venerdì 7 dicembre 2018

Dossier 2015 su Resistenza armata, nonviolenta,
con De Luna, Anna Bravo, Peyretti e altri

I
Una utile conversazione sulla Resistenza (25-05-2015)

Ci siamo trovati alcune decine di persone all'Istoreto, lunedì 25 maggio 2015, studiosi maturi ed anziani, giovani ricercatori, per conversare con storici di classe come Anna Bravo e Giovanni De Luna, autori entrambi di recenti importanti libri, sulla Resistenza armata, non armata e nonviolenta.
De Luna, nel suo recente La Resistenza perfetta, afferma che senza la Resistenza armata, quella civile non avrebbe avuto ragione di essere. Anna Bravo, come altri autori, da Semelin in qua, afferma che, in tutta Europa, la Resistenza civile al dominio nazista e fascista, ha avuto una sua autonomia di mezzi e di azione (posizione assolutamemte diversa dall'attendismo, ha riconosciuto Pavone) rispetto alla forma armata, pur convergenti entrambe allo stesso fine di difesa e liberazione, e nel rispetto e riconoscimento da parte dei resistenti civili della dedizione e sacrificio dei partigiani combattenti.
Avendo promosso l'incontro, io l'ho introdotto ponendo all'esame questa ipotesi: la Resistenza italiana è stata il meglio della nostra storia, superiore in valore di civiltà anche al Risorgimento elitario e nazionalista (per non dire del periodaccio recente, che ha offesa la Resistenza paragonata al terrorismo!), tanto che ha prodotto la bella Costituzione; allora, non è forse da pensare un oltrepassamento evolutivo della stessa Resistenza pensando e volendo forme di difesa dei giusti diritti, e di trasformazione dei conflitti, emancipati dall'uso delle armi omicide? Cioè: difesa popolare nonviolenta, corpi civili di pace, prevenzione, mediazione, riconciliazione nei conflitti su media o grande scala, realizzazione del diritto planetario di pace. Questa è la ricerca della cultura della nonviolenza.
Allora, sia la ricerca storica nello scoprire e valorizzare le forme e le esperienze inizialmente ignorate di resistenza non armata e nonviolenta (detta per lo più: civile), sia la ricerca etico-politica per l'oggi e il domani, non possono/devono collaborare in reciproca autonomia dei metodi, per una cultura del conflitto liberata dalla ideologia fatalistica della necessità delle armi omicide?
È venuta in discussione la presunta gerarchizzazione delle due forme di lotta, che secondo gli interpreti dell'immagine armata della Resistenza verrebbe compiuta dai ricercatori della nonviolenza nella storia e nella politica. Questi però ribadiscono: riconosciamo non solo la scelta delle armi in quel momento da parte dei partigiani, anche data la non conoscenza di esperienze nonviolente, ma riconosciamo anche che esistono tragiche situazioni estreme – ammesse anche da Gandhi, assunte anche da Bonhoeffer pacifista – in cui uccidere diventa una brutta necessità. Eppure non ci si può acquietare in ciò, e bisogna cercare, nelle esperienze storiche come nei progetti politici, lo sviluppo di mezzi di lotte giuste libere dall'uso della morte artificale aggiunta alla nostra universale mortalità naturale. Questo sarebbe una evoluzione umana, una emancipazione dalla necessità ripetitiva. Il non uccidere è un obiettivo irrinunciabile di umanizzazione, non è un di più per anime belle.
Nella bella e serena discussione è rimasta la giusta differenza tra il taglio storiografico e il taglio etico-politico, pur appoggiato su esperienze storiche da evidenziare. De Luna ha ritenuto che gli storici della Resistenza civile, negli ultimi venti anni, abbiano posto come un anatema sulla lotta armata. A me pare di no. Ho sempre sentito da parte dei primi il rispetto e il riconoscimento che ho già detto. Il problema è passare dai fatti ai progetti più avanzati. Il punto non è solo la coraggiosa decisione personale-esistenziale di passare la soglia oltre la quale c'è il morire e far morire (la soglia tracciata da Barbato ben illustrata nel libro di De Luna), ma è soprattutto lottare, anche a rischio di morire, con la forza e la volontà umana di giustizia, senza affidare il giudizio alla capacità distruttiva delle armi, che facilmente sfugge al criterio umano e facilmente si ritorce anche in effetti di disumanizzazione di chi usa le armi, pur con giuste ragioni. Ho raccontato a questo riguardo una mia esperienza vissuta all'età di nove anni, nei giorni successivi alla fine della guerra. Senza dire che l'escalation degli armamenti è arrivato alla distruttività nucleare totale, che impone alla ragione l'assoluta interruzione della logica armata, se ci preme la vita dell'umanità sulla terra.
Questi sono pochi primi appunti pro-memoria, del tutto integrabili e correggibili.
Grazie a chi ha partecipato! Enrico Peyretti, 26 maggio 2015

