giovedì 6 marzo 2014

Per Servitium entro 30 nov. 2013 “Umiltà della verità”

La verità dei vinti (battute 12-14.000)

La verità è dei vincitori.
I vinti due volte
La verità della spada
La verità silenziata continua a mormorare
Verità disarmata





La verità è dei vincitori
Ci sono i fatti, i risultati, e basta. I fatti credo che siano i più potenti idoli del mondo, anche più del denaro e del dominio. Non sono tutti necessariamente falsi, ma falsi quando vogliono essere tutto, quando si imprimono nel reale senza lasciare residui margini. Certo, sono un fatto sia il bene sia il male compiuti. Quando si fa assoluto, senza relazione col non-ancora-fatto, oppure con ciò che esso facendosi ha disfatto e distrutto, allora il fatto vuol essere la verità, l'unico reale, l'unica verità, l'unico dio.
Fatto è il participio passato di fare. Quel fatto è il compiuto, il perfetto, la meta finale, la pienezza. Non c'è altro da fare. Non ci sono alternative (Tina: there are not alternatives). Ciò che era prima del fatto non è più. Oltre il fatto non c'è niente, oppure un altro fatto. Anzi, i fatti sono come gli dèi, possono lottare tra loro, ma ogni fatto, anche se disfatto, è una verità perenne, perché è stato.
La verità, perché ci sia e si possa crederle, va fatta. Non esiste se non è fatta. Altrimenti, è semplice utopia, non-luogo, non-fatto. Sincero e felice è il disprezzo degli adoratori dei fatti verso le vane verità senza corpo, luminescenze ingannevoli nell'aria, incantatrici delle anime dette “belle” perché pure e pulite, non toccano e non fanno: più che aver la testa nelle nuvole hanno nuvole nella testa, cioè sogni, una fuga fuori e lontano dai fatti.
Il fatto è questo: non vince la verità, ma chi vince ha ragione, perciò ha la verità. La lotteria della storia non premia chi è più vero, ma chi più può. Sono i vincitori che hanno ragione. Ciò che è reale è razionale. La storia è l'unico giudizio. Veritas filia temporis. Questi sono i fatti. Ed è scritto bello grosso nei libri della storia umana, dal momento che li hanno scritti i vincitori. I vinti hanno altro da fare che scrivere libri.
Come posso ora io dire qualcosa sul tema che mi è dato: la verità dei vinti? In quella potente logica i vinti non hanno ragione, non hanno verità: la loro presunta ragione e verità, in cui hanno creduto, per la quale forse hanno lottato e sofferto con passione, se c'era, è stata sopraffatta, smentita. La storia non è fatta dai profeti disarmati. Questa è la dura lezione dei fatti. La verità non può vincere se non si mette in braccio alla forza.

I vinti due volte
Il peggio è che anche i vinti, per lo più, avevano questo modo di pensare. La loro verità si voleva affermare con gli stessi metodi con cui i vincitori hanno affermato la loro. Entrati in questa vera trappola per topi, hanno perso la prova di forza, e con essa hanno perso la verità (ma davvero l'hanno persa?). È per questo che Lev Tolstòj vede l'essenza del vangelo in quel «non resistere al male» (Matteo 5,39), che non significa certo lasciargli mano libera, ma vuol dire non entrare nel suo gioco, non opporsi al male col male. Allora bisognerà cambiare gioco, inventarne uno più vero, omogeneo alla verità. Gandhi continuò nel nostro tempo il cammino indicato da Tolstòj.
I vinti che hanno lottato alla maniera dei vincitori non hanno perso solo la battaglia e la guerra. Hanno perso anche la verità (ma l'hanno persa proprio definitivamente?). Si arriva ad un momento, ed è questo, in cui quanti hanno lottato per la verità della giustizia, e quanti hanno sostenuto la lotta dei più coraggiosi, vista la sconfitta di quella verità, hanno lasciato cadere anche la fede in essa, la volontà di affermarla, e si sono inchinati alla verità dei vincitori. Si sono rassegnati, i più, hanno ascoltato le promesse di chi ha detto: «fate come noi, fatevi gli affari vostri, arricchitevi anche da soli, senza gli altri; il privato funziona meglio del pubblico, che va a finire nel comunismo; non sognate l'impossibile, vedete quanti delitti hanno commesso i vostri capi per fare la giustizia che volevate» (e questo è anche vero, in buona parte, come è scritto nei “libri neri del comunismo” regalati e predicati largamente dai vincitori).
Siamo oggi in un momento simile (ma è del tutto vero questo? Vedremo). Altro che verità dei vinti! Hanno perso la partita e hanno perso la verità.

