domenica 29 aprile 2018

IL GANDHI MUSULMANO


Il 20 gennaio 2008 sono stati venti anni dalla morte di un singolare protagonista della nonviolenza, musulmano. Qui riassumo il libro di Easwaran che ne presenta la vita, lo spirito e l’opera. Ho steso questa sintesi prima di conoscere la scheda essenziale che dallo stesso libro ha tratto Giorgio Barazza, e prima di leggere la sintesi, più breve della mia, che ne ha fatto Francesco Pullia.
Seguono due brevissime schede.

Eknath Easwaran, Badshah Khan, il Gandhi musulmano, traduzione di Lorenzo Armando, Ed. Sonda, Torino 1990 (1984), pp. 250.
È uscita presso lo stesso editore una seconda edizione di questo libro, nel 2008, con prefazione di Elvio Arancio e Luisa Mondo e una postfazione di Nanni Salio, pp. 213, euro 14,00

Abdul Ghaffar Khan, detto Badshah Khan, il “re dei khan” (1890-1988) è ricordato con questi vari nomi. Fu il leader che guidò una popolazione guerriera e feroce come i pathan, ovvero pashtun (= Afghani), della Frontiera, la “porta dell’India” (oggi tra Pakistan e Afghanistan), di religione musulmana, e li condusse ad adottare la nonviolenza contro le repressioni molto violente del dominio inglese (vedi Scheda 1). Quella è la terra di Zoroastro, degli inni vedici, della cultura buddhista, prima che vi arrivasse l’islam. Badshah Khan trovò proprio nella sua fede islamica l'ispirazione alla nonviolenza. La sua figura storica è importante per sfatare la rozza identificazione odierna tra islam e violenza.
Gandhi osservò che proprio il violento coraggioso nella difesa di diritto e dignità è il più disponibile a capire e vivere la "nonviolenza del forte". Egli scrive: «Mentre non c’è alcuna speranza di vedere un vile diventare nonviolento, questa speranza non è vietata ad un uomo violento» (Antiche come le montagne, Ed. Comunità, Milano 1965, p. 168; citato da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Pisa University Press 2004, p. 271).
«Musulmano è colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio. La fede in Dio è amore del proprio compagno». Sono parole di Khan citate in questo libro (p. 61). Il giovane Ghaffar apprese da suo padre Behram Khan lo spirito del perdono, davvero singolare in quella società che aveva il codice della vendetta come regola di onore. Era un ragazzo negli anni della Guerra della Frontiera, la rivolta dei pathan nel luglio 1897 (raccontata da Winston Churchill, ventitreenne corrispondente di guerra arruolato nel 4° ussari), repressa dagli inglesi che distrussero i raccolti, tagliarono gli alberi (azione feroce di guerra vietata dal Corano), avvelenarono i pozzi, demolirono le case. Ma fu una vittoria di Pirro: l’ostilità dei pathan durerà nei decenni, fino ad oggi. Non lo capì Churchill, ma lo capì Annie Besant, inglese, che già si batteva per l’autogoverno indiano.
Nel 1879 la Gran Bretagna aveva imposto la sua influenza sull’Afghanistan, in funzione anti-russa (la storia si ripete!). Inutilmente l’emiro afghano aveva ammonito gli inglesi sulla indomabilità dei pathan. Poco dopo il “giubileo di diamante” della regina Vittoria (giugno ’97), l’impero stava diventando una trappola.
Come Gandhi indù, così Abdul Ghaffar musulmano riceve un’educazione inglese, senza perdere il cuore della propria tradizione. Dapprima si arruola nelle “guide”, un corpo scelto a servizio dell’impero, ma poi ne esce, perché gli inglesi trattavano i pathan da inferiori. Lavora la terra e osserva le condizioni del suo popolo. Il suo percorso è simile a quello di Gandhi. Il viceré Curzon “viviseziona” con le deportazioni la nazione pathan. In queste condizioni, Abdul Ghaffar apre una scuola nel suo villaggio di Utmanzai e poi altre nei villaggi vicini, nonostante l’avversione dei mullah tradizionalisti e gli ostacoli della legge inglese. Ormai ha scelto la via delle riforma sociale educativa per servire il suo popolo. Si sposa, ha un figlio che lo aiuterà. Incontra altri leader musulmani impegnati nella promozione culturale del popolo e si dedica in particolare alle tribù delle montagne, governate dagli inglesi con durezza, isolamento, umiliazioni. Tra di loro, in preghiera e digiuno, trova la sua via, che seguirà per settant’anni: il servizio di Dio nel servire i poveri, gli ignoranti, i violenti. Negli stessi anni, Gandhi avvia in Sudafrica il satyagraha, fino al suo ritorno in India, nel 1914.
Molti indiani combatterono e morirono per l’impero inglese nella prima guerra mondiale, ma, nonostante le illusioni, le condizioni dell’India risultarono più dure di prima. Ghaffar sente parlare di Gandhi e delle sue campagne, si riconosce nel suo scopo e nei suoi metodi. Tra il 1915, quando muore improvvisamente la moglie amata, e il 1918, Ghaffar visita tutti i 500 villaggi delle basse valli della Frontiera. La gente lo acclama badshah khan.
Nel 1919, dopo la strage di Amritsar, Gandhi prepara la rivolta nonviolenta contro il dominio inglese. Ghaffar è imprigionato per sei mesi senza processo, e così tante altre volte. La sua colpa è educare il popolo. I genitori lo inducono a risposarsi. Partecipa nel 1920 alla sessione del Congresso che decide la lotta nonviolenta. Sente come un dovere sacro la lotta per la libertà. In carcere rifiuta la libertà sottoposta alla condizione di non girare più per i villaggi; impressiona tutti per la scrupolosa osservanza del regolamento e la forte capacità di soffrire; rifiuta miglioramenti ottenibili con la corruzione. Un carceriere riconosce che Ghaffar è in prigione «per conto di Dio». In prigione, incontrando altri indipendentisti indù e cristiani, impara a conoscere e rispettare le altre religioni. Intanto, gli muore l’amata madre. Scarcerato nel 1924, sebbene molto provato dopo tre anni di prigione, è ormai accolto come un leader dai pathan.
Egli sente più di tutti la contraddizione intrinseca alla mistica della vendetta e della violenza, tipica dei fieri pathan, che preferiscono rubare piuttosto che mendicare, uccidere piuttosto che patire un dolore. Molte storie di vendette familiari gli dicono che il pathan non è un assassino irresponsabile, ma la vittima del suo distorto codice d’onore. Ghaffar comprende che la politica dell’impero inglese ha buon gioco nel mettere i pathan gli uni contro gli altri: impegnati a tagliarsi la gola tra di loro non pensano alla libertà. Intuisce che la violenza pathan è frutto di ignoranza, superstizione e del peso schiacciante dell’abitudine. Così sprecano il loro coraggio e forza. Sa che il suo compito è educare, illuminare, risollevare, ispirare. Insegnerà ai pathan che il vero coraggio è essere nel giusto. Egli riuscirà in questo perché è un vero pathan, che può capire nell’intimo i pathan.
Vedo due lezioni, a questo punto della storia che percorriamo: la nonviolenza non può essere importata, ma può crescere solo dall’interno di una cultura, che discute e riforma se stessa, sulle sue basi positive; se i pathan capirono la nonviolenza, anche popolazioni soggette alla cultura mafiosa, ma non prive di umanità, possono capirla e viverla.
Nel 1926 gli muore il padre e, per una caduta durante il pellegrinaggio alla Mecca, la seconda moglie, dopo di che fa voto di non risposarsi per dedicarsi interamente al servizio del popolo. Come Gandhi, Ghaffar valorizza molto il ruolo attivo delle donne nel movimento. Fonda una rivista in lingua pakhtu, che discute di igiene, temi sociali, diritti delle donne, dignità del popolo pathan. Egli pratica già la sostanza del “programma costruttivo” di Gandhi.
Nel 1928 incontra Gandhi, ne riceve profonda impressione, e impara da lui la tolleranza e pazienza che manca nei leader islamici. Incontra anche Nehru. Si inserisce nella lotta per l’indipendenza indiana, dando coscienza politica ai pathan: «Dovete vivere per la comunità. È l’unica strada che conduca alla prosperità e al progresso» (p. 129).
Ci voleva un esercito, sì, ma di gente libera sia dalla violenza dei fisicamente forti sia dalla nonviolenza dei moralmente deboli. Badshah Khan insegnò ai pathan che la massima forma di onore e di coraggio era affrontare un nemico per una giusta causa senza indietreggiare e senza imitare con l’uso delle armi la sua violenza, combattendo anche contro la propria violenza.
Riuscì così a costituire il primo “esercito” nonviolento della storia addestrato professionalmente. Tutti i pathan potevano entrarvi, uomini e donne, purché pronunciassero questo giuramento (per i pathan giurare impegna la vita):