II
27 maggio 2015 - De Luna a Peyretti

Caro Peyretti, anch’io ti sono grato per l’opportunità che hai dato a tutti noi di avviare un confronto stimolante e proficuo. A me è spiaciuto solo che la discussione si sia sviluppata prescindendo dalla lettura del libro. Tu lo sai; quello che nei vari interventi è sembrato una sorta di ping-pong etico-politico-storiografico, nella concretezza della ricerca che alimenta il libro si presenta con caratteri molto più sfumati. Leletta, l’assoluta protagonista, non spara mai; pure il suo coinvolgimento è totale e il suo ruolo è decisivo nel disegnare la “Resistenza perfetta”. Lo stesso discorso vale per sua madre, “la baronessa dei partigiani”, come la chiamavano i fascisti. Quando si arrampica a duemila metri con la sola compagnia del parroco per andare a recuperare il corpo di un caduto, il suo gesto in quale categoria interpretativa lo collochiamo? E che dire delle altre figure femminili (la zia Barbara, “allenata” sui treni ospedali ai suoi nuovi compiti partigiani; la contadina che disattendendo gli ordini del marito rifocilla i patrioti; ecc…). E per quanto riguarda i maschi: abbiamo giustamente parlato di Giuriolo, ma il libro propone il percorso di Alberto Prunas Tola, che va in banda, si rifiuta di sparare e entra nello SMOM come infermiere soccorrendo nelle giornate insurrezionali partigiani e fascisti. Leletta, Dedo, e gli altri loro amici si interrogano a fondo sulla sua scelta e la loro discussione avrebbe meritato più attenzione nel nostro dibattito.

Insomma l’intreccio resistenza civile /resistenza armata è strettissimo e solo moltiplicando i comportamenti analizzati dagli storici se ne viene a capo. Per il resto, sai come la penso a proposito della resistenza civile; aver utilizzato questa categoria ha determinato uno scossone salutare agli studi sulla lotta partigiana, ampliando l’orizzonte della ricerca; resta per me quella che è stata definita la gerarchizzazione, il vedere la lotta armata come elemento decisivo e fondante di quello che è successo nel “venti mesi”. E’ una scelta che appartiene al mio bagaglio di storico e che propongo con convinzione. Ma la nettezza delle proprie opinioni non comporta affatto il rifiuto a priori di quelle degli altri.

Ti ringrazio ancora di tutto. E se ci fosse un’altra opportunità dopo aver letto il libro sarei molto contento.

