Filosofia
di Gandhi: o
potere, o amore
1
Roberto
Mancini, Gandhi, Al di
là del principio di potere,
Feltrinelli 2021, pp. 172, euro 14
(pubblicato
in versione abbreviata su il foglio n. 486, gennaio 2022, p. 6)
www.ilfoglio.info
Gandhi
non fu solo un santone nonviolento, un "fachiro seminudo"
(per Churchill), un "idealista pratico", come diceva di sé;
non fu solo l'animatore della coscienza e dignità del popolo
indiano, e poi di altri. Fu anche un filosofo, cercatore della
sapienza, quindi
un
pensatore attivo e creativo della buona convivenza umana. Con
Gandhi
avviene
un’evoluzione
possibile,
nella politica, dal "principio di potere" alla verità
dell'amore per la realtà. Questo libro è la filosofia di Gandhi,
letta da un filosofo che sa leggere le trasformazioni profonde, come
Roberto Mancini, docente all’Università di Macerata. Egli ci
presenta nelle sue maggiori articolazioni il pensiero operante di
Gandhi, indagato su fonti ampie, dimostrate dalla veramente
abbondante bibliografia.
Esperimenti
con la verità
Potere,
da verbo della vita, è diventato sostantivo: strumento che impone,
sottomette altri, impedisce
loro
di esprimere delle possibilità di vita. Il filosofo Mancini legge la
validità euristica dell'opera
di Gandhi: «al
di là del principio di potere»
come scoperta di vie inedite per l'umanità. Perciò è critico della
modernità, che vede come «per
eccellenza la civiltà del potere».
Gandhi ha l'autorità non di chi comanda, ma di chi fa crescere
coscienza e umanità. La vita di Gandhi fu «esperimenti
con la verità». La verità è fonte di senso della vita. Gandhi
non è assolutista, ma in continuo approccio alla verità della vita.
Il suo è un "realismo trasformativo". Dalla Bhagavad
Gita (testo sacro
induista, III sec. a. C.) è avviato alla lotta interiore tra il bene
e il male. La sua etica non è un perfezionismo, ma l'essere se
stessi lasciandosi trasformare dall'amore, forza cosmica alternativa
al potere. Legge Ruskin, Thoreau, Tolstoj. Apprende la politica
nell'opporsi all'apartheid
razzista in Sudafrica. La lotta nonviolenta è tradurre in politica
la verità dell'amore. In India si impegna per i contadini poveri del
Champaran, prima che per l'indipendenza. Impara dai propri errori.
Dalla guerra mondiale, da Hiroshima, apprende che solo la nonviolenza
potrà fermare nazismo e fascismo. L'indipendenza viene insieme alla
dolorosa separazione tra India e Pakistan. È
ucciso da un fondamentalista indù. Esaminiamo alcuni termini
essenziali del suo pensiero-azione.
Attaccamento
alla verità
Satyagraha
è l'attaccamento alla verità, che dà vera forza: non la nostra
forza di volontà, ma la forza della verità dell'amore. La verità è
amore, e l'amore è verità. A noi "amore" suona quasi
svenevolezza, invece è forza. Ed
è anche capacità di soffrire, piuttosto che infliggere sofferenza.
Gandhi crede nell'adwaita
(non
dualismo), l'unità
essenziale di tutto ciò che ha vita: non una integrità personale ma
una realtà
di relazione.
Mancini vede anche i limiti dell'idea della corporeità in Gandhi,
che chiede castità come autocontrollo, ma ciò vale in lui come
primato dell'amore politico per il bene comune. Il Satyagraha
è l'arma di chi è davvero il più forte, e per questo esclude l'uso
di ogni violenza. Dall'ateismo giovanile, Gandhi arriva a concepire
Dio come verità, la forza dei deboli, al di sopra di ogni
esclusivismo religioso. Dio non ha figura né concetto, ma è Voce
interiore, che l'autodisciplina e l'estrema umiltà possono cogliere,
e Gandhi ne ha fatto reale esperienza: «Per me quella Voce fu più
reale della mia stessa esistenza» (p. 51). Fede e politica
convergono nel servire la giustizia: il potere non aiuta, solo la
verità aiuta, la forza metafisica che sostiene la vita del mondo.