La verità della spada
Si legge nei detti del Profeta dell'Islam: «Ho sentito dire all'inviato di Dio – Iddio lo benedica e gli dia eterna salute - : “Quando due si affrontano, armati di spada, l'ucciso e l'uccisore andranno all'inferno”. Al-Ahnaf, figlio di Qays gli chiese: “Questo per l'uccisore, o Inviato di Dio, ma perché per l'ucciso?”. Rispose l'Inviato di Dio: “Perché bramava uccidere il suo compagno”»1.
Come quello si merita l'inferno, così nella storia i vinti, che pure avevano la verità del diritto rivendicato, della dignità da difendere e liberare, molto spesso hanno meritato di perdere perché hanno giocato il gioco del potente, più attrezzato e più spregiudicato di loro. Davvero chi ha vinto ha la dura verità di un mondo e di una storia in cui conta la forza bruta e non il diritto e la ragione.
Nell'ultimo messaggio dal Palazzo della Moneda, Salvador Allende diceva una verità: «Hanno la forza, ma non la ragione». Lui è morto e gli altri hanno vinto. La ragione quelli se la prendono con la forza. È una verità che la verità non vinca.
Allora, ci sono due verità? Sì.


La verità silenziata continua a mormorare

In quel detto del Profeta, come nella profezia biblica ed evangelica, appare una visione diversa da quella che eguaglia verità e vittoria, verità e potere, verità e fatto. La spada non scrive verità e giustizia, per nessuno, né che vinca né che perda. L'inferno coranico è un secondo giudizio, un giudizio d'appello: tu hai vinto, tu hai perso ma volevi vincere, entrambi cercavate la verità con la spada, entrambi avete perso la verità della vita, e un giudizio più vero delle vostre spade vi condanna entrambi.
Questo giudizio non grida, non risuona nelle piazze e nei palazzi, nei libri della grande storia. La parola profetica è contraria alla verità dei vincitori. Questa risuona, brilla e romba come il metallo delle spade. Quella profetica mormora anche imbavagliata. Diceva Mazzolari che la testa di Giovanni Battista parlava più sul piatto che sul collo.
C'è un'altra verità. C'è la verità dei vinti. C'è, anche se i vinti stessi non ci credono più; c'è, anche se imitando la violenza che ha premiato i vincitori, essi hanno tradito la verità che avevano. C'è una verità invincibile. Sono vinti gli uomini, non la loro verità. Ho tentato più volte2, non so con quale capacità comunicativa, di capire e mostrare che la dignità violata non è annullata, ed anzi l'offesa la fa brillare, risaltare, come il martello trae scintille dal ferro. Non c'è solo un divieto – non uccidere -, ma una impossibilità: quella dignità non viene uccisa.
La dignità inviolabile del passante sconosciuto, a me indifferente, io la scorgo quando qualcosa o qualcuno lo offende e io devo difenderlo. Se il Samaritano soccorre il ferito è perché nel ferito, nel mezzo-morto, c'è la verità, e lui la vede. Al vedere, lui aggiunge la decisione e l'azione, ciò che i sacerdoti in zelante cammino per l'ora del culto non vollero o non seppero fare.
C'è una dignità che rimane anche in chi la ignora e la perde: il delinquente resta un uomo che ha offeso un altro uomo, eppure conserva la possibilità e il compito di ritrovare l'umanità offesa nell'altro come in se stesso. C'è una immortalità della dignità.
La violenza evidenzia una in-violabilità. Non deve essere violata quella dignità. Non può essere violata, di una impossibilità non solo morale, ma reale: non è solo un precetto, che può essere disobbedito, ma una realtà, che l'offesa non distrugge. La dignità, la verità del vivente non deve e non può essere distrutta.
Da qualche parte ho letto di un maestro buddhista che dice ad una donna ripetutamente e in molti modi profondamente offesa: «Nessuno ti ha fatto niente». A rischio di aggiungere un'offesa alle offese fattele, quel maestro le dice che in lei c'è una realtà che le offese non raggiungono, c'è un valore inviolabile. L'offesa è impotente contro la verità.
Il fondamento della dignità è trascendente, non dedotto, è mistero. Mistero non vuol dire oscurità enigmatica, ma realtà superiore alla dicibilità, è l'ineffabile: lo colgo e non posso argomentarlo. Io non so e non misuro in cosa consiste quel misterioso valore, quindi non tocco, non devo toccare, devo non toccare quel valore. E neppure posso. Se lo tocco, posso distruggerne l'immagine, ma non ne distruggo la sostanza. Inutile sparare contro il vento: il vento si mangia le pallottole, e prosegue il suo volo.