«Sono un khudai kidmatgar (servo di Dio), e poiché Dio non ha bisogno di essere servito, ma servire la sua creazione è servire lui, prometto di servire l’umanità nel nome di Dio.
Prometto di astenermi dalla violenza e dal cercare vendetta.
Prometto di perdonare coloro che mi opprimono o mi trattano con crudeltà.
Prometto di astenermi dal prendere parte a litigi e risse e dal crearmi nemici.
Prometto di trattare tutti i pathan come fratelli e amici.
Prometto di astenermi da usi e costumi antisociali.
Prometto di vivere una vita semplice, di praticare la virtù e di astenermi dal male.
Prometto di avere modi gentili ed una buona condotta, e di non condurre una vita pigra.
Prometto di dedicare almeno due ore al giorno all’impegno sociale».
Questo esercito volontario e gratuito cominciò con 500 reclute, la divisa era una camicia rossa (gli inglesi li vedono come infiltrati sovietici), le funzioni erano aprire scuole, sostenere progetti di lavoro, mantenere l’ordine nelle assemblee, sviluppare l’autogoverno della società. Marciando sulle montagne cantavano il loro inno:
«Siamo l’esercito di Dio, / non ci importano morte o ricchezza, / marciamo, noi e il nostro capo, / pronti a morire. / Noi serviamo ed amiamo / il nostro popolo e la nostra causa. / La libertà è il nostro scopo, / le nostre vite il prezzo da pagare» (p. 132).
Badshah Khan diceva a questi “soldati”: «Vi sto fornendo un’arma a cui la polizia e l’esercito non potranno resistere. È l’arma del Profeta: la pazienza e la giustizia sono quest’arma. Nessun potere sulla terra può resisterle». Egli sviluppava così la sabr, la pazienza, che nel Corano è la virtù centrale nella “guerra santa” tra il bene e il male che ogni persona ha da combattere nel proprio cuore, facendone la virtù del nonviolento forte. Così, sabr, insieme a lâ unf, è il termine che significa nonviolenza in arabo (p. 135).
Come i coloni americani nel luglio 1776 a Philadelphia, così, in termini simili, cinquemila delegati del Congresso a Lahore, il 31 dicembre 1929, e il giorno dopo assemblee di massa in tutta l’India, dichiaravano se stessi e tutti gli indiani uomini e donne liberi, da quel momento e per sempre. Ma aggiungevano: «La strada più efficace per ottenere la libertà non passa per la violenza. (...) Se riusciamo a ritirare la nostra collaborazione volontaria con il governo inglese, e siamo disposti alla disobbedienza civile, compreso il rifiuto di pagare le tasse, senza compiere violenze neanche se provocati, la fine di questo dominio disumano è certa».
Nel marzo del 1930, Gandhi, dopo averla annunciata al viceré, guidava la “marcia del sale”, ribellione nonviolenta al monopolio inglese su un bene prezioso come l’acqua nel clima tropicale. Centomila persone, compreso Gandhi, finirono in prigione. Nella regione della Frontiera la repressione fu più intensa e brutale, come documentò una commissione del Congresso. Badshah Khan, col suo “esercito” di camicie rosse, intensificò l’azione di educazione e organizzazione nei villaggi, ma fu arrestato dagli inglesi e condannato a tre anni di carcere.
Manifestazioni nonviolente di persone disarmate furono investite da carri armati inglesi nel bazar di Kissa Khani, con quasi trecento morti e altri feriti, colpiti a sangue freddo tra la folla che rimaneva ferma di fronte agli spari dei soldati. Il massacro (simile a quello di Amritsar del 1919) è documentato nei giornali anglo-indiani del tempo e negli studi di Gene Sharp. Ma tiratori scelti garhwali si rifiutarono di sparare sulla folla: «Noi non spareremo sui nostri fratelli disarmati». Solo alcune tribù delle montagne, tra le quali fu sempre impedito a Badshah Khan di agire, compirono incursioni violente, mentre Khan era in carcere. Alcuni scrittori inglesi hanno usato questi fatti per screditare la nonviolenza di Khan. Ma, mentre le azioni violente furono sgominate dagli inglesi, il movimento nonviolento cresceva.
Sconcertati dalla nonviolenza dei pathan, gli inglesi tentavano di spingerli alla reazione violenta, con provocazioni fisiche umilianti, nel villaggio stesso di Khan, Utmanzai, a cui i “servi di Dio” resistettero eroicamente. La popolazione si aggregava a loro. La resistenza restava nonviolenta. Alla fine di settembre l’esercito nonviolento arrivò a contare ottantamila (altre fonti dicono centomila) volontari, uomini e donne. Dopo l’accordo paritario, che disgustò Churchill, tra Gandhi e il viceré, accordo che sancì la tregua, i pathan ottennero con la lotta nonviolenta la parità politica della loro regione col resto dell’India.
Khan, tornato nella Frontiera, era considerato un santo, era chiamato il Gandhi della Frontiera, ma reagiva: «Non aggiungete il nome di Gandhi al mio!». Neppure il titolo badshah gli piaceva: era servo del popolo, non re. Cede la sua terra ai figli, diventando un fakir, un senza terra, senza diritto di voto nella jirga. Resta solo un riferimento spirituale. Gira instancabile per i villaggi, ad educare gli ignoranti, avversato dagli inglesi, dai mullah, dai khan ricchi che non vogliono riforme. Due volte rischia di essere ucciso. Percorreva fino a quaranta chilometri al giorno. Appena arrivato in un villaggio, puliva la moschea, stava coi poveri. Ripeteva: «Abbiamo due obiettivi: liberare il paese; nutrire l’affamato e vestire l’ignudo». Insegnava l’igiene, la forza, il disinteresse. Ricordava alle donne la loro parità coranica con gli uomini.
Gli inglesi gli proibirono queste visite. Gandhi protestò, voleva visitare la Frontiera, ma gli fu impedito. Mandò il figlio Devadas, che constatò la forza e l’ispirazione di Khan. Il quale disobbedì al divieto e fu arrestato. Violando la tregua, tra fine del 1931 e inizio del 1932, gli inglesi occuparono Peshawar e arrestarono anche Gandhi. Un inglese collaboratore di Gandhi, Verrier Elwin, documenta la persecuzione contro le “camicie rosse”, nella Frontiera, con metodi feroci e 35.000 arresti, e testimonia l’attaccamento orgoglioso dei pathan alla nonviolenza. Anche senza la presenza di Badshah Khan, avevano ormai compreso che la nonviolenza funziona. Elwin documenta oggettivamente anche alcuni rari episodi di violenza, da parte di non appartenenti all’esercito nonviolento. Elwin fu arrestato ed espulso dalla provincia.
Intanto, Khan fu detenuto per tre anni senza processo, in isolamento, lontano dalla Frontiera, soffrendone nella salute. Rilasciato nel 1934, ma bandito dalla Frontiera, Khan accettò l’invito di Gandhi e andò a vivere a Wardha, il suo ashram nell’India centrale. Gandhi era concentrato nel suo “programma costruttivo”: dopo aver insegnato come combattere in modo nonviolento, ora il compito più arduo era insegnare a vivere in modo nonviolento. Affascinato da Khan, chiese al suo segretario, Mahadev Desai, di stenderne una biografia, con una sua prefazione. Desai scriveva di Khan: «La cosa più grande in lui è la sua spiritualità, il vero spirito dell’islam, la sottomissione a Dio».
Il fratello di Khan, Saheb, aveva una moglie inglese. Una volta Gandhi chiese se si era convertita all’islam. Khan gli rispose: «Sarai sorpreso, ma non saprei dirti se è musulmana o cristiana. Per quanto ne so, non si è mai convertita, è assolutamente libera di seguire la sua fede. Un marito e una moglie dovrebbero poter seguire ciascuno la sua fede». Gandhi era d’accordo, ma osservò che la maggior parte dei musulmani non pensava così. Khan lo sapeva bene, ma disse che nessuno conosce il vero spirito dell’islam, e che «tutte le fedi sono ispirate quanto basta a coloro che vi aderiscono. Il Corano dice che in molti modi Dio manda messaggeri in tutte le nazioni» (p. 174).
In seguito, Khan va a Calcutta, parla ai musulmani del Bengala, li invita a formare un movimento di combattenti nonviolenti e ad aiutare i villaggi poveri. Partecipa con Gandhi alla sessione annuale del Congresso, a Bombay, nell’ottobre ’34, durante la quale racconta agli indiani cristiani l’esperienza dei khudai khidmatgar, e parla al Club per l’unità delle donne. Accusato per frasi “sediziose” pronunciate a Bombay, nel suo racconto del massacro di Kissa Khani, in dicembre Khan è di nuovo arrestato. Su consiglio di Gandhi, che non lo voleva in prigione, accettò a fatica di difendersi affermando che non intendeva usare espressioni sediziose, ma fu ugualmente condannato a due anni di carcere duro, in isolamento. Ne soffrì nuovamente nella salute. Rilasciato nel luglio ’36, tornò da Gandhi. Nel gennaio ’37, nelle prime elezioni dei consigli legislativi, il fratello Saheb viene eletto primo ministro della Frontiera e revoca il bando inflitto a Khan, accolto nella sua terra da immenso affetto popolare. La lotta nonviolenta dei pathan aveva ottenuto un parziale autogoverno.
