composto di varie luci, oggi è minacciato dalla riduzione dell'uomo a funzione, a semplice supporto della tecnologia auto-noma (fino ai robot-killer, che decidono da soli e potranno minacciarci). L'uomo rischia di essere governato dalla tecno-crazia. Comunichiamo con frasi-frecce, senza meditazione, senza mediazioni. Sentiamo confusamente che qualcosa ci confonde e ci fa paura. Anche in altri momenti l'umanità si è degradata, ma a noi tocca vivere questa contingenza.

1 – L'altra modernità
Erasmo è un mite alfiere dell'appello alla nostra umanità, differente e irriducibile alle cose. Non facciamo di Erasmo il maestro unico, ma ci interessa molto, tra le voci creative della civiltà moderna, oggi in crisi (o in evoluzione?), perché egli ha parlato e dato segnali sul bivio storico dal quale nacque il cammino sia della modernità umanistica (dei diritti umani, della coscienza planetaria), sia della modernità caratterizzata dal potere distruttivo, tanto dell'ambiente vitale, quanto della stessa esistenza umana.
Erasmo è l'altra modernità interrotta , non è riconosciuto dalla modernità che è prevalsa.
Erasmo è conosciuto soprattutto per l' Elogio della follia: fine ironia amara e sorridente sulla miseria umana. È meno conosciuto per la sua opera di pace, che è ammirazione e speranza-stimolo per il compimento della grandezza umana. Vigilante severo contro ogni fanatismo, ci preserva dal rendere violenta la passione del vero e del giusto.
Scrive Eugenio Garin: Erasmo è “ossessionato” per la pace, cioè per l'umanità che ha cura dell'umanità. Oggi è dunque da riaccendere l'attenzione e l'interesse per Erasmo come un padre della migliore modernità. «In Erasmo la lotta per la pace, il bene della pace, è davvero il pensiero dominante, il punto di raccordo e la radice di tutto il suo umanesimo cristiano, del suo cristianesimo evangelico» (Eugenio Garin, Erasmo, Edizioni Cultura della Pace 1988, p. 7)
Erasmo costruisce una cultura di pace, in senso ampio, per almeno tre ragioni: respira l'umanesimo pre-cristiano classico; riporta il cristianesimo alle fonti genuine (traduce e restituisce il Nuovo Testamento alla sua forma autentica); è vero che non riforma le istituzioni (critica di Stefan Zweig), ma riforma l'anima che queste hanno bisogno di respirare.