La verità parla nel vinto

C'è la verità incancellabile dei vinti. È la stessa verità delle vittime. Da qualche parte dice Nietzsche, proprio lui, che l'uccisore non si libera più dall'ucciso. Non lo intendo come rimorso, ma come presenza. Il diritto sussistente che hai voluto sopprimere ti si attacca alla mano, come il miele che volevi rubare, per continuare a chiamarti alla sua verità. Alla fine gli sarai grato, perché è lui a darti la vita che volevi annullargli, è lui che ti dà la verità di te stesso che avevi perduto. Magari la giustizia penale – già l'aggettivo “penale”, cioè il raddoppio della sofferenza, ne denuncia l'ingiustizia! - conoscesse queste dinamiche della nostra sostanza umana, che, mentre si autonega nell'offendere altri, può risorgere dalle proprie ceneri morali nell'incontrare l'umanità innegabile che gli sorge di fronte e lo chiama dal sangue della vittima.
Il sangue di Abele dice una vivente umanità più del pugno di Caino. Per questo Dio lo ascolta più di quanto ascolti la giustizia vendicativa della società (Genesi 4, 10 e 15). Dio ascolta il sangue di Abele, ma alla fine il sangue di Abele parla anche per Caino, ed è una parola di vita, mentre lui pensava ormai solo di dover morire: «Chiunque mi troverà mi ucciderà».
Nessuno esiste da solo. Nessuno tocca l'altro senza toccare se stesso.


Il grido della verità
Simone Weil: «Tutte le volte che sorge dal profondo di un cuore umano il lamento del fanciullo che Cristo stesso non ha saputo trattenere: “Perché mi viene fatto del male?”, vi è certamente ingiustizia». E questo perché «c’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male, È questo, prima di tutto, che è sacro in ogni essere umano». 3
In quel lamento, in quel grido, anche di un animale, c'è tutta la verità. La sacra attesa del bene è la verità. La violenza ad una coscienza e ad una vita è violenza alla verità.
Dobbiamo guardare la violenza, cercare le notizie meno enfatizzate o più nascoste, guardare dietro il voyeurismo e il clamore delle cronache nere, conoscere anche le statistiche dell'ingiustizia e dell'arroganza, nominare le vittime coi loro nomi cancellati e mostrare i loro volti sfigurati o sepolti. Della rumorosa violenza, ascoltiamo non il fracasso dei carri dei vincitori e delle loro trombe, ma il silenzio gemente delle vittime. Oltre il loro dolore dicono la verità, perché è la verità la prima vittima di ogni guerra e violenza. Ancora Simone Weil: «La verità fugge dal campo dei vincitori». Si capovolge la scena che vedevamo all'inizio: i vincitori proprietari dell'unica verità.
Se siamo cristiani, veneriamo la croce non per adorare la potenza omicida (abbiamo persino pensato che Dio, il Padre, abbia voluto servirsi di questo delitto sacrificale sul Figlio per usarlo come strumento contro i delitti-peccati dell'umanità), ma per riconoscere la verità del vinto, della vittima non sacrificale di Dio, ma criminale dei potenti.