In ottobre Nehru visitò la Frontiera, e nel ’38 lo stesso Gandhi, finalmente, accolto da folle composte, non sfrenate, nelle uniformi rosse. Egli constata l’amore che lega Khan al suo popolo, al quale ha insegnato la forza vera. A Mardan un corpulento pathan dice a Gandhi: «Noi siamo ignoranti, siamo poveri, ma non ci manca niente, perché tu ci hai insegnato la lezione della nonviolenza». Gandhi voleva studiare meglio l’esperienza dei khudai khidmatgar, e tornò in ottobre ad incontrarli. Disse loro che non bastava la resistenza passiva se si fossero sentiti più deboli per il fatto di non usare le loro armi tradizionali, e che dovevano invece sentirsi più forti, altrimenti era meglio tornare alle armi. Ma «voi avete una forza spirituale tale da proteggere non solo l‘islam ma anche altre religioni». «Rimuovere la violenza dal proprio cuore non è solo la capacità di controllo della collera, ma il completo sradicamento della collera. Realizzare la nonviolenza significa conoscere Dio, sentire in sé la sua forza. Chi ha rinunciato alla violenza dovrebbe pronunciare il nome di Dio ad ogni respiro». Egli, disse Gandhi, lo faceva da vent’anni, anche nel sonno (p. 190). Sappiamo che, quando fu ucciso, spirò invocando «He Ram!».
Gandhi girò tutta la regione insieme a Khan. Questi riconosceva che la collera dei pathan era solo repressa, ed era turbato dalla quantità di rivalità fra tribù e famiglie. Ora bisognava esercitare i volontari nel Programma costruttivo, la nonviolenza positiva: filare e tessere, l’igiene, l’educazione di base, l’indostano come lingua nazionale unificante.
1939, seconda guerra mondiale: l’India è coinvolta senza consenso. Il Congresso delibera che un’India libera e democratica sosterrebbe volentieri le altre nazioni libere contro l’aggressione, ma non senza un chiarimento, che però gli inglesi rinviano a dopo la guerra. Intanto, essi scavano divisione tra indiani indù e musulmani, per dominarli meglio. Il Congresso voleva l’indipendenza, la Lega musulmana lo status di dominion entro l’impero. Nel 1940 Alì Jinnah proponeva uno stato musulmano. Richiesto di unirsi alla lotta, in quanto musulmano, contro il «dominio indù», Badshah Khan rifiutò. Invitò la Lega a cacciare gli inglesi e poi vivere insieme, indù e musulmani, come avevano fatto per secoli. Quelli della Lega chiamarono Khan indù.
Davanti all’ipotesi di attacco esterno all’India, il Congresso dapprima si allontanò da Gandhi e dalla nonviolenza, ma Khan fu duro nel riaffermare il metodo di «servire Dio e l’umanità offrendo le proprie vite senza ucciderne alcuna». Intanto, egli continua l’addestramento attivo nel Programma costruttivo, avvia scuole femminili, cosa rara tra i musulmani. Racconta come da giovane aveva tendenze violente e, sull’insegnamento di Gandhi, abbia dovuto «rifare se stesso». Simili trasformazioni, talora faticose, aveva indotto anche in altri, come nel fuorilegge omicida Murtaza Khan, che, scontata la condanna, era diventato un comandante dei khudai khidmatgar. Poi finì di nuovo in prigione, ma questa volta come “servo di Dio”, per la libertà della sua gente.
Nel luglio 1942 Gandhi rivolge ormai agli inglesi una sola richiesta: «Quit India» (lasciate l’India). Viene arrestato. Khan e il fratello parlano contro lo sforzo bellico. Alla fine dell’anno sono in prigione 60.000 indiani. Con i leaders del Congresso in prigione, esplode la violenza in tutta l’India, ma non nella Frontiera.
Dopo la guerra, l’Inghilterra si avvia a riconoscere l’indipendenza, ma c’è contrasto tra Congresso e Lega musulmana, su chi dovrà avere il potere. Gravi violenze scoppiano tra indù e musulmani. Gandhi e anche Khan, addolorati, si recano nelle regioni più infuocate per pacificare gli animi con la preghiera e il digiuno e dimostrare la fratellanza reciproca. La violenza contagia ora anche la Frontiera, dove 10.000 khudai khidmatgar proteggono indù e sikh con la loro presenza disarmata. Il Congresso si rassegna alla richiesta della Lega, di uno stato musulmano separato.
Solo Khan e Gandhi si opposero, con ragione perché la violenza segnò ancora l’agosto 1947, quando si incrociarono due migrazioni di quindici milioni di persone, con violenze che fecero 500.000 morti. Rimase un’eredità di violenza e paura. Khan e i suoi soldati della nonviolenza resteranno in balia dei ministri musulmani, che da anni li ostacolavano. Gandhi promette di andare in Pakistan, senza riconoscere la frontiera, a costo della vita. Di Khan dice: «La sua agonia interiore mi spezza il cuore».
Nel maggio ’47, Gandhi aveva tentato, parlando con tutti, di evitare la spartizione. Frena gli indù eccitati, difende la bontà dell’islam distinguendola dai musulmani violenti. Prega con una preghiera tratta dal Corano. Khan è con lui, angosciato per il futuro. Si separano quando Gandhi parte per Calcutta, Khan per la Frontiera.
Il 15 agosto 1947 avveniva in pace e amicizia il passaggio delle consegne tra l’ultimo viceré inglese, Lord Mountbatten e il nuovo governo indipendente dell’India, guidato da Nehru. Gandhi, e quanti lo seguirono, avevano realizzato il prodigio storico di trattare gli avversari con rispetto, e anche amore, nel tempo stesso in cui rifiutavano caparbiamente il loro dominio. Avevano combattuto senza armi e avevano conquistato la libertà e la pace. Ma purtroppo non c’era la pace interna. Le violenze tra indù e musulmani spinsero Gandhi ad un digiuno «fino alla morte» nel gennaio 1948: la paura degli indiani di perdere “Bapu”, il Mahatma, ottenne la cessazione dei massacri. Gandhi voleva andare a piedi in Pakistan, attraverso il Punjab, la regione che aveva visto le maggiori violenze. Ma fu ucciso, con una Beretta italiana, nel pomeriggio del 30 gennaio, da un fanatico indù.
Un referendum, nella Frontiera, doveva scegliere tra Pakistan e India. Badshah Khan, per evitare violenze e divisioni tra i villaggi per generazioni, consiglio ai khudai khidmatgar di astenersi, così la Frontiera andò al Pakistan. I khudai khidmatgar assicurarono la loro lealtà al nuovo stato. Khan chiese un’autonomia per la regione dei pathan, ma per questo fu accusato di tradimento e condannato a tre anni di carcere duro, prolungati a sette, e poi subito di nuovo incarcerato. I khudai khidmatgar furono messi al bando e distrutte le loro sedi.
Ucciso Gandhi, incarcerato Khan, i due più grandi uomini di Dio di tutta l’India erano stati sacrificati in nome della religione. Khan, in un intervallo di libertà, fondò il primo partito socialdemocratico del Pakistan. Egli trascorse in carcere trent’anni, un terzo della sua vita, e sette in esilio, ospite politico del governo afghano, ma non cessò mai di sostenere i princìpi dell’amore e del servizio, senza rancore per nessuno. Nel 1962 fu dichiarato “prigioniero dell’anno” da Amnesty International.
Alla sera della sua vita si accingeva a ricostruire ciò per cui aveva vissuto e che aveva visto distruggere da dietro le sbarre della prigione. Diceva che non cercava riposo in questa vita. «Si impara molto dalla scuola della sofferenza. Mi chiedo cosa sarebbe stato di me se avessi avuto una vita facile e non avessi avuto il privilegio di gustare le gioie della prigione e tutto ciò che essa significa» (p. 231).
Easwaran paragona talvolta questi uomini a Francesco d’Assisi: come Francesco, alla fine della vita, vide vacillare e dissolversi ciò che aveva avviato spendendosi totalmente, movimento che però in seguito continuò a scuotere il genere umano, così è dell’opera di Gandhi, la cui alternativa nonviolenta risalta sempre di più, a fronte dei fallimenti pazzeschi della politica violenta, e così è anche di Badshah Khan, che va dimostrando la profonda consonanza dell’islam vivo e in ripresa, con la nonviolenza. Ciò che Gandhi ha fatto nell’induismo e Martin Luther King nel cristianesimo, Abdul Ghaffar, Badshah Khan, sta facendo nell’islam, lungo le linee profonde di cammino degli spiriti e della storia umana.
Enrico Peyretti, 11 gennaio 2008 (enrico.peyretti@gmail.com )