Oggi,
per noi, è questo orizzonte che manca alla politica.
Nonviolenza,
amore politico
Ahimsa,
nonviolenza, è la forza amorevole della verità che spegne la
violenza, è la forza della pazienza attiva, tenace. Ahimsa
è
il mezzo, la verità è il fine. Pazienza non è remissività ma
forza che sostiene
gli effetti della violenza, cambia la sofferenza in forza. Ahimsa
cambia
il terreno del confronto rispetto alla violenza, è generativa di una
realtà inedita. Resistere è più che arginare o contrastare, è
inaugurare una via diversa:
non è ascetismo, ma trasforma situazioni sociali e processi storici.
Ahimsa è
il cuore della politica, è amore
politico,
e scaturisce dalla giustizia risanatrice, opposta alla logica
di
potere. La nonviolenza è alternativa
non solo alla violenza, ma al potere; passa dalla logica
individualista alla sapienza della coralità.
Non
è mera astensione dal fare violenza, ma dispiegamento della capacità
di amare. Questa capacità si impara dai sofferenti, che sono i
nostri maestri. L'appello della sofferenza genera in noi una forza
inedita per agire. Non è idealizzazione statica, ma movimento a fare
tutti i passi possibili. Ogni passo è in sé la presenza anticipata
della meta.
Fini
(intenzioni) e mezzi (responsabilità, efficacia) non sono
separabili, come fa Weber, perché il risultato avrà la qualità dei
mezzi usati, come avviene tra seme e pianta. I mezzi d'azione
nonviolenti ottengono risultati di giustizia. I mezzi non sono altro
che i fini stessi nel loro maturare. I fini sono già contenuti nei
mezzi. L'etica della politica è l'etica della relazione di verità
con tutta la comunità dei viventi. La politica è trasformata, da
concorrenza per il potere, a swaraj,
libertà dal male che si intromette nella relazione. La politica non
è più un contrasto meccanico di forze fisiche, ma un sentimento
giusto di sé per l'azione giusta per tutti. Non è una vetta
irraggiungibile, ma la via per ritrovarsi nella comunione cosmica. In
ciò vale anche il compromesso, non come svendita degli ideali, ma
come dar tempo al tempo.
La
nonviolenza dà significato alla religione, che non è una certa
tradizione, ma la relazione personale con la verità viva dell'amore
divino. Le religioni tradizionali, autoreferenziali, si appropriano
indebitamente dell'universalità di Dio.
Indipendenza
dal potere
Swaraj
è la libertà dal male, l'indipendenza dal dominio, dal potere che
opprime, dal consenso passivo dei dominati. Non è un altro potere
indipendente, ma l'indipendenza dal potere. Gandhi vuole
l'indipendenza dell'India (più di quanto l'India seppe capirlo)
dalle contrapposizioni arcaico-moderno, Oriente-Occidente, verso una
civiltà spirituale corale. «C'è Swaraj
quando
impariamo a governare noi stessi». Gandhi, conosciuto nelle fonti
autentiche, non è un leader nazionalista: l'India è sorella tra le
nazioni umane. Però giudica l'Occidente come «una civiltà
costruita in modo da giungere all'autodistruzione». Concepisce per
l'India un nuovo paradigma della democrazia, di portata
potenzialmente universale. Per lui «lo spirito della democrazia
richiede di interiorizzare lo spirito della fraternità». Più che
il principio della maggioranza, una vera democrazia ha il criterio
della protezione del più piccolo e povero membro della nazione. Ma
l'Occidente ha detto “fraternité” nella Rivoluzione francese,
poi l'ha dimenticata. Democrazia non è la vittoria legale di una
parte, ma la maturazione etica e civile del popolo. Occorre il
massimo possibile di autogoverno dei cittadini, degli organismi
vicini alla vita quotidiana, delle singole nazioni, per evitare la
concentrazione del potere. Ci possiamo chiedere come attuare questo
principio oggi che tutto il mondo è di fatto vicino e a ridosso
della vita quotidiana dei singoli. Eppure, proprio per questo
dobbiamo esseri liberi dai grandi poteri concentrati.