Verità disarmata
La verità dei vinti e delle vittime non è solo umile, come la verità cosciente di essere imperfetta, ma è umiliata, schiacciata verso terra (humus), come per seppellirla, e così umiliata diventa un seme che morendo dà frutto. Il seme è più forte della spada.
La verità dei vinti sta di fronte, come alternativa, alla verità potente, insediata al potere. La verità disarmata di fronte alla verità armata. Questa seconda espressione è un ossimoro stridente: verità e arma. Non per nulla abbiamo l'immagine della verità come un corpo di donna (la prima delle meraviglie del mondo) sottile, bello e nudo, lucente di luce propria, non bisognoso di nessun riparo, rinforzo, sostegno. La verità si dimostra da sola, come un volto che parla già con gli occhi. Anche le nostre umili verità, peregrinanti nel cammino della luce che attira e illumina ogni uomo (Giovanni 1,9), non hanno bisogno di forze aggiunte, di supporti rigidi.
Quando Costantino aiuta Cristo, Cristo scompare quasi del tutto. Erode e Pilato credevano di ucciderlo, e fu più vivo di prima. Costantino – ed ogni cesaro-papismo, anche ateo ma devoto - cerca di annetterselo, per farsene forte, e ne falsifica il messaggio, l'eredità, la promessa. Portandolo nel palazzo lo toglie ai poveri. (Ma riesce a toglierlo veramente?).
Mi ritrovo a fare frequente riferimento a quell'affermazione a mio parere centrale di Raimon Panikkar, dove dice che è compito attuale della filosofia «disarmare la ragione armata». «La filosofia è spesso interpretata come la ricerca della verità con il fucile della ragione, anche se spessissimo è solo una caccia alla chiarezza con la pistola di Calculus» 4
Una ragione armata, aggressiva, non amante e contemplativa, non saprà trovare altro che una verità conforme, armata, umiliante, che offende altra verità per affermare se stessa.
Se la verità dei potenti è un animale da catturare con le armi – e infatti il potere si raffigura negli stemmi e sulle monete proprio come aquila, leone, bestia feroce, rapace, divorante – la verità umiliata e umile dei vinti e delle vittime ha una sua forza innocente e innocua, semmai vitale e vitalizzante, resistente alla violenza. Amo insistere sulla differenza tra forza, che è vita, e violenza, che è violazione della vita.
Continua Panikkar: «La ragione non si disarma da sola», né ad opera di una ragione più forte. «Deve incontrare la funzione dello spirito e il compito del mito». «Intendo per filosofia più la sapienza dell'amore che l'amore per la sapienza».