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Scheda 1
Guerra “civilizzata” 1919, 1933
C’è sempre chi dice che la nonviolenza gandhiana ebbe gioco facile con gli inglesi che sono dei gentiluomini, ma non può funzionare in altri conflitti. Oltre gli esempi già riferiti, ricordo l’esempio che mi ha colpito nel libro di Easwaran, Badshah Khan il Gandhi musulmano (nell'edizione italiana, Sonda, Torino, 1990, a pp. 14-15): con i pathan "selvaggi" gli inglesi ritenevano impossibile la "guerra civilizzata" e necessaria la punizione collettiva dei civili; il bombardamento aereo di obiettivi civili fu praticato dagli inglesi, ben prima dei tedeschi a Guernica, su Kabul e Jalabad nel 1919 dalla Royal Air Force (L. Dupree, Afghanistan, Princeton University Press, Princeton 1980, p. 442), e su villaggi della Frontiera (O. Caroe, The Pathans: 550 B.C. - 1957 A.D., St Martin's Press, New York, 1958, p. 408; Caroe fu l'ultimo governatore della Frontiera prima dell'indipendenza e scrive dei pathan con comprensione, rispetto e affetto; il suo libro è il più completo sui pathan, benché filobritannico).
Alla conferenza sul disarmo aereo, Ginevra 1933, non la Germania ma la Gran Bretagna si oppose alla proposta di bando del bombardamento aereo su civili !!