Un caro saluto e a presto

Giovanni De Luna


III


4 giugno 2015 - Anna Bravo a Peyretti e De Luna

Caro Enrico,
grazie di tutto, e anche per aver ribadito che nessuno studioso di resistenza civile si è mai sognato di lanciare anatemi contro la resistenza armata o di contrapporre le due realtà. Anzi, si è cercato di farle dialogare. Quante volte abbiamo fatto notare che l'inclinazione guerriera della storiografia aveva sminuito l'immagine del partigiano, perché non valorizzava il registro della mediazione e della riduzione del danno, che invece non gli era affatto estraneo - contrariamente a quel che faceva intendere Buttiglione. Io ho sempre cercato di sottolineare i comportamenti di pace in tempo di guerra - Giovanni, ricorderai le tante volte in cui ho suggerito di studiare le tregue fra partigiani e fascisti/tedeschi, che esprimono, anche, il rifiuto di considerare inevitabile l’estensione della distruttività. Il tema è ancora oggi pochissimo presente (il libro recente di Roberta Mira non è stato molto sostenuto).
Dichiarare la lotta armata l'"elemento decisivo e fondante", è una visione troppo rigida. Nelle zone dove la lotta armata non esiste oppure è esilissima, si può dire che non ci sia resistenza? O che le azioni non abbiano senso compiuto (cioè, svolazzerebbero nella storia senza trovare posto al suo interno)? penso alla protezione degli sbandati e dei prigionieri evasi, che mette in luce un contenzioso specifico fra nazisti/fascisti e settori della popolazione, e che ha l'indelicatezza di avvenire a resistenza non ancora iniziata. E la Danimarca?
Ma non mi riferisco esclusivamente ai salvataggi, nella cui esaltazione c'è se mai il rischio di far apparire la R.C. solo come la faccia umanitaria della resistenza armata. Penso alle sue altre forme, come il rifiuto di sfollare in massa (Carrara), gli onori resi ai morti, gli assalti ai treni carichi di viveri, le "strategie di isolamento" del nemico (Il Silenzio del mare). Lotte per il futuro, che puntano alla tutela materiale e simbolica delle comunità, della famiglia, della professione, della chiesa.
Certo che il contributo in armi è stato assunto come fondamento del riscatto! all'epoca era ovvio, dovunque si faceva la conta dei combattenti in armi (e dei morti), e nessun politico italiano è stato in grado di far pesare la conta dei vivi, in particolare l'aiuto ai prigionieri alleati, che nel 46 viene invece pubblicamente riconosciuto dall'ambasciatore inglese in Italia.
Dopo 70 anni non possiamo "oltrepassare" quei criteri, come chiede Enrico? La gerarchia armati/inermi ha già pesato troppo nella ricerca - senza Absalom non avremmo saputo niente dei contadini soccorritori dei prigionieri. Io resto pienamente convinta che il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato.
E' vero, Giovanni, ho rimandato una lettura che temevo mi avrebbe colpito, ma mi sono fondata sull'autopresentazione che hai dato alla Stampa e sulla conoscenza degli altri tuoi libri. Non è il massimo, lo capisco, ma bisogna pur proteggersi un po'.

IV
Pietro Polito- Che cos’è stata la Resistenza?

newsletter 2015/14 | venerdì 8 maggio 2015 (www.serenoregis.org)