Ci sono i vinti che hanno perso anche la loro verità, perché hanno accettato quella armata, violenta, dei vincitori. Ma c'è un altro tipo di vinto: quello che ha lottato con mezzi diversi dalla spada. Il lottatore nonviolento ha lottato con “la forza della verità” (Gandhi), con la “forza dell'amore” (Martin Luther King). Quando lui è sconfitto, è sconfitta con lui anche la verità? No, è sconfitto, non è colto ma rinviato un momento in cui poteva affermarsi una verità umana migliore dei fatti in corso.
Michael N. Nagler, in Per un futuro nonviolento (Ponte alle grazie, 2005), dopo aver esaminato alcuni casi efficaci di resistenza nonviolenta al nazismo, conclude: «la nonviolenza ogni tanto “funziona”, ma è sempre efficace. La violenza ogni tanto “funziona”, ma non è mai efficace». Che cosa intende Nagler col termine “funzionare”, che mette tra virgolette? Vuol dire che la nonviolenza a volte, ma non sempre, ottiene del tutto ciò che vogliamo, ma ha sempre un effetto positivo sull’intero sistema. Neppure la violenza vince sempre (per il vinto in guerra la violenza è fallita), ma di certo non lascia mai un seme fecondo. Quella che Nagler chiama qui “efficacia”, non è altro che quella “fecondità” che troviamo detta da Merleau-Ponty: «La regola dell’azione non è (…) l’efficacia a ogni costo, ma anzitutto la fecondità» (Segni, Il Saggiatore 1967, p. 102).
Allora, la verità del vinto violento, le sue ragioni e pretese, nell'immediato sono vinte con lui, travolte dalla vittoria che lega e calpesta, e possono scomparire dalla storia. Ma le verità – i diritti, i valori, le dignità – difese dal lottatore nonviolento, non scompaiono affatto con la sua sconfitta. Esse rimangono come semi, se sono vivi e degni, in un processo di fecondazione del cammino umano. Ma anche le verità del vinto armato, se sono verità più grandi, più intere in termini di umanità, rispetto agli interessi e pretese di parte, non saranno estinte con la sconfitta. La lotta nonviolenta le dovrà riprendere e difendere con altri mezzi, le consegnerà più pulite e inequivoche alla storia successiva, mentre la lotta violenta le lascerà equivocamente confuse con pretese parziali e legate a motivi meno umanamente veri.
Pier Cesare Bori, nel libro Per un consenso etico fra culture (Marietti 1995, p. 106-108) raccoglie alcuni «tra gli antichi, profondi convincimenti che molta parte, la parte migliore dell’umanità ha posto a base del suo vivere in società, che ha espresso in una straordinaria varietà di culture popolari tra loro non isolate e ha trasmesso soprattutto attraverso la sapienza della donna, sino al momento presente, riproposti da maestri come Simone Weil, Albert Schweitzer. Mohandas Karamchand Gandhi, Lev Tolstoj e altri, ci stanno ora dinanzi come una istruzione necessaria al vivere, anzi al sopravvivere umano». Tra questi convincimenti della sapienza umana, leggiamo: «il privilegio e l'onore riconosciuto ai deboli»; «la tranquillità e la pace che vengono dalla certezza di una giustizia non affidata alla storia».
L'umanità ha anche questo pensiero, che si trasmette nell'umiltà della buona pedagogia domestica. Alcune grandi voci di sapienti l'affermano sulla scena della cultura, in tensione e alternativa con molti più forti teorizzatori della verità identificata col fatto, con la storia.
La giustizia, per quei sapienti, non è tutta nella storia (Bori), non è la verità dei vincitori di fatto.
Nei vinti e nelle vittime qualcosa è calpestato, tacitato, sepolto. Andiamo a vederne la verità. Lì qualcosa abbiamo perduto, occultato, o distrutto. Pensiamo alle civiltà umane cancellate senza memoria. Spesso chi ha “perso” una guerra, un conflitto eliminatorio, rappresenta una forma umana smarrita, una verità dimenticata, difficile o impossibile da ricuperare. Chi ha perso è l'umanità nella sua varia ricchezza.