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Scheda 2
Tra le molte (ma sempre insufficienti) indicazioni su Islam e nonviolenza, segnalo le pagine 124-135 del mio libro La politica è pace, Cittadella, Assisi 1998, con i relativi rinvii, che oggi sono da aggiornare; gli atti ancora inediti di un convegno su islam, violenza, nonviolenza, del Centro Studi Sereno Regis, di Torino (www.serenoregis.org); alcune voci della bibliografia storica Difesa senza guerra, in rete; il libro di Chaiwat Satha-Anand, Islam e nonviolenza, Ed. Gruppo Abele 1997.

domenica 22 aprile 2018

Cristiani nonviolenti oggi (2005)   

Relazione di Enrico Peyretti, Pinerolo 28 gennaio 2005


(pubblicato in Roghi della fede. Verso una riconciliazione delle memorie, pp. 129-149, volume a cura di Giuseppe Platone, Ed. Claudiana, Torino 2008, pp. 224, € 17,00; atti del convegno tenutosi a Pinerolo il 28 gennaio 2005, in occasione dell’inaugurazione del monumento dello scultore Gerald Brandstötter in memoria delle vittime della violenza e intolleranza religiosa e civile, eretto insieme dalla chiesa cattolica e valdese, in collaborazione tra la città di Pinerolo e la città austriaca di Steyr, sede di una strage di valdesi nel 1397; scritti di Giuseppe Platone, Paolo Ricca, Ermis Segatti, Carlo Papini, Grado Giovanni Merlo, Peter Segl, Daniel Heinz, Adriano Prosperi, Alberto Moshe Somekh, Rodolfo Venditti, Enrico Peyretti, Alberto Taccia, Comitato centrale del Consiglio ecumenico delle chiese, Hans-Ruedi Gerber, Paolo Ribet, Marcella Gay, Friedrich Rössler, Pier Giorgio Debernardi, Alberto Barbero, David Fortenlechner, Mario Marchiando Pacchiola, Hans-Jörg Kaiser, Markus Bader)



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I – I cristiani e la nonviolenza


1 – Più che vantare una grande presenza nella nonviolenza (cultura e azione nonviolente) i cristiani, noi cristiani, dobbiamo ancora confessare una assenza, ed anzi storiche colpe di violenza.

2 – E persino oggi, nell’attualità più presente e pesante, ci sono persone, centri di potere militare, economico, politico, che, mentre esercitano una pluriforme violenza, che essi stessi definiscono “infinita”, senza termine temporale e spaziale visibile, la giustificano e, di più, la consacrano facendone risalire al Dio di Gesù Cristo il riferimento, l’ispirazione messianica e la funzione salvatrice.

3 – Ci sono anche altri cristiani, dagli ultimi papi a una quantità di chiese, di movimenti e di persone, che sempre più chiaramente individuano nella nonviolenza attiva la missione evangelica entro le vicende storiche della famiglia umana, missione di annunciare e praticare la pace e la giustizia nelle relazioni tanto tra le persone quanto tra i grandi gruppi umani, come profezia della piena salvezza finale.

4 – Sempre più chiaramente questi cristiani si persuadono che la pace non è una stagione fortunata, non è la piatta assenza di conflitti, differenze, tensioni, ma piuttosto la loro gestione costruttiva e positiva anziché negativa e distruttiva. E si persuadono che la nonviolenza non è solo l’astensione dall’offendere, o l’elusione dei conflitti, o il loro occultamento per amor di quiete, ma è lotta per la giustizia con i soli mezzi della giustizia, proprio là dove la giustizia è offesa, dentro i conflitti, contro le violenze. Abbiamo sottoscritto nel 2001, come chiese d’Europa, la Charta Oecumenica che nel n. 8 dice: «Ci impegniamo per l’assoluta eguaglianza di valore di ogni essere umano (…) e per un ordine pacifico fondato sulla soluzione nonviolenta dei conflitti».

5 – La politica è pace1. È l’arte del convivere nella differenza e nei conflitti naturali e necessari, gestiti come conflitti vitali e mai mortali, nella giustizia e mai nel dominio. La pace politica, e cosmopolitica, è la nonviolenza attiva, positiva, politica, radicata nella spiritualità che riconosce in ogni volto umano, anche nell’avversario e nel nemico, una immagine di Dio, per quanto possa essere deformata, ma rigenerabile. La politica, anche nelle istituzioni democratiche, che ammette la guerra e le altre violenze fra i suoi mezzi d’azione, nega il proprio senso umano.

6 – La nonviolenza è la forma laica, storica, dell’amore dei nemici, che Gesù ha potuto chiederci e comandarci perché lo ha praticato e ce lo ha reso possibile dandoci la forza del suo Spirito. L’amore dei nemici è forse il più grande segno della presenza di Dio nella storia umana, della vita che risorge contro le forze della morte.

7 – Chi è nonviolento? Per usare i termini di Aldo Capitini, nessuno è pienamente nonviolento, ma siamo persuasi, cercatori, amici della nonviolenza. Io dico sempre di me: sono nonviolento, cercatore della nonviolenza, perché so di essere violento. I nonviolenti, in questo senso e in questo limite, cercano l’amore attivo per i nemici, il ricupero alla comune nostra umanità di chi la nega con la violenza; cercano in primo luogo non di vincere, ma di con-vincere, e solo in secondo luogo oppongono la forza nonviolenta, che vuole rendere all’avversario più costosa la violenza che il compromesso. Essi cercano questo amore per i nemici anche quando non sono cristiani (come lo stesso Capitini, “libero religioso”, non cristiano). Pensiamo che lo spirito evangelico, l’amore operoso fino ai nemici, sia diffuso sulla terra e effuso nei cuori ben al di là delle chiese, cioè di quanti in gratitudine riconoscono nella persona di Gesù la presenza piena e diretta di Dio tra noi.

8 – Ci sono nonviolenti che non sono cristiani, ma hanno uno spirito evangelico; ci sono cristiani che sono nonviolenti, perché ricevono da Gesù, prima che dalle lezioni della storia, il dovere e la speranza di relazioni umane sempre meno violente e sempre più giuste; e ci sono anche cristiani che sono violenti in nome di Dio.