L'umanità
si fonda sulla verità o sul potere? La pratica del non-attaccamento
permette di venire alla luce dello swaraj,
liberi dal culto dei risultati, nel respiro dell’azione feconda.
«Il governo ideale, per Gandhi, è quello che governa il minimo» e
ciò non è il liberalismo, ma l'autogoverno delle persone educate
allo swaraj.
La giustizia giudicante ha un approccio riparativo, non punitivo.
Servizio
al bene comune
Swadeshi
significa
servizio al bene comune, emancipazione da ciò che impedisce di
servire la comunità. «Chi vuole essere amico di Dio deve restare
solo, oppure deve farsi amico il mondo intero», osa dire Gandhi. La
comunità non è definita da una località, ma è relazione
universale, inclusiva, è un modo d'essere che non esclude nessuno.
La democrazia del villaggio ha il respiro di un progetto federale
cosmopolita: cerchi successivi entro un cerchio oceanico, non una
piramide. La nonviolenza è incompatibile col nazionalismo. Aderire
alla verità dell'amore è aderire alla vita comune universale. «Chi
è dedito allo swadeshi
cerca di identificarsi con il creato intero».
«L’Occidente
è troppo materialista, autocentrato e ottusamente nazionalista. Noi
vogliamo una coscienza internazionale che abbracci il benessere e il
progresso spirituale dell’umanità intera». Democrazia è
organizzare la collettività non col potere, ma col prendersi
cura
e col servizio,
in spirito di gioia. Non basta l’indipendenza dallo straniero:
occorre il non-attaccamento
per aderire alla verità. L’essere umano viene
alla luce
quando scopre la sua libertà, e ha per madre la verità dell’amore.
Il progresso umano individuale e quello collettivo sono
interdipendenti. Agli occhi del potere, Gandhi sembra fallito: in
realtà ha avviato una delle più alte imprese dell’umanità.
Il
passaggio decisivo, nel cammino con Gandhi, è da quando pensiamo
impossibile la nascita di una umanità nonviolenta, a quando non vi
rinunciamo, e quindi nasciamo noi a tale umanità. Maria Zambrano:
«Solo ciò che resiste alla propria distruzione è davvero vivo».
Vero fallimento è la rinuncia. In Gandhi avviene il paradosso del
fallimento innegabile e del successo: persiste un seme di futuro che
non cede a potere e violenza. Siamo liberi dal male non solo quando
lo sradichiamo da noi, ma quando non desistiamo dalla via del bene.
Così è pure nella vita della società.
La
vita semplice
Sarwodaya
è il nome e il valore della “vita semplice”. Nanni Salio aveva
fatto suo quel motto di Gandhi: «Vivere semplicemente perché tutti
possano semplicemente vivere». Non è un’idea sacrificale, ma il
bene comune della salvezza e felicità. Il bene di ciascuno sta nel
bene di tutti. Il sarwodaya
anticipa
una vita libera da violenza. Chi è libero dal male, nello swaraj
,
e nella presenza di Dio, è nella vita semplice. Ogni persona ha un
suo percorso di elevazione spirituale: «Ci sono tante religioni
quanti sono gli individui». Nella società attuale, complessa e
sollecitata da mille stimoli, l’ideale del sarwodaya
è
più difficile, ma la coscienza sveglia ci può orientare ad una
felicità semplice. Pur attraverso cadute e fallimenti c’è una
via di armonizzazione, purché ci immedesimiamo negli scarti umani
della società. Gandhi combatté il sistema delle caste: «Un
Harijana
[fuori casta] è realmente un figlio di Dio», abbandonato dalla
società. «Dio è Dio proprio perché difende chi è privo di ogni
aiuto». Gandhi pensa la nostra filialità divina, ed è per questo
che critica ogni pretesa di superiorità di una religione a danno
della relazione vivente di tutti gli esseri umani con la verità
divina: non il potere, ma l’amore è il principio. Il fatto che
un’economia e una politica di potere producano scarti umani, è
fallimento anche della religione. La nonviolenza richiede questa
positiva giustizia dell’amore.