I vinti e le vittime
Intanto possiamo distinguere i vinti dalle vittime. I vinti volevano vincere Le vittime volevano vivere libere.
Che c'è di male-falso nel vincere una guerra o una competizione di potere? C'è che non è come estrarre il biglietto buono alla lotteria. Nella lotteria il patto è che uno vince, ma nessuno è saccheggiato: l'acquisto volontario del biglietto è un contributo alla cassa comune, che per gioco e per sorteggio premia uno dei giocatori.
Ben altro accade nella competizione dura, come la guerra, dove vincere è “vincolare”, legare, impedire, opprimere-sopprimere, dominare, dettare legge. Nella vittoria si proclama: questo è il diritto, il giusto, la mia volontà è verità: Quod principi placuit, legis habet vigorem. La verità è del vincitore. È buffo: la “paci” che i ragazzi devono studiare a scuola, con un nome di località e una data da ricordare bene, non sono paci: sono bel bello il culmine e lo scopo della guerra, l'atto supremo di guerra; sono l'imposizione della volontà del vincitore al vinto. Non occorre più uccidere, cessa il fuoco, perché il fine dell'uccidere è raggiunto: non ti uccido più perché ora vivi come voglio io e fai quello che io ti comando. E noi chiamiamo pace questo potere, che è guerra statica, violenza strutturale invece che diretta e cruenta. Ma questo imbroglio concettuale avviene grazie ad un concetto violento, grazie alla violenza culturale: cioè l'idea che la vera regina governante la storia è la violenza, la prova eliminatoria su misura della violenza. 5
È la verità del lupo sull'agnello. La verità di fatto (quella del lupo) è vista come verità di diritto (quella dell'agnello). La prima verità divora la seconda prima che l'animale grosso divori l'animale piccolo.
«Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, si ritrovarono a bere nello stesso ruscello. Il lupo era più a monte, mentre l'agnello beveva a una certa distanza, verso valle. La fame però spinse il lupo ad attaccar briga e allora disse: "Perché osi intorbidarmi l'acqua?". L'agnello tremando rispose: "Come posso fare questo se l'acqua scorre da te a me?". "E' vero, ma tu sei mesi fa mi hai insultato con brutte parole". Impossibile, sei mesi fa non ero ancora nato". "Allora" riprese il lupo "fu certamente tuo padre a rivolgermi tutte quelle villanie". Quindi saltò addosso all'agnello e se lo mangiò. Questo racconto è rivolto a tutti coloro che opprimono i giusti nascondendosi dietro falsi pretesti».
Qui è fin troppo chiaro. I pretesti del lupo sono falsi. Sono falsi per noi, umani tra umani, ma non sono falsi quando gli uomini si sentono e si atteggiano a lupo verso l'altro: homo homini lupus. Eppure questa antropologia non è un assoluto. Ernesto Balducci diceva che questo è il “sofisma machiavellico” poi teorizzato da Hobbes, e tristemente patito nel pensiero di molti, tra cui Norberto Bobbio, il quale, sul problema angoscioso della guerra, cercava con passione e acribia vie d'uscita verso la pace.
È chiaro che quel pensiero pessimista non è una incitazione alla guerra, non è uno “slogan” (che voleva dire, appunto, grido di guerra), ma una triste constatazione realistica di ciò che molto (troppo) spesso accade nei rapporti umani. Ma accade solo questo? Il lupo di Gubbio, era spinto dalla fame ad aggredire, ma seppe udire le ragioni di Francesco e l'accordo fra la sua fame e la tranquillità dei cittadini di Gubbio fu trovato, con la possibilità per tutti di vivere insieme.