Come fenomeno europeo, la Resistenza è stata un moto di liberazione nazionale contro il nazismo: in quanto tale la nostra Resistenza non differisce da quella di altri paesi. Come fenomeno italiano, la guerra contro il nazismo è stata insieme una lotta di liberazione dalla dittatura fascista in nome dei diritti inviolabili – così li chiama la nostra Costituzione – dell’uomo. Ma la Resistenza ha avuto anche un significato universale: in quanto guerra popolare, spontanea, non comandata dall’alto, essa è stata un grande moto di emancipazione umana, che mirava molto più lontano e i cui effetti, proprio per questo, non sono ancora finiti: a una società internazionale più giusta, ispirata agli ideali di pace e di fraternità tra i popoli”. (Norberto Bobbio)
Questa definizione della Resistenza si trova in un rapido appunto scritto da Bobbio per una dichiarazione alla radio trasmessa l’8 settembre 1963. Essa fa parte delle riflessioni che Bobbio è venuto svolgendo tra il 1955 e il 1999 sul significato della Resistenza (in larga parte inedite, ma ora si possono leggere nel recente volume Eravamo ridiventati uomini, Einaudi, Torino 2015. La citazione è a p. 56).
Le pagine di Bobbio consentono di abbozzare una risposta sufficientemente chiara e definita alla domanda: “Che cosa è stata la Resistenza?”.
Bobbio si pone esplicitamente la domanda in un discorso per il 25 aprile 1961, chiarendo che è insufficiente interpretare la nostra Resistenza “soltanto” come “un movimento italiano” contro il fascismo e insistendo sul nesso tra la “nostra Resistenza” (la formula è di Bobbio) e il “grande movimento europeo di liberazione contro l’oppressione nazista”.
Riprendendo la definizione posta all’inizio, secondo Bobbio, la Resistenza è stata un movimento europeo, nazionale, universale. Così intesa essa può essere definita e valutata sotto tre aspetti: 1. le anime; 2. gli attori e gli scopi; 3. i risultati.
Le anime della Resistenza
Come movimento europeo, la Resistenza italiana è stata “un episodio, l’ultimo episodio della tragica e nobile storia della libertà europea rivendicata”; come movimento italiano, “la nostra Resistenza” si distingue dalle altre: mentre negli altri paesi è stata prevalentemente un movimento di liberazione dallo straniero, in Italia la Resistenza è stata al tempo stesso “un movimento patriottico e antifascista, contro il nemico esterno e contro il nemico interno”; come movimento universale di emancipazione sociale, la Resistenza è stata una “guerra popolare”, “un moto popolare, l’unico grande moto popolare nella storia dell’Italia moderna”.
Naturalmente l’espressione “guerra popolare” non viene usata nel senso di guerra di popolo, combattuta da un popolo, ma nel senso della lotta di una minoranza, “la lotta impari e disperata” di una minoranza che “non sarebbe stata possibile senza il consenso e la collaborazione degli operai nelle città, dei contadini nelle campagne, di intellettuali, di amministratori, di professionisti che costituirono una fitta rete protettiva delle bande armate e dei gruppi d’azione partigiana”.
Nell’animo di una parte importante e attiva dei partigiani la Resistenza è stata una guerra rivoluzionaria”: in questo terzo significato, può essere considerata “un movimento universale, che trascende l’occasione che l’ha generata e i risultati raggiunti”.
Gli attori e gli scopi.
Le finalità della Resistenza furono molteplici.
La guerra patriottica, fu combattuta da quella parte dell’esercito rimasta fedele alla Monarchia con lo scopo della restaurazione dell’indipendenza nazionale; la guerra antifascista dai partiti antifascisti riuniti nei Comitati di liberazione nazionale con l’obiettivo della riconquista della libertà politica; la guerra rivoluzionaria da un partito che preesisteva se pure di poco al fascismo, il Partito comunista, e da un partito nuovo, nato con la Resistenza, il Partito d’azione, con il fine dell’instaurazione dello stato nuovo. Il Partito d’Azione e il Partito comunista furono i partiti militarmente più organizzati, i più decisi e i più audaci, i principali organizzatori della guerra per bande.
I risultati della Resistenza.
I risultati vanno valutati in base agli scopi.
Il principale scopo della guerra patriottica, la liberazione dell’Italia dal dominio straniero, è stato raggiunto. L’Italia deve alla guerra patriottica il suo essere ridiventata una nazione libera, democratica, inserita a pieno diritto nella comunità internazionale.
Pure la guerra antifascista ha raggiunto i suoi scopi. Certo la sconfitta del fascismo non può essere ascritta a merito esclusivo dei partigiani, ma “la Resistenza italiana ebbe il merito di inserirsi nella direzione giusta della lotta al momento giusto”.
Naturalmente il giudizio è più controverso per quel che riguarda la Resistenza come rivoluzione sociale tendente alla trasformazione radicale della società italiana. Scriveva Bobbio nel lontano 25 aprile 1961: “Orbene, la democrazia che è stata attuata in Italia è soltanto quella apparente, non quella sostanziale. La democrazia sostanziale c’è, sì, negli articoli della Costituzione, ma non c’è nella realtà. L’Italia continua ad essere la nazione delle grandi sperequazioni, tra classe e classe, tra regione e regione”.
E oggi?
oooooo