9 – Movimenti cristiani nonviolenti – non solo genericamente pacifisti – sono presenti su scala internazionale e nazionale.
Il Mir, Movimento Internazionale della Riconciliazione (International Fellowship of Reconciliation, IFOR), interconfessionale, numericamente piccolo, ma con una grande tradizione che risale all’incontro tra cristiani tedeschi e francesi durante la prima guerra mondiale, per vincere quella inimicizia, conta otto premi Nobel per la pace tra i suoi membri.
Pax Christi, movimento internazionale, cattolico, presieduto da un vescovo (in Italia, tra gli altri, successivamente Luigi Bettazzi e Tonino Bello), sviluppa attività educativa, informativa, con chiara capacità di indipendente critica politica.
Inoltre, una quantità di associazioni, gruppi più o meno stabili e consistenti, ma sparsi dappertutto, che vanno dal piccolo gruppo parrocchiale a collaborazioni ecumeniche e interreligiose, fino, per esempio, alla Comunità Papa Giovanni, di Rimini, capace di qualificate presenze personali di solidarietà e di pace anche nei luoghi di più acuto conflitto, come la Palestina. Molti missionari, a contatto diretto con la realtà umana dei popoli impoveriti e violentati, si preparano e si impegnano nelle loro lotte nonviolente per la giustizia, oltre che svolgere, assai meglio di tutti i media più potenti e diffusi, un servizio di informazione veritiera su quelle realtà di sofferenza.

10 – Nei movimenti nonviolenti laici, i cristiani sono molti, insieme a non cristiani e non credenti.
Il Movimento Nonviolento (sezione della War Resisters International) in Italia non ha una ispirazione religiosa se non, per molti suoi aderenti, ma non tutti, la “libera religione” del fondatore Aldo Capitini: una spiritualità di grande e profondo valore, ma distinta e anche polemica verso il cristianesimo storico e specialmente verso il cattolicesimo italiano. Ci sono anche nonviolenti che si professano atei. Diversi altri simpatizzano o aderiscono al buddhismo2.

11 – I maggiori maestri della nonviolenza contemporanea sono cristiani e non cristiani.
Non è cristiano Gandhi, nello stesso tempo fedele alla sua tradizione indù e intimamente aperto alla sostanza preziosa di tutte le religioni; non è cristiano, ma è colui che più di tutti ha suscitato, nelle tradizioni cristiane più numerose (altre, minoritarie, sono rimaste nonviolente), la riscoperta recente, e tardiva, della nonviolenza evangelica originaria, del Discorso della Montagna, non solo spirituale e privata, ma anche politica e storica.
Un cristiano singolare è Tolstoj: ribelle alla sua chiesa ortodossa russa perché cedevole verso i poteri violenti e guerreschi, fino a benedirli (come del resto tante altre chiese), perciò scomunicato, cercatore di un cristianesimo nuovo, fu uno degli ispiratori di Gandhi.
Indiscutibilmente cristiano è Martin Luther King, che ha attinto dall’evangelo la forza per animare masse di segregati a conquistare il loro diritto e dignità senza fare alcuna violenza, e per denunciare con libertà profetica la politica bellicosa del suo paese.
Badshah Khan, detto “il Gandhi musulmano”, contemporaneo e collaboratore di Gandhi, attinse proprio nell’islam, che i denigratori interessati identificano con la violenza di alcuni musulmani, l’energia spirituale per raccogliere tra i suoi Pathan della Frontiera, popolazione montanara di tradizione violenta, un “esercito nonviolento” di centomila “servi di Dio”, resistenti al dominio inglese in quella regione particolarmente duro, con la sola forza umana dell’unità e della dignità3.
Ci sono maestri, studiosi, animatori, leaders di lotte nonviolente che manifestano una ispirazione religiosa e altri che non ne manifestano alcuna.
Gandhi afferma che il satyagrahi (il lottatore nonviolento) «deve avere una profonda fede in Dio, poiché Egli è il suo unico sostegno»4. Ma Gandhi non pensa Dio solo secondo una determinata confessione religiosa, per lui la Verità che ci trascende è Dio, l’unità profonda e il valore di tutta la realtà, specialmente di tutti i viventi, è Dio. Chi ama e rispetta e non fa violenza agli esseri rispetta, ama e crede in Dio.

II – Tre posizioni dei cristiani

12 – Riprendendo l’osservazione iniziale, sulla nonviolenza i cristiani sono divisi, nel passato e nel presente, almeno su tre posizioni:
1) Quelli (ministri nella loro chiesa, oppure laici) che leggono nei testi sacri e nella tradizione l’immagine di un Dio giustiziere e punitore, di cui pretendono e presumono di attuare il giudizio nella storia, individuando e sradicando l’errore e il male con ogni mezzo: l’autorità dottrinale, il potere politico e giudiziario, la diplomazia, la pressione economica, la propaganda e, se occorre, anche mediante una violenza bellica che ritengono, per questo motivo, “giustificata” e anche meritoria, e osano addirittura rivestire di valore messianico. Lo abbiamo visto ai nostri giorni, e non solo nel passato. Ma scrive Jean-Marie Muller: «Quando la religione ha benedetto la violenza, la violenza non è diventata sacra, ma la religione è diventata sacrilega»5.
2) Quelli che sentono nell’appello evangelico e nello Spirito di Cristo la chiamata all’amore universale, da realizzare anche nella storia, con la gestione positiva e costruttiva dei conflitti, consapevoli della presenza del male, ma impegnati a contrapporvisi non con mezzi uguali o simili, ma con spirito, mezzi e fini profondamente alternativi e creativi.
3) Quelli che rimangono incerti, e sono la massima parte dei cristiani: da una parte non approvano la violenza, la condannano in linea di principio; approvano e sostengono l’azione mite e giusta; ma, dall’altra parte, poiché, per la loro sensibilità religiosa e morale, hanno una consapevolezza dolorosa del male del mondo e lo condannano, si rassegnano ad accettare che, nei conflitti acuti, mezzi violenti siano da opporre ad azioni violente, e che ciò possa e debba essere tristemente giustificato, a causa dell’imperfezione del mondo, come inevitabile e necessario. Forse è qui il maggiore problema nel rapporto tra cristiani e nonviolenza. A me pare di vedervi una debolezza di giudizio e di azione, causata dal turbamento del male, affrontato con una tiepidezza di spirito, né caldo (appassionato, innovatore) né freddo (cinico, disperato)6. In realtà, davanti allo scandalo doloroso del male, la reazione forte e positiva è proprio quella che troviamo nei maestri della nonviolenza attiva, Gandhi, King, Capitini: né ottimismo ingenuo, né, tanto meno, rassegnazione, e neppure imitazione dei mezzi per opporvisi, ma costruttiva indignazione sofferta, che, come è stato detto del grande spirito di di Etty Hillesum, «trasforma il dolore in forza»7. «La nonviolenza non è in Capitini uno sguardo che forza la realtà ad essere buona, ma è la forza con cui il dolore del mondo viene attraversato senza essere razionalizzato, per scoprire che proprio l’impossibilità di spiegarlo ci dice che altrove sono le parole con cui rintracciare la nostra origine»8.

