Per Servitium entro
30 nov. 2013 “Umiltà della verità”
La verità dei
vinti (battute
12-14.000)
La verità è dei
vincitori.
I vinti due volte
La verità della
spada
La verità
silenziata continua a mormorare
Verità disarmata
La verità è dei vincitori
Ci sono i fatti, i risultati, e basta. I fatti credo che
siano i più potenti idoli del mondo, anche più del denaro e del
dominio. Non sono tutti necessariamente falsi, ma falsi quando
vogliono essere tutto, quando si imprimono nel reale senza lasciare
residui margini. Certo, sono un fatto sia il bene sia il male
compiuti. Quando si fa assoluto, senza relazione col
non-ancora-fatto, oppure con ciò che esso facendosi ha disfatto e
distrutto, allora il fatto vuol essere la verità, l'unico reale,
l'unica verità, l'unico dio.
Fatto è il participio passato di fare. Quel fatto è il
compiuto, il perfetto, la meta finale, la pienezza. Non c'è altro da
fare. Non ci sono alternative (Tina: there are not alternatives). Ciò
che era prima del fatto non è più. Oltre il fatto non c'è niente,
oppure un altro fatto. Anzi, i fatti sono come gli dèi, possono
lottare tra loro, ma ogni fatto, anche se disfatto, è una verità
perenne, perché è stato.
La verità, perché ci sia e si possa crederle, va
fatta. Non esiste se non è fatta. Altrimenti, è semplice utopia,
non-luogo, non-fatto. Sincero e felice è il disprezzo degli
adoratori dei fatti verso le vane verità senza corpo, luminescenze
ingannevoli nell'aria, incantatrici delle anime dette “belle”
perché pure e pulite, non toccano e non fanno: più che aver la
testa nelle nuvole hanno nuvole nella testa, cioè sogni, una fuga
fuori e lontano dai fatti.
Il fatto è questo: non vince la verità, ma chi vince
ha ragione, perciò ha la verità. La lotteria della storia non
premia chi è più vero, ma chi più può. Sono i vincitori che hanno
ragione. Ciò che è reale è razionale. La storia è l'unico
giudizio. Veritas filia temporis. Questi sono i fatti. Ed è scritto
bello grosso nei libri della storia umana, dal momento che li hanno
scritti i vincitori. I vinti hanno altro da fare che scrivere libri.
Come posso ora io dire qualcosa sul tema che mi è dato:
la verità dei vinti? In quella potente logica i vinti non hanno
ragione, non hanno verità: la loro presunta ragione e verità, in
cui hanno creduto, per la quale forse hanno lottato e sofferto con
passione, se c'era, è stata sopraffatta, smentita. La storia non è
fatta dai profeti disarmati. Questa è la dura lezione dei fatti. La
verità non può vincere se non si mette in braccio alla forza.
I vinti due volte
Il peggio è che anche i vinti, per lo più, avevano
questo modo di pensare. La loro verità si voleva affermare con gli
stessi metodi con cui i vincitori hanno affermato la loro. Entrati
in questa vera trappola per topi, hanno perso la prova di forza, e
con essa hanno perso la verità (ma davvero l'hanno persa?). È per
questo che Lev Tolstòj vede l'essenza del vangelo in quel «non
resistere al male» (Matteo 5,39), che non significa certo lasciargli
mano libera, ma vuol dire non entrare nel suo gioco, non opporsi al
male col male. Allora bisognerà cambiare gioco, inventarne uno più
vero, omogeneo alla verità. Gandhi continuò nel nostro tempo il
cammino indicato da Tolstòj.