Gandhi
superò progressivamente i pregiudizi della cultura del suo tempo:
razzismo in Sudafrica, nazionalismo, sessismo. Lo spirito religioso
dell’amore è indissolubile dalla giustizia politica: «Non potrei
avere alcuna vita religiosa senza identificarmi con tutta l’umanità
e questo mi è impossibile senza partecipare alla politica». La via
della nonviolenza al di là del principio di potere non è per eroi
eccezionali, ma per chiunque vuole risollevarsi da una crisi della
propria vita.
L’economia
attuale è una guerra
Oggi
l’istituzione centrale della violenza è l’economia. Il mercato
obbliga alla competizione, che ha il modello della guerra. La
nonviolenza esige la radicale trasformazione del sistema economico e
la liberazione delle sue vittime. «La legge spirituale si esprime
proprio nelle comuni attività della vita, quindi coinvolge l’ambito
economico, sociale e politico», scrive Gandhi. Egli prefigura un
socialismo alternativo al marxismo. Marx vede l’alternativa al
capitalismo come contraddizione anche violenta, per Gandhi conta la
comunione e l’azione giusta ottenuta vincendo il male dentro di sé:
levatrice della storia è la verità dell’amore, quindi la
nonviolenza. Marx è figlio della modernità europea e non supera la
logica del potere, ma solo quella del capitale. Gandhi è figlio
della sapienza dell’India, in dialogo con le altre fedi e col
diritto occidentale, e non è attratto dal potere. Nel socialismo
gandhiano la proprietà dei mezzi di produzione è sostituita
dall'amministrazione fiduciaria, il lavoro è servizio, non c’è
competitività ma cura e generatività. L’economia è incentrata
nella comunità locale pluralista, ogni proprietà è responsabilità,
il fine di ogni impresa non è più il profitto, ma il bene comune.
La
critica della proprietà è tutt’uno con la critica del potere,
dato che si alimentano a vicenda. Mantenendo la propria individualità
nazionale, i popoli umani formeranno una democrazia mondiale, nella
libertà dal male (swaraj),
perciò senza farsi violenza. Il lavoro e le tecniche non devono
sfigurare l’umanità e la natura, come fa il potere violento.
Il
non-possesso
Aparigraha
è il non-possesso,
che sradica l’identificazione tra essere e avere. Invece: uso,
custodia, manutenzione dei beni per la condivisione. L’economia non
è una sfera autonoma: è un’attività sociale per il servizio alla
vita e al bene comune: «La vera economia è l’economia della
giustizia». L’economia è da trasformare in questo senso, senza
violenza od oppressione, ma col tessere la convivenza. Così è da
salvare tutta la vita, che non è solo «corsa verso la morte», come
pensa il nichilismo occidentale. La salvezza (moksha)
non è solo dopo la morte, ma già nella trasformazione della
persona, nella vita aperta alla libertà da tutti i vincoli, alla
eliminazione dell’ego,
a liberare il divino in noi. Il solo modo per trovare Dio, ben prima
della morte, è il servizio verso tutti. «Per vedere faccia a faccia
lo Spirito universale della Verità bisogna saper amare come se
stessi chi è il peggiore in tutto il creato». Questo impegna in
ogni ambito: «Non esito a dire che quanti dicono che la religione
non ha niente a che fare con la politica, non sanno cosa sia la
religione». «Superare il proprio ego
è ciò che permette agli altri di vivere».
L’esperimento
di Gandhi non ha dimostrazioni, salvo questa: se una persona si apre
davvero all’amore che la umanizza, la sua vita diventa immensa e
trova tutta la sua dignità. La salvezza esistenziale è quando
viviamo non invano, ma contribuendo alla salvezza dell’umanità,
alla vita, che è più del potere.