2 - L'opera di pace
Considero, per quel che ho potuto capire, il Dulce bellum inexpertis più importante e diretto della Querela pacis, il Lamento della pace.
Ci vedo un anticipo della cultura moderna della pace politica, che è assenza e liberazione dalla violenza sia fisica, sia strutturale, sia culturale. La pace politica è frutto e compimento delle pace personale condivisa. Il terribile Novecento è anche il secolo della evoluzione del concetto di pace, da virtù personale, mitezza, in-nocuità, alla virtù politica, qualità e obiettivo della politica umana: la pace non si raggiunge solo come frutto della giustizia (Isaia 32,17), ma anche la giustizia va ottenuta con mezzi pacifici.
Chi non desidera la tranquillità della pace? Pero, non basta il pacifismo – che è paura di morire (e può essere astensione, tradimento) – ma occorre la nonviolenza attiva, che è paura, ripugnanza ad uccidere (Simone Weil, La prima radice). Si arriva alla pace nonviolenta col sentire che uccidere è uccidersi. Non basta il principe buono (Enchiridion, di Erasmo), occorre la cultura popolare pacifica, una civiltà della pace. La pace può essere violenta, come la “pax romana”, quando è “pace d'imperio”, la peggiore specie di pace, nella classificazione di Norberto Bobbio e di Raymond Aron. Certo, è sempre meglio della guerra – Erasmo ripete: «Meglio una pace ingiusta di una guerra giusta» - ma non è l'obiettivo di qualità umana.
Non basta la democrazia, se è consenso popolare ad una politica contro altri popoli umani. Il “demos” (popolo), libero e titolare di diritti, è ormai il demos planetario: la democrazia è cosmopolitismo, o non è. Chi non vede questo, è chiuso nella sua piccola tribù regionale, dialettale, ignorante e impaurita: il sovranismo nazionale è ormai una contrazione spastica dell'umanità.
La modernità di Erasmo su pace-guerra, si può riassumere in alcuni punti:
- Il Dulce Bellum inexpertis vuol dire non solo che la guerra piace a chi non la conosce, ma che piace a chi la fa fare agli altri. I veri “esperti” della guerra sono le sue vittime, e i suoi esecutori-vittime. Erasmo denuncia l'ignoranza della realtà umana da parte di chi promuove le guerre.
- Questo libretto contiene un'analisi dell'antropologia e della politica di guerra.
- Porta argomenti non solo morali, ma anche di convenienza contro le guerre, con molto realismo.
- Afferma la piena incompatibilità della guerra col Vangelo. Questa chiarezza arriverà soltanto con la Pacem in terris di Giovanni XXIII e coi giorni nostri.
- Il Dulce bellum cerca e propone un superamento non solo morale, ma anche nel sistema politico internazionale, della pratica della guerra legata ai poteri politici e alle culture.
- Vede chiaro che le leggi dello stato sono soggette al diritto dell'umanità.
- Porta, contro la guerra, criteri cristiani-laici, umanistici, evangelici, liberanti, non autoritari.
- Ha rispetto (realistico) dei Turchi, che rappresentavano il nemico esterno, l'altra religione (ma possono essere «più cristiani di noi», dice Erasmo): ammette la difesa dall'aggressione, ma non la guerra teologica.
La sostanza del Dulce Bellum - “non conoscete la guerra, altrimenti non vi piacerebbe, non la giustifichereste” - è demolizione dell'idolo statale, di un potere che si autorizza il sacrificio umano, l'omicidio politico. Ed è il continuo ritrovamento dell'uomo nell'uomo, dell'umano oltre lo smarrimento dell'umano. Il nostro art. 11 della Costituzione, col verbo “ripudia” rompe il matrimonio, dato dall'origine per indissolubile, tra stato e guerra, nati insieme. Lo stato (antico e moderno) vale come necessaria regola di convivenza, ma è nefasto come rottura dell'umanità tra l'interno e l'esterno, tra noi e loro.
In sostanza, il pensiero di Erasmo mette in discussione lo Stato omicida, il diritto di uccidere. Come farà Tolstoj, come fanno i profeti che precorrono la matura nonviolenza politica gandhiana.
Alcuni, anche Hans Küng, hanno accusato Erasmo di «troppo poco coraggio paolino», e di «fuga» (in Teologia in cammino, Mondadori 1987, pp. 21-55, spec. 48), di fronte a Lutero e alla sua Riforma. Ernesto Balducci, in una lettera del 21 gennaio 1989, mi scriveva: « Sono convinto, diversamente da Küng, che Erasmo, tra Roma e Lutero, aveva visto giusto: la questione dirimente, che avrebbe portato con sé anche la riforma della chiesa, era quella della pace. Non è forse oggi la vera questione ecumenica?». Cioè, la pace è il vero ecumenismo non solo cristiano, ma interculturale: pace e pluralismo, perché l'umanità è una e plurale, è irriducibile sia al monismo (impero), sia alle sovranità assolute belligene. Ormai è chiaro a noi che sarà o “convivialità delle differenze”, o distruzione totale.