I vinti che hanno
lottato alla maniera dei vincitori non hanno perso solo la battaglia
e la guerra. Hanno perso anche la verità (ma l'hanno persa proprio
definitivamente?). Si arriva ad un momento, ed è questo, in cui
quanti hanno lottato per la verità della giustizia, e quanti hanno
sostenuto la lotta dei più coraggiosi, vista la sconfitta di quella
verità, hanno lasciato cadere anche la fede in essa, la volontà di
affermarla, e si sono inchinati alla verità dei vincitori. Si sono
rassegnati, i più, hanno ascoltato le promesse di chi ha detto:
«fate come noi, fatevi gli affari vostri, arricchitevi anche da
soli, senza gli altri; il privato funziona meglio del pubblico, che
va a finire nel comunismo; non sognate l'impossibile, vedete quanti
delitti hanno commesso i vostri capi per fare la giustizia che
volevate» (e questo è anche vero, in buona parte, come è scritto
nei “libri neri del comunismo” regalati e predicati largamente
dai vincitori).
Siamo oggi in un
momento simile (ma è del tutto vero questo? Vedremo). Altro che
verità dei vinti! Hanno perso la partita e hanno perso la verità.
La verità della
spada
Si legge nei detti del Profeta dell'Islam: «Ho sentito
dire all'inviato di Dio – Iddio lo benedica e gli dia eterna salute
- : “Quando due si affrontano, armati di spada, l'ucciso e
l'uccisore andranno all'inferno”. Al-Ahnaf, figlio di Qays gli
chiese: “Questo per l'uccisore, o Inviato di Dio, ma perché per
l'ucciso?”. Rispose l'Inviato di Dio: “Perché bramava uccidere
il suo compagno”»1.
Come quello si merita l'inferno, così nella storia i
vinti, che pure avevano la verità del diritto rivendicato, della
dignità da difendere e liberare, molto spesso hanno meritato di
perdere perché hanno giocato il gioco del potente, più attrezzato e
più spregiudicato di loro. Davvero chi ha vinto ha la dura verità
di un mondo e di una storia in cui conta la forza bruta e non il
diritto e la ragione.
Nell'ultimo messaggio dal Palazzo della Moneda, Salvador
Allende diceva una verità: «Hanno
la forza, ma non la ragione». Lui è morto e gli altri hanno vinto.
La ragione quelli se la prendono con la forza. È una verità
che la verità non vinca.
Allora, ci sono due verità? Sì.
La verità
silenziata continua a mormorare
In quel detto del Profeta, come nella profezia biblica
ed evangelica, appare una visione diversa da quella che eguaglia
verità e vittoria, verità e potere, verità e fatto. La spada non
scrive verità e giustizia, per nessuno, né che vinca né che perda.
L'inferno coranico è un secondo giudizio, un giudizio d'appello: tu
hai vinto, tu hai perso ma volevi vincere, entrambi cercavate la
verità con la spada, entrambi avete perso la verità della vita, e
un giudizio più vero delle vostre spade vi condanna entrambi.
Questo giudizio non grida, non risuona nelle piazze e
nei palazzi, nei libri della grande storia. La parola profetica è
contraria alla verità dei vincitori. Questa risuona, brilla e romba
come il metallo delle spade. Quella profetica mormora anche
imbavagliata. Diceva Mazzolari che la testa di Giovanni Battista
parlava più sul piatto che sul collo.
C'è un'altra verità. C'è la verità dei vinti. C'è,
anche se i vinti stessi non ci credono più; c'è, anche se imitando
la violenza che ha premiato i vincitori, essi hanno tradito la verità
che avevano. C'è una verità invincibile. Sono vinti gli uomini, non
la loro verità. Ho tentato più volte2,
non so con quale capacità comunicativa, di capire e mostrare che la
dignità violata non è annullata, ed anzi l'offesa la fa brillare,
risaltare, come il martello trae scintille dal ferro. Non c'è solo
un divieto – non uccidere -, ma una impossibilità: quella dignità
non viene uccisa.
La dignità inviolabile del passante sconosciuto, a me
indifferente, io la scorgo quando qualcosa o qualcuno lo offende e io
devo difenderlo. Se il Samaritano soccorre il ferito è perché nel
ferito, nel mezzo-morto, c'è la verità, e lui la vede. Al vedere,
lui aggiunge la decisione e l'azione, ciò che i sacerdoti in zelante
cammino per l'ora del culto non vollero o non seppero fare.