13 – I cristiani del secondo tipo (se vale questo schema), cioè i cristiani persuasi e impegnati nella nonviolenza attiva, che scelgono i metodi di lotta politica nonviolenta, fanno questa scelta per ragioni razionali e morali, per una più effettiva e reale giustizia nei rapporti umani, per non collaborare ma ridurre la mole di sofferenza che i metodi violenti scaricano addosso all’umanità più povera. Ma fanno questa scelta anche per ragioni precisamente cristiane, derivanti dalla fede cristiana. È stato detto bene: «Oggi più che mai la chiesa gioca la sua fedeltà al Signore e misura la capacità di testimoniare l’Evangelo e di rispondere ai drammi della storia nella compagnia degli uomini, proprio sulla dottrina e sulla prassi della pace. Questo significa che la pace è dono di Dio e compito profetico dei cristiani nello stesso tempo»9.

14 - Sia Gandhi sia Capitini collegano religione e politica, senza paura degli equivoci tipici della storia europea e italiana, derivanti dal fatto che qui la religione appare principalmente come una istituzione sociale, con una sua potenza, in competizione o collusione con l'istituzione politica, lo stato. Ma se religione è persuasione e movimento intimo, non intimistico, allora essa rifluisce in frutti di dedizione al «tu-tutti» (Capitini) nella vita e nell'azione della comunità politica, senza rivalità istituzionali.
Leggiamo Gandhi: «Per vedere faccia a faccia l’universale e onnipresente Spirito della Verità si deve essere in grado di amare il più infimo degli esseri creati come se stessi. E un uomo che aspira a ciò non può permettersi di estraniarsi da nessun campo di attività umane. È per questo che la mia devozione alla Verità mi ha condotto alla politica; e posso dire senza alcuna esitazione, anche se con assoluta umiltà, che coloro che affermano che la religione non ha nulla a che fare con la politica non sanno che cosa significa religione»10.
Leggiamo Capitini: «Per essere veramente religiosi bisogna passare per la vita pubblica. Si può anche essere stiliti o eremiti per riordinare la propria vita interiore, ma poi bisogna fare vita pubblica, e solo su questa sorge la vita religiosa che porta aperture e aggiunta»11.
Nella concezione di Capitini la vita pubblica non è soltanto, e non è per lui personalmente, politica nelle istituzioni del potere, bensì partecipazione di tutti, dal basso, a costruire tutti insieme l'orientamento generale, attraverso il "potere di tutti", là dove i valori ideali e morali possono influire meglio nelle scelte politiche. Si sa che l'opposizione di Capitini al fascismo fu opposizione religiosa, come egli dichiara e ricorda più volte. Commemorando a Torino il grande vescovo brasiliano Helder Camara, morto il 28 agosto 1999, Ermis Segatti osservava che l'Europa ha vissuto grandi istanze di libertà, ma senza coniugarle con l'ispirazione religiosa, come invece è avvenuto nell'America Latina. Ecco un altro sintomo, dal mondo extra-europeo (latino-americano questo, asiatico in Gandhi), di un rapporto tra religione e politica nel quale Capitini ha, tra noi, un ruolo originale.

III – Dal neutralismo alla nonviolenza

15 – Alberto Melloni12 pone la questione della pace – di «una sintesi sulla pace» - nella lista d’attesa di un futuro concilio. Egli osserva che, nel Novecento, i papi e i cattolici sono passati dal neutralismo, senza mettere in discussione la teoria della guerra giusta, alla mediazione (fallimentare), ad una lettura teologica e profetica della pace, con Papa Giovanni e la Pacem in terris, 1963, più chiara di quella del Concilio Vaticano II, fino alla «irruzione della nonviolenza come chiave di soluzione adottata a livello di massa dai cattolici e non solo da loro» (e qui cita M. L. King e Desmond Tutu). Sulle “nuove guerre” a cavallo del millennio, il papa e molti capi di chiese hanno dimostrato che «l’impegno cristiano per “sfilare” dai contrasti militari ogni motivazione religiosa è stato inflessibile». Io aggiungerei che in questo innegabile forte impegno ci sono state delle oscillazioni, almeno nel papa e in alcune posizioni cattoliche, nell’in-giustificare la guerra13. Melloni osserva che la chiesa (cattolica, e non solo) ha resistito bene al «tentativo osceno» di «usarla come collante di un’identità occidentale», prevenendo, fino dal 1986, con la preghiera interreligiosa di Assisi, la guerra di religione e di civiltà contro l’Islam: «Se oggi la civiltà occidentale non è disposta a entrare nella spirale suicidaria della sicurezza a costo della vita, se non è disposta al sacrificio delle proprie libertà in cambio di una pace che non c’è, lo deve anche alla chiesa». Il cristianesimo «ha già salvato l’Occidente» col suo «essere più mediterraneo e più mondiale di ogni altro segmento della cultura». Per dimostrarsi oggi non solo pacifica e pacifista, ma anche nonviolenta, la chiesa cattolica – continua Melloni – dovrebbe non solo chiedere perdono (mea culpa del papa nella quaresima del 2000, anno giubilare, per le colpe di «taluni figli della chiesa»), ma concedere perdono: «A chi guardi e viva la vita cristiana oggi sembra evidente che la chiesa non perdona». Da qui Melloni trae il titolo del suo libro: chiesa madre e matrigna. «In una chiesa senza perdono l’immagine di Gesù tende necessariamente a scivolare in una caricatura dolorista, a puntellarsi col senso del magico». «Il Gesù del Vangelo (…) è un Gesù che perdona. Perdona e cammina»14.
E noi cristiani perdoniamo? Abbiamo parole e azioni evangeliche, ci differenziamo abbastanza dalla vendetta bellica con cui questo mondo ricco e “cristiano” decide di rispondere agli attacchi al proprio dominio, esercitato con violenza sistematica dalle più forti istituzioni economiche e politiche della nostra parte di umanità, minoritaria e proprietaria, che vanta una superiore civiltà con radici cristiane? Siamo capaci di costruire un dialogo nella giustizia, di domandare perdono del dominio, di immaginare la riconciliazione che non elude il male ma lo combatte sostituendolo attivamente con il bene?

IV - La nonviolenza è un cammino oltre il pacifismo

16 – L’impegno serio per la pace positiva – non solo assenza di guerra e di violenza diretta, ma assenza anche di violenza strutturale – non è il semplice pacifismo, ma la coerente nonviolenza. Il pacifismo, quando davvero ripudia il metodo della guerra, anche la propria e non solo quella altrui, è un ottimo impegno. Ma la guerra è soltanto la più vistosa delle violenze, la più facilmente ripugnante. Le violenze più profonde, più gravi, più continue, più accettate o subite, più facilmente giustificate, più radicate, sono le violenze strutturali, stabilite nelle economie, nelle leggi e nelle tradizioni, e – ancor più – sono le violenze culturali, insediate nelle culture, nelle filosofie, anche nelle religioni. La nonviolenza è più seria e radicale del pacifismo perché combatte, proponendosi come alternativa antropologica, più ancora che la violenza della guerra, le violenze strutturali e culturali, che sono radice e giustificazione della violenza diretta.
La nonviolenza è una politica, non solo una morale personale; ma, di più, è una cultura e anche una filosofia, alternativa alle filosofie violente, ed è una spiritualità. Come ha scritto Raimon Panikkar, «Il compito della filosofia nel momento attuale (…) è disarmare la ragione armata»15.