Dossier 2015 su Resistenza armata, nonviolenta,
con De Luna, Anna Bravo, Peyretti e altri

I
Una utile conversazione sulla Resistenza (25-05-2015)

Ci siamo trovati alcune decine di persone all'Istoreto, lunedì 25 maggio 2015, studiosi maturi ed anziani, giovani ricercatori, per conversare con storici di classe come Anna Bravo e Giovanni De Luna, autori entrambi di recenti importanti libri, sulla Resistenza armata, non armata e nonviolenta.
De Luna, nel suo recente La Resistenza perfetta, afferma che senza la Resistenza armata, quella civile non avrebbe avuto ragione di essere. Anna Bravo, come altri autori, da Semelin in qua, afferma che, in tutta Europa, la Resistenza civile al dominio nazista e fascista, ha avuto una sua autonomia di mezzi e di azione (posizione assolutamemte diversa dall'attendismo, ha riconosciuto Pavone) rispetto alla forma armata, pur convergenti entrambe allo stesso fine di difesa e liberazione, e nel rispetto e riconoscimento da parte dei resistenti civili della dedizione e sacrificio dei partigiani combattenti.
Avendo promosso l'incontro, io l'ho introdotto ponendo all'esame questa ipotesi: la Resistenza italiana è stata il meglio della nostra storia, superiore in valore di civiltà anche al Risorgimento elitario e nazionalista (per non dire del periodaccio recente, che ha offesa la Resistenza paragonata al terrorismo!), tanto che ha prodotto la bella Costituzione; allora, non è forse da pensare un oltrepassamento evolutivo della stessa Resistenza pensando e volendo forme di difesa dei giusti diritti, e di trasformazione dei conflitti, emancipati dall'uso delle armi omicide? Cioè: difesa popolare nonviolenta, corpi civili di pace, prevenzione, mediazione, riconciliazione nei conflitti su media o grande scala, realizzazione del diritto planetario di pace. Questa è la ricerca della cultura della nonviolenza.
Allora, sia la ricerca storica nello scoprire e valorizzare le forme e le esperienze inizialmente ignorate di resistenza non armata e nonviolenta (detta per lo più: civile), sia la ricerca etico-politica per l'oggi e il domani, non possono/devono collaborare in reciproca autonomia dei metodi, per una cultura del conflitto liberata dalla ideologia fatalistica della necessità delle armi omicide?
È venuta in discussione la presunta gerarchizzazione delle due forme di lotta, che secondo gli interpreti dell'immagine armata della Resistenza verrebbe compiuta dai ricercatori della nonviolenza nella storia e nella politica. Questi però ribadiscono: riconosciamo non solo la scelta delle armi in quel momento da parte dei partigiani, anche data la non conoscenza di esperienze nonviolente, ma riconosciamo anche che esistono tragiche situazioni estreme – ammesse anche da Gandhi, assunte anche da Bonhoeffer pacifista – in cui uccidere diventa una brutta necessità. Eppure non ci si può acquietare in ciò, e bisogna cercare, nelle esperienze storiche come nei progetti politici, lo sviluppo di mezzi di lotte giuste libere dall'uso della morte artificale aggiunta alla nostra universale mortalità naturale. Questo sarebbe una evoluzione umana, una emancipazione dalla necessità ripetitiva. Il non uccidere è un obiettivo irrinunciabile di umanizzazione, non è un di più per anime belle.
Nella bella e serena discussione è rimasta la giusta differenza tra il taglio storiografico e il taglio etico-politico, pur appoggiato su esperienze storiche da evidenziare. De Luna ha ritenuto che gli storici della Resistenza civile, negli ultimi venti anni, abbiano posto come un anatema sulla lotta armata. A me pare di no. Ho sempre sentito da parte dei primi il rispetto e il riconoscimento che ho già detto. Il problema è passare dai fatti ai progetti più avanzati. Il punto non è solo la coraggiosa decisione personale-esistenziale di passare la soglia oltre la quale c'è il morire e far morire (la soglia tracciata da Barbato ben illustrata nel libro di De Luna), ma è soprattutto lottare, anche a rischio di morire, con la forza e la volontà umana di giustizia, senza affidare il giudizio alla capacità distruttiva delle armi, che facilmente sfugge al criterio umano e facilmente si ritorce anche in effetti di disumanizzazione di chi usa le armi, pur con giuste ragioni. Ho raccontato a questo riguardo una mia esperienza vissuta all'età di nove anni, nei giorni successivi alla fine della guerra. Senza dire che l'escalation degli armamenti è arrivato alla distruttività nucleare totale, che impone alla ragione l'assoluta interruzione della logica armata, se ci preme la vita dell'umanità sulla terra.
Questi sono pochi primi appunti pro-memoria, del tutto integrabili e correggibili.
Grazie a chi ha partecipato! Enrico Peyretti, 26 maggio 2015