C'è una dignità
che rimane anche in chi la ignora e la perde: il delinquente resta un
uomo che ha offeso un altro uomo, eppure conserva la possibilità e
il compito di ritrovare l'umanità offesa nell'altro come in se
stesso. C'è una immortalità della dignità.
La violenza
evidenzia una in-violabilità. Non deve essere violata quella
dignità. Non può essere violata, di una impossibilità non solo
morale, ma reale: non è solo un precetto, che può essere
disobbedito, ma una realtà, che l'offesa non distrugge. La dignità,
la verità del vivente non deve e non può essere distrutta.
Da
qualche parte ho letto di un maestro buddhista che dice ad una donna
ripetutamente e in molti modi profondamente offesa: «Nessuno
ti ha fatto niente». A rischio di aggiungere un'offesa alle offese
fattele, quel maestro le dice che in lei c'è una realtà che le
offese non raggiungono, c'è un valore inviolabile. L'offesa è
impotente contro la verità.
Il fondamento della
dignità è trascendente, non dedotto, è mistero. Mistero non vuol
dire oscurità enigmatica, ma realtà superiore alla dicibilità, è
l'ineffabile: lo colgo e non posso argomentarlo. Io non so e non
misuro in cosa consiste quel misterioso valore, quindi non tocco, non
devo toccare, devo non toccare quel valore. E neppure posso. Se lo
tocco, posso distruggerne l'immagine, ma non ne distruggo la
sostanza. Inutile sparare contro il vento: il vento si mangia le
pallottole, e prosegue il suo volo.
La verità parla
nel vinto
C'è la verità incancellabile dei vinti. È la stessa
verità delle vittime. Da qualche parte dice Nietzsche, proprio lui,
che l'uccisore non si libera più dall'ucciso. Non lo intendo come
rimorso, ma come presenza. Il diritto sussistente che hai voluto
sopprimere ti si attacca alla mano, come il miele che volevi rubare,
per continuare a chiamarti alla sua verità. Alla fine gli sarai
grato, perché è lui a darti la vita che volevi annullargli, è lui
che ti dà la verità di te stesso che avevi perduto. Magari la
giustizia penale – già l'aggettivo “penale”, cioè il
raddoppio della sofferenza, ne denuncia l'ingiustizia! - conoscesse
queste dinamiche della nostra sostanza umana, che, mentre si autonega
nell'offendere altri, può risorgere dalle proprie ceneri morali
nell'incontrare l'umanità innegabile che gli sorge di fronte e lo
chiama dal sangue della vittima.
Il sangue di Abele dice una vivente umanità più del
pugno di Caino. Per questo Dio lo ascolta più di quanto ascolti la
giustizia vendicativa della società (Genesi 4, 10 e 15). Dio ascolta
il sangue di Abele, ma alla fine il sangue di Abele parla anche per
Caino, ed è una parola di vita, mentre lui pensava ormai solo di
dover morire: «Chiunque
mi troverà mi ucciderà».
Nessuno esiste da solo. Nessuno tocca l'altro senza
toccare se stesso.
Il grido della verità
Simone
Weil: «Tutte le volte che sorge dal profondo di un cuore umano il
lamento del fanciullo che Cristo stesso non ha saputo trattenere:
“Perché mi viene fatto del male?”, vi è certamente
ingiustizia». E questo perché «c’è nell’intimo di ogni essere
umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta
l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa
che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del
male, È questo, prima di tutto, che è sacro in ogni essere umano».
3
In
quel lamento, in quel grido, anche di un animale, c'è tutta la
verità. La sacra attesa del bene è la verità. La violenza ad una
coscienza e ad una vita è violenza alla verità.
Dobbiamo
guardare la violenza, cercare le notizie meno enfatizzate o più
nascoste, guardare dietro il voyeurismo e il clamore delle cronache
nere, conoscere anche le statistiche dell'ingiustizia e
dell'arroganza, nominare le vittime coi loro nomi cancellati e
mostrare i loro volti sfigurati o sepolti. Della rumorosa violenza,
ascoltiamo non il fracasso dei carri dei vincitori e delle loro
trombe, ma il silenzio gemente delle vittime. Oltre il loro dolore
dicono la verità, perché è la verità la prima vittima di ogni
guerra e violenza. Ancora Simone Weil: «La
verità fugge dal campo dei vincitori». Si capovolge la scena che
vedevamo all'inizio: i vincitori proprietari dell'unica verità.