1

Detti e fatti del profeta dell'Islam, di al-Buhari, Utet 2009, p. 89
2 Per esempio in Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012, pp. 127 e ss.
3 Simone Weil, La persona e il sacro, 1942-1943.
4 Raimon Panikkar, La torre di Babele. Pace e pluralismo, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole, 1990, pp. 47, 163, 52, 49.
5 Ho raccolto in Dov'è la vittoria? Ed. Gabrielli 2005, una “piccola antologia aperta sulla miseria e la fallacia del vincere” contenente 115 testi. Oggi sarei in grado di quasi raddoppiare la raccolta.
Per “Confronti” n. 3/2013
Rileggere oggi la Pacem in terris:
la fedeltà alla terra non è più atea
Rileggendo oggi la Pacem in terris si sente che sono passati cinquant'anni. C'era la Guerra Fredda, la coscienza atomica, e nell'immediato la crisi di Cuba, pericolosissima, che probabilmente spinse il papa a questo intervento. Difficile dire se oggi stiamo meglio o peggio: all'equilibrio del terrore è seguita, dagli anni novanta, la guerra continua al nuovo nemico, che di questa guerra si alimenta.
Terrorismo e guerra si causano a vicenda. La guerra economica di pochi ricchi contro il resto del mondo si è potenziata e inferocita. Ogni guerra ne genera un'altra, per forza. Il rischio atomico è dimenticato, ma non diminuito. Al cattivo Iran si vieta giustamente l'atomica, ma gli stati nucleari – ingiustamente – non si disarmano, perciò perdono il diritto di vietare.
Papa Giovanni incoraggiava la pace sulla terra. La coscienza religiosa scendeva sulle terre (plurale) e, credendo anche nella pace piena escatologica, dichiarava di credere nella possibilità umana di pace nella storia, tra i popoli, nell'umanità come è ora, con le sue imperfezioni. La religione cristiana poteva così apparire non alienante, non traslocata in una soffitta ultraterrena, ma si dimostrava amante del mondo umano, impegnata a salvare le vite e le civiltà. Certo, contribuiva la simpatia umana dell'uomo Roncalli, la sua serenità consapevole del male e fiduciosa nel bene. Ma la sostanza della sua parola era l'amore divino per il mondo umano: la fedeltà alla terra non era più atea.
Indicava i “segni dei tempi”, anche rinnovando la forza di questo termine evangelico. I segni erano la coscienza della dignità umana, che nella modernità (fino a poco prima scomunicata dalla chiesa ) è più viva in tutti, ma specialmente nei lavoratori, nelle donne, nei popoli decolonizzati. Erano la carta dei diritti umani, le costituzioni. Erano (n. 67) la più diffusa persuasione che le controversie vanno risolte col negoziato e non con le armi, e il fatto che, specialmente nell'era atomica, è fuor di ragione – alienum a ratione - ritenere che la guerra possa essere strumento di giustizia (e di difesa, vorrei aggiungere). Era, infine, il germe nell'Onu di una organizzazione politica per il bene comune dell'intera unica famiglia umana.
Questa sensibilità nel riconoscere valori veri e buoni frutto del tempo non era ottimismo ingenuo, ma una vera teologia della storia, guardata come un “luogo teologico”, un cammino di Dio con noi umani, nel nostro travaglio che non è disperato e abbandonato a forze cieche e casuali. In ciò papa Giovanni sentiva con il Concilio la storicità della Parola detta da Dio all'umanità, che affiora ora più ora meno nelle vicende umane, ora più ora meno trasparenti alla «luce che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). La fede profetica e sperante riconosce la vicinanza di Dio non solo in parole antiche, ma nella fatica e nella lotta umana per amore della vita. Prima di predicare dottrine, la fede riconosce nel tempo, anche tra le nebbie, segni di salvezza (come i miracoli vivificanti di Gesù). La speranza è intelligente, e l'intelligenza è sperante.
L'enciclica era diretta a tutti gli uomini di buona volontà. Il linguaggio è religioso-cristiano, ma la sostanza è umana, universale, può essere condivisa anche senza la fede cristiana. E infatti così fu accolta da molte parti della cultura e dell'umanità. Possiamo volere tutti insieme che la vita umana e il mondo siano salvati, qualunque idea generale della realtà abbiamo.
Giovanni XXIII afferma e ripete che l'ordine morale è fondato in Dio, che la pace è esigenza di una natura umana chiara, immutabile. Questa antropologia è oggi contestata da una parte del pensiero. Noi saremmo solo frutto di una evoluzione continua, un accidente della natura fisica, figli del caso e della necessità. Ora, vedo due rischi: se pensiamo impossibile ogni consistenza oggettiva della nostra sostanza umana e dei relativi valori e diritti, benché in evoluzione, allora la difesa e l'affermazione di ciò che crediamo valido sarebbero affidate solo alla lotta e alla forza (cfr. Flores d'Arcais, MicroMega 5/2011 in discussione con Roberta De Monticelli). Se l'essere è solo volontà di potenza, Wille zur Macht, allora la ragione e la giustizia sono, di fatto, della forza violenta, come diceva Callicle contro Socrate.
Il rischio opposto, se insistiamo sull'evidenza oggettiva della natura umana, è la pretesa di imporre questa visione, come l'unica vera e giusta, a chi non la condivide. La nostra natura è davvero storica e mobile, ed è plasmata continuamente dalla cultura, ma sarebbe completamente manipolabile, come vuole ogni violenza, e non sarebbe degna di rispetto e tutela se non custodisse un valore non transitorio.
Forse l'insistenza di papa Giovanni sull'ordine naturale, oltre che frutto del suo pensiero sincero, vale come ricerca accorata di una base comune tra tutti gli uomini. Si tratta di sentire insieme, qualunque sia la nostra filosofia di vita e la sua espressione teorica, che siamo degni di non distruggerci, di non negarci a vicenda, di non lasciar decidere dalla violenza irragionevole i nostri conflitti. Il giusto cammino pratico, tra le differenti antropologie, è l'impegno elementare, ma universale, interculturale e interreligioso, alla com-passione, a ridurre le sofferenze, a non rassegnarsi alla sofferenza altrui. È questa la comune verità e dignità umana, al di sopra del caso cieco, che papa Giovanni vuole difendere. La Pacem in terris è l'enciclica della dignità (il termine ricorre 31 volte).
Questa ricerca è la sostanza della pace, ciò che unisce attraverso tutte le differenze, e che permette alla vita di fiorire nella bella diversità. Questo è il punto comune, razionale, di un cristiano che è anche papa, con tutti gli “uomini di buona volontà”.
Altri motivi da rilevare nell'enciclica sono almeno: diritti e doveri, legge e coscienza, l'uguaglianza, primato del lavoro sul capitale, il disarmo.

Enrico Peyretti, 28 gennaio 2013