II
27 maggio 2015 - De Luna a Peyretti

Caro Peyretti, anch’io ti sono grato per l’opportunità che hai dato a tutti noi di avviare un confronto stimolante e proficuo. A me è spiaciuto solo che la discussione si sia sviluppata prescindendo dalla lettura del libro. Tu lo sai; quello che nei vari interventi è sembrato una sorta di ping-pong etico-politico-storiografico, nella concretezza della ricerca che alimenta il libro si presenta con caratteri molto più sfumati. Leletta, l’assoluta protagonista, non spara mai; pure il suo coinvolgimento è totale e il suo ruolo è decisivo nel disegnare la “Resistenza perfetta”. Lo stesso discorso vale per sua madre, “la baronessa dei partigiani”, come la chiamavano i fascisti. Quando si arrampica a duemila metri con la sola compagnia del parroco per andare a recuperare il corpo di un caduto, il suo gesto in quale categoria interpretativa lo collochiamo? E che dire delle altre figure femminili (la zia Barbara, “allenata” sui treni ospedali ai suoi nuovi compiti partigiani; la contadina che disattendendo gli ordini del marito rifocilla i patrioti; ecc…). E per quanto riguarda i maschi: abbiamo giustamente parlato di Giuriolo, ma il libro propone il percorso di Alberto Prunas Tola, che va in banda, si rifiuta di sparare e entra nello SMOM come infermiere soccorrendo nelle giornate insurrezionali partigiani e fascisti. Leletta, Dedo, e gli altri loro amici si interrogano a fondo sulla sua scelta e la loro discussione avrebbe meritato più attenzione nel nostro dibattito.

Insomma l’intreccio resistenza civile /resistenza armata è strettissimo e solo moltiplicando i comportamenti analizzati dagli storici se ne viene a capo. Per il resto, sai come la penso a proposito della resistenza civile; aver utilizzato questa categoria ha determinato uno scossone salutare agli studi sulla lotta partigiana, ampliando l’orizzonte della ricerca; resta per me quella che è stata definita la gerarchizzazione, il vedere la lotta armata come elemento decisivo e fondante di quello che è successo nel “venti mesi”. E’ una scelta che appartiene al mio bagaglio di storico e che propongo con convinzione. Ma la nettezza delle proprie opinioni non comporta affatto il rifiuto a priori di quelle degli altri.

Ti ringrazio ancora di tutto. E se ci fosse un’altra opportunità dopo aver letto il libro sarei molto contento.