Se siamo cristiani,
veneriamo la croce non per adorare la potenza omicida (abbiamo
persino pensato che Dio, il Padre, abbia voluto servirsi di questo
delitto sacrificale sul Figlio per usarlo come strumento contro i
delitti-peccati dell'umanità), ma per riconoscere la verità del
vinto, della vittima non sacrificale di Dio, ma criminale dei
potenti.
Verità disarmata
La verità dei vinti e delle vittime non è solo umile,
come la verità cosciente di essere imperfetta, ma è umiliata,
schiacciata verso terra (humus), come per seppellirla, e così
umiliata diventa un seme che morendo dà frutto. Il seme è più
forte della spada.
La verità dei vinti sta di fronte, come alternativa,
alla verità potente, insediata al potere. La verità disarmata di
fronte alla verità armata. Questa seconda espressione è un ossimoro
stridente: verità e arma. Non per nulla abbiamo l'immagine della
verità come un corpo di donna (la prima delle meraviglie del mondo)
sottile, bello e nudo, lucente di luce propria, non bisognoso di
nessun riparo, rinforzo, sostegno. La verità si dimostra da sola,
come un volto che parla già con gli occhi. Anche le nostre umili
verità, peregrinanti nel cammino della luce che attira e illumina
ogni uomo (Giovanni 1,9), non hanno bisogno di forze aggiunte, di
supporti rigidi.
Quando Costantino aiuta Cristo, Cristo scompare quasi
del tutto. Erode e Pilato credevano di ucciderlo, e fu più vivo di
prima. Costantino – ed ogni cesaro-papismo, anche ateo ma devoto -
cerca di annetterselo, per farsene forte, e ne falsifica il
messaggio, l'eredità, la promessa. Portandolo nel palazzo lo toglie
ai poveri. (Ma riesce a toglierlo veramente?).
Mi ritrovo a fare frequente riferimento a
quell'affermazione a mio parere centrale di Raimon Panikkar,
dove dice che è compito attuale della filosofia «disarmare
la ragione armata». «La filosofia è spesso interpretata come la
ricerca della verità con il fucile della ragione, anche se
spessissimo è solo una caccia alla chiarezza con la pistola di
Calculus» 4
Una ragione armata, aggressiva, non amante e
contemplativa, non saprà trovare altro che una verità conforme,
armata, umiliante, che offende altra verità per affermare se stessa.
Se la verità dei potenti è un animale da catturare con
le armi – e infatti il potere si raffigura negli stemmi e sulle
monete proprio come aquila, leone, bestia feroce, rapace, divorante –
la verità umiliata e umile dei vinti e delle vittime ha una sua
forza innocente e innocua, semmai vitale e vitalizzante, resistente
alla violenza. Amo insistere sulla differenza tra forza, che è vita,
e violenza, che è violazione della vita.
Continua
Panikkar: «La
ragione non si disarma da sola», né ad opera di una ragione più
forte. «Deve
incontrare la funzione dello spirito e il compito del mito».
«Intendo per filosofia più la sapienza dell'amore che l'amore per
la sapienza».
Ci sono i vinti che hanno perso anche la loro verità,
perché hanno accettato quella armata, violenta, dei vincitori. Ma
c'è un altro tipo di vinto: quello che ha lottato con mezzi diversi
dalla spada. Il lottatore nonviolento ha lottato con “la forza
della verità” (Gandhi), con la “forza dell'amore” (Martin
Luther King). Quando lui è sconfitto, è sconfitta con lui anche la
verità? No, è sconfitto, non è colto ma rinviato un momento in cui
poteva affermarsi una verità umana migliore dei fatti in corso.