3 – Dal monologo al dialogo cosmopolitico
L'Europa moderna si è costruita come “monologo”, discorso unico sull'uomo, credendo di sapere e dire tutto sull'uomo, e di essere tutto l'uomo. Ma il momento attuale pone la comparsa e il problema dell' “Altro” (Ernesto Balducci, L'Altro. Un orizzonte profetico, 2a ediz., Giunti 2004), degli altri popoli e culture che vengono a noi. Questo problema è verifica della nostra umanità, pretesa universale. Si tratta di superare il monologo, entrare nel dialogo cosmopolitico, nel pluralismo culturale, nella “pluralità delle vie” verso il vero, il giusto, il buono, il bello.
In questo cammino abbiamo dei maestri: lo stesso Balducci, Raimon Panikkar, Pier Cesare Bori, le chiese in quanto salpano via dal continente europeo, le religioni non cristiane in quanto non sono più soltanto “espressioni geografiche”, ma forme possibili dello spirito umano cercatore sui confini. Radici di questa intelligenza ampia ne troviamo in Erasmo, in generale nell'umanesimo (Pico della Mirandola, Nicola Cusano) aperto alle varie forme dell'unica umanità.



4 – Erasmo è cristiano: allora, la pace vale solo in nome di Dio?
Ci chiediamo se la questione della pace è anche la questione di un assoluto. È una questione teologica? Perché io non posso ucciderti? Solo perché c'è un divieto e un castigo? Chi difende Abele da Caino? Soltanto la forza propria di Abele, se si arma? Oppure lo difende un dio, che ascolta il grido del suo sangue? E se non abbiamo alcun dio?
Una domanda: chi si interroga e si dispone in ascolto di un Vivente Altro, di una Vita-che-dà-vita e ci fa vivi (la parola comune “dio” non ci basta più, troppo equivoca e generica), di una Realtà che sollecita e chiama e interpella dalla “sponda altra” questa nostra umanità, quando e come intravede questo Altro?
Una risposta: Questo Altro non ci appare se non nell'Altro umano: il prossimo, l'ospite, il pellegrino, il profugo, il migrante, la vittima, il bisognoso, il differente, lo straniero. Se io non sono in pace, se noi non siamo, nelle strutture comuni di civiltà, in pace e giustizia con l'altro umano che ho di fronte, non ha senso – se non di tradimento - che pensi ad un Altro trascendente, più vivo di noi.
Prima di ogni superiore verità, c'è da trovare la verità della vita. L'uomo è uomo, è la verità di se stesso, soltanto nel riconoscere l'altro uomo.
C'è uno specifico del cristianesimo, tra i cammini spirituali dell'umanità: «Dio nessuno l'ha mai visto» (vangelo secondo Giovanni 1,18) : ce lo ha spiegato il «Figlio dell'uomo», che vive nella vita del Padre. Gesù di Nazaret, per chi ha creduto a lui, è l'uomo in cui vive, in carne umana, il Dio invisibile. E ancora (1 lettera di Giovanni 4,12): «Dio nessuno l'ha mai visto: se ci amiamo tra noi egli è qui, in noi».
Luigi Pintor (in I luoghi del delitto, Bollati Boringhieri, 2003, p. 15, e poi 77-78), fa l'anagramma delle parole di Pilato a Gesù (in latino): «Quid est veritas?». E viene fuori: «Est vir qui adest». Che cosa è la verità? É l'uomo che ti sta davanti, il tuo prossimo.
Se la domanda e la ricerca sul mistero di colui-che-chiamiamo-Dio ha un senso, ci rimanda all'umano. E l'umanesimo non è altro che una forma di civiltà centrata sul mistero intangibile inviolabile dell'uomo. Il mistero che nell'uomo supera l'uomo. In Erasmo troviamo un maestro che ci riconduce all'inizio, o alla ripresa, di una civiltà umanistica, oggi a rischio grave di smarrimento; un umanesimo ispirato al vangelo, ma non integralista: perciò Erasmo evita di schierarsi nella lotta di potere tra Roma e Lutero: non è il potere che porta la pace. Erasmo suggerisce linee avanzate, anche oggi.

Enrico Peyretti, 10 settembre 2018