Un caro saluto e a presto

Giovanni De Luna


III


4 giugno 2015 - Anna Bravo a Peyretti e De Luna

Caro Enrico,
grazie di tutto, e anche per aver ribadito che nessuno studioso di resistenza civile si è mai sognato di lanciare anatemi contro la resistenza armata o di contrapporre le due realtà. Anzi, si è cercato di farle dialogare. Quante volte abbiamo fatto notare che l'inclinazione guerriera della storiografia aveva sminuito l'immagine del partigiano, perché non valorizzava il registro della mediazione e della riduzione del danno, che invece non gli era affatto estraneo - contrariamente a quel che faceva intendere Buttiglione. Io ho sempre cercato di sottolineare i comportamenti di pace in tempo di guerra - Giovanni, ricorderai le tante volte in cui ho suggerito di studiare le tregue fra partigiani e fascisti/tedeschi, che esprimono, anche, il rifiuto di considerare inevitabile l’estensione della distruttività. Il tema è ancora oggi pochissimo presente (il libro recente di Roberta Mira non è stato molto sostenuto).
Dichiarare la lotta armata l'"elemento decisivo e fondante", è una visione troppo rigida. Nelle zone dove la lotta armata non esiste oppure è esilissima, si può dire che non ci sia resistenza? O che le azioni non abbiano senso compiuto (cioè, svolazzerebbero nella storia senza trovare posto al suo interno)? penso alla protezione degli sbandati e dei prigionieri evasi, che mette in luce un contenzioso specifico fra nazisti/fascisti e settori della popolazione, e che ha l'indelicatezza di avvenire a resistenza non ancora iniziata. E la Danimarca?
Ma non mi riferisco esclusivamente ai salvataggi, nella cui esaltazione c'è se mai il rischio di far apparire la R.C. solo come la faccia umanitaria della resistenza armata. Penso alle sue altre forme, come il rifiuto di sfollare in massa (Carrara), gli onori resi ai morti, gli assalti ai treni carichi di viveri, le "strategie di isolamento" del nemico (Il Silenzio del mare). Lotte per il futuro, che puntano alla tutela materiale e simbolica delle comunità, della famiglia, della professione, della chiesa.
Certo che il contributo in armi è stato assunto come fondamento del riscatto! all'epoca era ovvio, dovunque si faceva la conta dei combattenti in armi (e dei morti), e nessun politico italiano è stato in grado di far pesare la conta dei vivi, in particolare l'aiuto ai prigionieri alleati, che nel 46 viene invece pubblicamente riconosciuto dall'ambasciatore inglese in Italia.
Dopo 70 anni non possiamo "oltrepassare" quei criteri, come chiede Enrico? La gerarchia armati/inermi ha già pesato troppo nella ricerca - senza Absalom non avremmo saputo niente dei contadini soccorritori dei prigionieri. Io resto pienamente convinta che il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato.
E' vero, Giovanni, ho rimandato una lettura che temevo mi avrebbe colpito, ma mi sono fondata sull'autopresentazione che hai dato alla Stampa e sulla conoscenza degli altri tuoi libri. Non è il massimo, lo capisco, ma bisogna pur proteggersi un po'.

IV
Pietro Polito- Che cos’è stata la Resistenza?

newsletter 2015/14 | venerdì 8 maggio 2015 (www.serenoregis.org)