Michael N. Nagler, in Per un futuro nonviolento
(Ponte alle grazie, 2005), dopo aver esaminato alcuni casi efficaci
di resistenza nonviolenta al nazismo, conclude: «la nonviolenza ogni
tanto “funziona”, ma è sempre efficace. La violenza ogni tanto
“funziona”, ma non è mai efficace». Che cosa intende Nagler col
termine “funzionare”, che mette tra virgolette? Vuol dire che la
nonviolenza a volte, ma non sempre, ottiene del tutto ciò che
vogliamo, ma ha sempre un effetto positivo sull’intero sistema.
Neppure la violenza vince sempre (per il vinto in guerra la violenza
è fallita), ma di certo non lascia mai un seme fecondo. Quella che
Nagler chiama qui “efficacia”, non è altro che quella
“fecondità” che troviamo detta da Merleau-Ponty:
«La regola dell’azione non è (…) l’efficacia a ogni costo, ma
anzitutto la fecondità» (Segni,
Il Saggiatore 1967, p. 102).
Allora, la verità del vinto violento, le sue ragioni e
pretese, nell'immediato sono vinte con lui, travolte dalla vittoria
che lega e calpesta, e possono scomparire dalla storia. Ma le verità
– i diritti, i valori, le dignità – difese dal lottatore
nonviolento, non scompaiono affatto con la sua sconfitta. Esse
rimangono come semi, se sono vivi e degni, in un processo di
fecondazione del cammino umano. Ma anche le verità del vinto armato,
se sono verità più grandi, più intere in termini di umanità,
rispetto agli interessi e pretese di parte, non saranno estinte con
la sconfitta. La lotta nonviolenta le dovrà riprendere e difendere
con altri mezzi, le consegnerà più pulite e inequivoche alla storia
successiva, mentre la lotta violenta le lascerà equivocamente
confuse con pretese parziali e legate a motivi meno umanamente veri.
Pier
Cesare Bori, nel libro Per
un consenso etico fra culture (Marietti
1995, p. 106-108) raccoglie alcuni «tra
gli antichi, profondi
convincimenti che molta parte, la parte migliore dell’umanità ha
posto a base del suo vivere in società, che ha espresso in una
straordinaria varietà di culture popolari tra loro non isolate e ha
trasmesso soprattutto attraverso la sapienza della donna, sino al
momento presente, riproposti da maestri come Simone Weil, Albert
Schweitzer. Mohandas Karamchand Gandhi, Lev Tolstoj e altri, ci
stanno ora dinanzi come una istruzione necessaria al vivere, anzi al
sopravvivere umano».
Tra questi convincimenti della sapienza umana, leggiamo: «il
privilegio e l'onore riconosciuto ai deboli»; «la tranquillità e
la pace che vengono dalla certezza di una giustizia non affidata alla
storia».
L'umanità ha anche
questo pensiero, che si trasmette nell'umiltà della buona pedagogia
domestica. Alcune grandi voci di sapienti l'affermano sulla scena
della cultura, in tensione e alternativa con molti più forti
teorizzatori della verità identificata col fatto, con la storia.
La giustizia, per quei sapienti, non
è tutta nella storia (Bori), non è la verità dei vincitori di
fatto.
Nei vinti e nelle
vittime qualcosa è calpestato, tacitato, sepolto. Andiamo a vederne
la verità. Lì qualcosa abbiamo perduto, occultato, o distrutto.
Pensiamo alle civiltà umane cancellate senza memoria. Spesso chi ha
“perso” una guerra, un conflitto eliminatorio, rappresenta una
forma umana smarrita, una verità dimenticata, difficile o
impossibile da ricuperare. Chi ha perso è l'umanità nella sua varia
ricchezza.
I vinti e le
vittime
Intanto possiamo distinguere i vinti dalle vittime. I
vinti volevano vincere Le vittime volevano vivere libere.
Che c'è di
male-falso nel vincere una guerra o una competizione di potere? C'è
che non è come estrarre il biglietto buono alla lotteria. Nella
lotteria il patto è che uno vince, ma nessuno è saccheggiato:
l'acquisto volontario del biglietto è un contributo alla cassa
comune, che per gioco e per sorteggio premia uno dei giocatori.
