Per
“Confronti” n. 3/2013
Rileggere
oggi la Pacem in terris:
la fedeltà
alla terra non è più atea
Rileggendo
oggi la Pacem in terris si sente che sono passati cinquant'anni.
C'era la Guerra Fredda, la coscienza atomica, e nell'immediato la
crisi di Cuba, pericolosissima, che probabilmente spinse il papa a
questo intervento. Difficile dire se oggi stiamo meglio o peggio:
all'equilibrio del terrore è seguita, dagli anni novanta, la guerra
continua al nuovo nemico, che di questa guerra si alimenta.
Terrorismo
e guerra si causano a vicenda. La guerra economica di pochi ricchi
contro il resto del mondo si è potenziata e inferocita. Ogni guerra
ne genera un'altra, per forza. Il rischio atomico è dimenticato, ma
non diminuito. Al cattivo Iran si vieta giustamente l'atomica, ma
gli stati nucleari – ingiustamente – non si disarmano, perciò
perdono il diritto di vietare.
Papa
Giovanni incoraggiava la pace sulla terra. La coscienza religiosa
scendeva sulle terre (plurale) e, credendo anche nella pace piena
escatologica, dichiarava di credere nella possibilità umana di pace
nella storia, tra i popoli, nell'umanità come è ora, con le sue
imperfezioni. La religione cristiana poteva così apparire non
alienante, non traslocata in una soffitta ultraterrena, ma si
dimostrava amante del mondo umano, impegnata a salvare le vite e le
civiltà. Certo, contribuiva la simpatia umana dell'uomo Roncalli, la
sua serenità consapevole del male e fiduciosa nel bene. Ma la
sostanza della sua parola era l'amore divino per il mondo umano: la
fedeltà alla terra non era più atea.
Indicava
i “segni dei tempi”, anche rinnovando la forza di questo termine
evangelico. I segni erano la coscienza della dignità umana, che
nella modernità (fino a poco prima scomunicata dalla chiesa ) è più
viva in tutti, ma specialmente nei lavoratori, nelle donne, nei
popoli decolonizzati. Erano la carta dei diritti umani, le
costituzioni. Erano (n. 67) la più diffusa persuasione che le
controversie vanno risolte col negoziato e non con le armi, e il
fatto che, specialmente nell'era atomica, è fuor di ragione –
alienum a ratione
- ritenere che la guerra possa essere strumento di giustizia (e di
difesa, vorrei aggiungere). Era, infine, il germe nell'Onu di una
organizzazione politica per il bene comune dell'intera unica famiglia
umana.
Questa
sensibilità nel riconoscere valori veri e buoni frutto del tempo non
era ottimismo ingenuo, ma una vera teologia della storia, guardata
come un “luogo teologico”, un cammino di Dio con noi umani, nel
nostro travaglio che non è disperato e abbandonato a forze cieche e
casuali. In ciò papa Giovanni sentiva con il Concilio la storicità
della Parola detta da Dio all'umanità, che affiora ora più ora meno
nelle vicende umane, ora più ora meno trasparenti alla «luce
che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). La fede profetica e sperante
riconosce la vicinanza di Dio non solo in parole antiche, ma nella
fatica e nella lotta umana per amore della vita. Prima di predicare
dottrine, la fede riconosce nel tempo, anche tra le nebbie,
segni di salvezza (come i miracoli vivificanti di Gesù). La speranza
è intelligente, e l'intelligenza è sperante.
L'enciclica
era diretta a
tutti gli uomini di buona volontà. Il linguaggio è
religioso-cristiano, ma la sostanza è umana, universale, può essere
condivisa anche senza la fede cristiana. E infatti così fu accolta
da molte parti della cultura e dell'umanità. Possiamo volere tutti
insieme che la vita umana e il mondo siano salvati, qualunque idea
generale della realtà abbiamo.
Giovanni
XXIII afferma e ripete che l'ordine morale è fondato in Dio, che la
pace è esigenza di
una natura umana chiara, immutabile. Questa antropologia è oggi
contestata da una parte del pensiero. Noi saremmo solo frutto di una
evoluzione continua, un accidente della natura fisica, figli del caso
e della necessità. Ora, vedo due rischi: se pensiamo impossibile
ogni consistenza oggettiva della nostra sostanza umana e dei relativi
valori e diritti, benché in evoluzione, allora la difesa e
l'affermazione di ciò che crediamo valido sarebbero affidate solo
alla lotta e alla forza (cfr. Flores d'Arcais, MicroMega
5/2011 in discussione con Roberta De Monticelli). Se l'essere è solo
volontà di potenza, Wille zur Macht, allora la ragione e la
giustizia sono, di fatto, della forza violenta, come diceva Callicle
contro Socrate.
Il
rischio opposto, se insistiamo sull'evidenza oggettiva della natura
umana, è la pretesa di imporre questa visione, come l'unica vera e
giusta, a chi non la condivide. La nostra natura è davvero storica e
mobile, ed è plasmata continuamente dalla cultura, ma sarebbe
completamente manipolabile, come vuole ogni violenza, e non sarebbe
degna di rispetto e tutela se non custodisse un valore non
transitorio.
Forse
l'insistenza di papa Giovanni sull'ordine naturale, oltre che frutto
del suo pensiero sincero, vale come ricerca accorata di una base
comune tra tutti gli uomini. Si tratta di sentire insieme, qualunque
sia la nostra filosofia di vita e la sua espressione teorica, che
siamo degni di non distruggerci, di non negarci a vicenda, di non
lasciar decidere dalla violenza irragionevole i nostri conflitti. Il
giusto cammino pratico, tra le differenti antropologie, è l'impegno
elementare, ma universale, interculturale e interreligioso, alla
com-passione, a ridurre le sofferenze, a non rassegnarsi alla
sofferenza altrui. È questa la comune verità e dignità umana, al
di sopra del caso cieco, che papa Giovanni vuole difendere. La Pacem
in terris è l'enciclica della dignità (il termine ricorre 31
volte).
Questa
ricerca è la sostanza della pace, ciò che unisce attraverso tutte
le differenze, e che permette alla vita di fiorire nella bella
diversità. Questo è il punto comune, razionale, di un cristiano che
è anche papa, con tutti gli “uomini di buona volontà”.
Altri
motivi da rilevare nell'enciclica sono almeno: diritti e doveri,
legge e coscienza, l'uguaglianza, primato del lavoro sul capitale, il
disarmo.
Enrico Peyretti, 28
gennaio 2013
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