Come fenomeno europeo, la Resistenza è stata un moto di liberazione nazionale contro il nazismo: in quanto tale la nostra Resistenza non differisce da quella di altri paesi. Come fenomeno italiano, la guerra contro il nazismo è stata insieme una lotta di liberazione dalla dittatura fascista in nome dei diritti inviolabili – così li chiama la nostra Costituzione – dell’uomo. Ma la Resistenza ha avuto anche un significato universale: in quanto guerra popolare, spontanea, non comandata dall’alto, essa è stata un grande moto di emancipazione umana, che mirava molto più lontano e i cui effetti, proprio per questo, non sono ancora finiti: a una società internazionale più giusta, ispirata agli ideali di pace e di fraternità tra i popoli”. (Norberto Bobbio)
Questa definizione della Resistenza si trova in un rapido appunto scritto da Bobbio per una dichiarazione alla radio trasmessa l’8 settembre 1963. Essa fa parte delle riflessioni che Bobbio è venuto svolgendo tra il 1955 e il 1999 sul significato della Resistenza (in larga parte inedite, ma ora si possono leggere nel recente volume Eravamo ridiventati uomini, Einaudi, Torino 2015. La citazione è a p. 56).
Le pagine di Bobbio consentono di abbozzare una risposta sufficientemente chiara e definita alla domanda: “Che cosa è stata la Resistenza?”.
Bobbio si pone esplicitamente la domanda in un discorso per il 25 aprile 1961, chiarendo che è insufficiente interpretare la nostra Resistenza “soltanto” come “un movimento italiano” contro il fascismo e insistendo sul nesso tra la “nostra Resistenza” (la formula è di Bobbio) e il “grande movimento europeo di liberazione contro l’oppressione nazista”.
Riprendendo la definizione posta all’inizio, secondo Bobbio, la Resistenza è stata un movimento europeo, nazionale, universale. Così intesa essa può essere definita e valutata sotto tre aspetti: 1. le anime; 2. gli attori e gli scopi; 3. i risultati.
Le anime della Resistenza
Come movimento europeo, la Resistenza italiana è stata “un episodio, l’ultimo episodio della tragica e nobile storia della libertà europea rivendicata”; come movimento italiano, “la nostra Resistenza” si distingue dalle altre: mentre negli altri paesi è stata prevalentemente un movimento di liberazione dallo straniero, in Italia la Resistenza è stata al tempo stesso “un movimento patriottico e antifascista, contro il nemico esterno e contro il nemico interno”; come movimento universale di emancipazione sociale, la Resistenza è stata una “guerra popolare”, “un moto popolare, l’unico grande moto popolare nella storia dell’Italia moderna”.
Naturalmente l’espressione “guerra popolare” non viene usata nel senso di guerra di popolo, combattuta da un popolo, ma nel senso della lotta di una minoranza, “la lotta impari e disperata” di una minoranza che “non sarebbe stata possibile senza il consenso e la collaborazione degli operai nelle città, dei contadini nelle campagne, di intellettuali, di amministratori, di professionisti che costituirono una fitta rete protettiva delle bande armate e dei gruppi d’azione partigiana”.
Nell’animo di una parte importante e attiva dei partigiani la Resistenza è stata una guerra rivoluzionaria”: in questo terzo significato, può essere considerata “un movimento universale, che trascende l’occasione che l’ha generata e i risultati raggiunti”.
Gli attori e gli scopi.
Le finalità della Resistenza furono molteplici.
La guerra patriottica, fu combattuta da quella parte dell’esercito rimasta fedele alla Monarchia con lo scopo della restaurazione dell’indipendenza nazionale; la guerra antifascista dai partiti antifascisti riuniti nei Comitati di liberazione nazionale con l’obiettivo della riconquista della libertà politica; la guerra rivoluzionaria da un partito che preesisteva se pure di poco al fascismo, il Partito comunista, e da un partito nuovo, nato con la Resistenza, il Partito d’azione, con il fine dell’instaurazione dello stato nuovo. Il Partito d’Azione e il Partito comunista furono i partiti militarmente più organizzati, i più decisi e i più audaci, i principali organizzatori della guerra per bande.
I risultati della Resistenza.
I risultati vanno valutati in base agli scopi.
Il principale scopo della guerra patriottica, la liberazione dell’Italia dal dominio straniero, è stato raggiunto. L’Italia deve alla guerra patriottica il suo essere ridiventata una nazione libera, democratica, inserita a pieno diritto nella comunità internazionale.
Pure la guerra antifascista ha raggiunto i suoi scopi. Certo la sconfitta del fascismo non può essere ascritta a merito esclusivo dei partigiani, ma “la Resistenza italiana ebbe il merito di inserirsi nella direzione giusta della lotta al momento giusto”.
Naturalmente il giudizio è più controverso per quel che riguarda la Resistenza come rivoluzione sociale tendente alla trasformazione radicale della società italiana. Scriveva Bobbio nel lontano 25 aprile 1961: “Orbene, la democrazia che è stata attuata in Italia è soltanto quella apparente, non quella sostanziale. La democrazia sostanziale c’è, sì, negli articoli della Costituzione, ma non c’è nella realtà. L’Italia continua ad essere la nazione delle grandi sperequazioni, tra classe e classe, tra regione e regione”.
E oggi?
oooooo


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