Ben altro accade
nella competizione dura, come la guerra, dove vincere è “vincolare”,
legare, impedire, opprimere-sopprimere, dominare, dettare legge.
Nella vittoria si proclama: questo è il diritto, il giusto, la mia
volontà è verità: Quod
principi
placuit, legis habet
vigorem.
La verità
è del vincitore. È buffo: la “paci” che i ragazzi devono
studiare a scuola, con un nome di località e una data da ricordare
bene, non sono paci: sono bel bello il culmine e lo scopo della
guerra, l'atto supremo di guerra; sono l'imposizione della volontà
del vincitore al vinto. Non occorre più uccidere, cessa il fuoco,
perché il fine dell'uccidere è raggiunto: non ti uccido più perché
ora vivi come voglio io e fai quello che io ti comando. E noi
chiamiamo pace questo potere, che è guerra statica, violenza
strutturale invece che diretta e cruenta. Ma questo imbroglio
concettuale avviene grazie ad un concetto violento, grazie alla
violenza culturale: cioè l'idea che la vera regina governante la
storia è la violenza, la prova eliminatoria su misura della
violenza. 5
È la verità del
lupo sull'agnello. La verità di fatto (quella del lupo) è vista
come verità di diritto (quella dell'agnello). La prima verità
divora la seconda prima che l'animale grosso divori l'animale
piccolo.
«Un lupo e un
agnello, spinti dalla sete, si ritrovarono a bere nello stesso
ruscello. Il lupo era più a monte, mentre l'agnello beveva a una
certa distanza, verso valle. La fame però spinse il lupo ad attaccar
briga e allora disse: "Perché osi intorbidarmi l'acqua?".
L'agnello tremando rispose: "Come posso fare questo se l'acqua
scorre da te a me?". "E' vero, ma tu sei mesi fa mi hai
insultato con brutte parole". Impossibile, sei mesi fa non ero
ancora nato". "Allora" riprese il lupo "fu
certamente tuo padre a rivolgermi tutte quelle villanie". Quindi
saltò addosso all'agnello e se lo mangiò. Questo racconto è
rivolto a tutti coloro che opprimono i giusti nascondendosi dietro
falsi pretesti».
Qui è fin troppo
chiaro. I pretesti del lupo sono falsi. Sono falsi per noi, umani tra
umani, ma non sono falsi quando gli uomini si sentono e si atteggiano
a lupo verso l'altro: homo homini lupus. Eppure questa antropologia
non è un assoluto. Ernesto Balducci diceva che questo è il “sofisma
machiavellico” poi teorizzato da Hobbes, e tristemente patito nel
pensiero di molti, tra cui Norberto Bobbio, il quale, sul problema
angoscioso della guerra, cercava con passione e acribia vie d'uscita
verso la pace.
È chiaro che quel
pensiero pessimista non è una incitazione alla guerra, non è uno
“slogan” (che voleva dire, appunto, grido di guerra), ma una
triste constatazione realistica di ciò che molto (troppo) spesso
accade nei rapporti umani. Ma accade solo questo? Il lupo di Gubbio,
era spinto dalla fame ad aggredire, ma seppe udire le ragioni di
Francesco e l'accordo fra la sua fame e la tranquillità dei
cittadini di Gubbio fu trovato, con la possibilità per tutti di
vivere insieme.
2
Per esempio in Il bene della pace. La via della nonviolenza,
Cittadella, Assisi 2012, pp. 127 e ss.
4
Raimon
Panikkar, La
torre di Babele. Pace e pluralismo,
Edizioni Cultura della Pace, Fiesole, 1990, pp. 47, 163, 52, 49.
5
Ho raccolto in Dov'è
la vittoria? Ed. Gabrielli 2005, una
“piccola antologia aperta sulla miseria e la fallacia del vincere”
contenente 115 testi. Oggi sarei in grado di quasi raddoppiare la
raccolta.
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