Epilogo
Nell'Epilogo,
Mancini richiama i sistemi che regolano la politica: il codice
Hobbes
(il potere è la passione fondamentale di tutta l'umanità), il
codice
Mandeville
(il potere è diventato sistema onnicomprensivo, inglobante), e li
confronta con il codice
Gandhi:
egli ha reso obsoleta la lingua del potere, cominciando a parlare la
lingua che nasce dall'esperienza della verità. Per lui l'autorità
è la qualità di chi promuove lo sviluppo delle persone e del bene
comune, l'integrità
è il superamento delle scissioni nelle persone, la trasformazione
etica e democratica è quando la convivenza prende forma diversa da
quella del potere. È
notevole che, mentre le virtù morali e civili sono oggi all'incirca
quelle classiche, in politica, da Machiavelli in poi, virtù
è considerata qualsiasi abilità a prendere e mantenere, di fatto,
il potere. La forza è equiparata al giusto. Oppure - direi- non c'è
più giusto, ma solo forza: il fatto è il valore, quindi non c'è
più valore a regola dei fatti.
Gandhi
mostra come la prerogativa umana è la indipendenza come libertà dal
male, e l'autogoverno come adesione alla verità dell'amore. Nel
codice
Gandhi
il metodo è dialogo, prendersi cura, partecipazione, giustizia
risanatrice, amministrazione fiduciaria: non conquistare il potere,
ma coltivare le possibilità di vita buona. Alternativa alla forza
del potere è la forza, fragile ma irriducibile, dell'umano. Il
potere occupa il vuoto lasciato dalla mancata fioritura dell'umano.
L'individualismo tende al potere, l'anima alla comunione con la
verità e con ogni vivente. Non possiamo dimostrare Dio o
l'amore-verità con cui Gandhi ha dialogato, ma neppure possiamo
concludere che nulla
è tra noi se non il potere. La "prova" paradossale è che,
nonostante la potenza del male, persiste il mondo e la ricerca del
suo significato: «Percepisco
che vi è una forza vivente che tiene tutto assieme... Questa forza o
spirito informatore è Dio. Poiché niente altro di quello che vedo
semplicemente coi sensi può persistere o persisterà, Egli solo è.
E questa forza è benevola o malevola? La vedo esclusivamente
benevola, perché vedo
che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna
persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce».
(Gandhi, Antiche come
le montagne, Edizioni
di Comunità, Milano 1965, p. 100). Il male offende il bene ma non lo
può distruggere. «La
forza dell'amore, dell'anima o della verità sono la stessa cosa.
Abbiamo prove dell'azione di questa forza in ogni momento. Se non ci
fosse questa forza l'universo scomparirebbe». «L'unica
prova possibile della verità è nella trasformazione della persona
che ad essa aderisce».
Non
è trionfalismo né idealizzazione. Gandhi conosce con lucidità e
benevolenza, ed anche con umorismo, la debolezza umana. Vede il
paradosso per cui, anche se l’uomo rinuncia alla propria dignità,
la verità persiste a stargli
vicina, invisibile e disarmata. È
importante l'educazione dei piccoli alla bellezza della nonviolenza.
Finché
politica ed economia sono vincere sugli altri, si lacera il tessuto
della vita. Si tratta di vincere sé stessi, l'esistere per sé, e
allora si può custodire tutti i valori viventi. La storia ha senso
come divenire solidale della comunità umana e della natura.
La
competitività lacera l'umanità fino alla sua eliminazione. Noi,
dopo Gandhi, lo vediamo. Se è la lotta per il potere che modella
economia e politica, il risultato è la disgregazione.
La
chiave del futuro è la generatività che inaugura dinamiche di vita
armonica.
Enrico
Peyretti, 7 gennaio 2022
PS
– Ho voluto interpellare Roberto Mancini, amico da tanti anni. Mi
dice: «L’intento del libro era duplice: non solo presentare la
filosofia di Gandhi, ma anche mostrare che la nonviolenza è basata
sul non potere, sul rifiuto del potere che lascia il posto alla
scelta della forza dell’amore. O potere o amore. Ma per i figli
della cultura occidentale questo è quasi impossibile da capire».
(e.p.)
Roberto
Mancini, Gandhi,
Al di là del principio di potere,
Feltrinelli 2021, pp. 172, euro 14