17 – Vedo questi passi progressivi da percorrere nel cammino per entrare nella nonviolenza:

1) A-himsa, cioè non nuocere, in-nocuità. È la conquista del controllo e padronanza sui miei impulsi violenti, attraverso la crescita della coscienza della inviolabilità della persona, del volto, di ogni essere, di ogni bene della vita.

2) In-dipendenza dalla violenza che vedo dispiegata: anzitutto che non mi affascini morbosamente legandomi al suo servizio; poi che non mi attiri nelle sue spire ipnotizzandomi e addormentandomi fino a credere di potere e dovere contrastarla soltanto con altra violenza, e così moltiplicarla; infine che non mi forzi a rassegnarmi disperatamente alla sua presenza ineliminabile. Che l’indignazione e la giusta collera non cada nel gioco imposto dalla violenza, ma valga ad estrarre dal profondo dello spirito energia, volontà, costanza, resistenza e inventiva.
Questa in-dipendenza, emancipazione interiore e culturale dalla pressione intossicante della violenza, è bene espressa dal termine tedesco per dire nonviolenza: Gewaltfreiheit, libertà dalla violenza.

3) Lotta: la nonviolenza è lotta, è l’opposto della purezza ipocrita paga del tenersi fuori, fuggendo il rischio del conflitto. È ripudio della mia violenza, ma è ripudio e contrasto attivo anche della violenza altrui, e dei sistemi violenti.
Senza giudizio totale sul mistero di ogni persona, è giudizio su azioni e situazioni. L’arma della lotta nonviolenta è la non-collaborazione al male e all’ingiustizia, con la disobbedienza civile organizzata, accettandone le conseguenze fino alla sofferenza, che Gandhi, contro le armi disumane, definisce da qualche parte «l’arma umana», e della quale dice: «L’appello della ragione è rivolta al cervello, ma il cuore si raggiunge solo attraverso la sofferenza»16.
È lotta coi mezzi nonviolenti, coi mezzi giusti per un fine giusto, mezzi e risultato legati tra loro da un vincolo indissolubile, come il seme e l’albero17.
L’opposizione alla violenza, se non ottiene di farla cessare con la resistenza e la disobbedienza, passa alla costrizione nonviolenta, che non è una contraddizione, ma consiste nel mettere l’avversario nella condizione di trovare il compromesso meno costoso e più conveniente del continuare nella sua pretesa di imporsi.
La lotta nonviolenta richiede coraggio anche fisico, la capacità di patire – non subire! – perciò ha bisogno di essere il più possibile non eroismo solitario, ma azione concertata, perciò politica. Può includere l’illegalità, e questa non è di per sé violenza, come vorrebbe far apparire chi criminalizza la critica (le armi della critica), posizione pari e contraria a quella di chi usa il crimine come critica (la critica delle armi). Quando una legge o un ordine non dà forza al debole ma sanziona il sopruso dei forti18, devono essere cambiati, oppure disobbediti apertamente, per obbedire alla coscienza, accettando le conseguenze.
L’obiezione morale alla legge non inficia il metodo democratico – della legge che nasce dalla maggioranza – ma ne evidenzia la perfettibilità e congiunge il presente della legge, rispettata mentre è disobbedita (come Socrate, Thomas More, Gandhi), con il futuro della profezia, con la quale alcuni, per ora minoritari, anticipano nell’attualità dell’oggi, a loro spese, valori non ancora generalmente diffusi19. È il problema del diritto di resistenza, escluso dalla nostra Costituzione, nell’ipotesi che la partecipazione democratica permetta a tutti di contribuire a leggi giuste, problema accettabile in dottrina, ma, secondo i padri costituenti, forse insolubile nel diritto positivo20. Ma «oggi il problema torna alla ribalta nel quadro della democrazia: se essa si fonda su un insieme di valori (riassunti nei diritti dell’uomo), ogni decisione che violi gravemente uno di tali valori, anche se presa dalla maggioranza dei cittadini, deve essere combattuta in nome della democrazia stessa»21.
In uno scritto di grande interesse di Andrea Cozzo sulla lotta nonviolenta alla mafia, nel suo riferimento al giudice Falcone, che trattava e interrogava i collaboratori di giustizia con pieno rispetto della loro coscienza personale e la valorizzazione degli elementi positivi della loro cultura, trovo questa considerazione: «Proprio il senso dell'onore può essere importante per permettere una riformulazione del principio, che non è nonviolento, della legalità in quello, che è nonviolento, della responsabilità, la quale riformulazione evita la trappola del concetto di obbedienza all'autorità - legale o mafiosa, dal punto di vista della maturazione critica e spirituale non e' molto differente - per sancire il diritto alla disubbidienza civile»22.
Sia che la legislazione positiva punisca, sia che legalizzi (come era per i chiamati al servizio militare obbligatorio, come è per i sanitari nell’interruzione della gravidanza) l’eccezione della coscienza alla legge, essa riconosce, per contrasto o per compromesso, il fatto e diritto della coscienza come primo e ultimo criterio morale, pur attraverso la “reciprocità” (Bernhard Haering), la comunicazione e il dialogo delle singole coscienze. L’animo cristiano, che crede nello Spirito effuso nei cuori e nella «luce che illumina ogni uomo» (Giovanni 1,9), non può non essere grandemente sensibile a questa feconda dialettica.

4) Testimonianza è il quarto passo o gradino del cammino. L’azione nonviolenta può riuscire o fallire. Gandhi dice che non fallisce mai. Come può dir questo? Anche nel fallimento pratico immediato, l’azione giusta nei mezzi e nel fine ottiene infallibilmente due risultati positivi, immancabili:
a) non aggiunge male al male, dolore a dolore, offesa ad offesa, violenza a violenza;
b) lascia una testimonianza. Testimone è colui che in un dibattito, in un processo per accertare i fatti, porta notizia di un fatto finora ignoto. La lotta per una maggiore giustizia coi soli mezzi giusti introduce la visione di un obiettivo e di un metodo che, anche se non si stabiliscono oggi nella realtà effettiva, si annunciano davanti ad essa come possibili, desiderabili, necessari, validi. La u-topia è il non-ancora-reale. Persino quando il lottatore nonviolento è ucciso, anche quando è martire nel senso corrente – sconfitto, eliminato in quanto profeta disarmato – egli è martire nel senso originario, cioè testimone, apportatore di novità, creatore di attiva speranza, apritore di cammini. Infatti, egli resta nel tempo più presente e operante di chi lo elimina: Gesù è più presente e operante di Pilato e di Caifa, Martin Luther King è oggi più attivo del suo assassino, Gandhi guida un movimento mondiale mentre il fanatico che lo uccise è immobile e dimenticato. «La testa di Giovanni Battista grida più forte tagliata, sul piatto, che sul suo collo» (Primo Mazzolari).
È vero che la nonviolenza, l’azione per la giustizia, non è mai sufficiente ed è sempre in ritardo, ma nello stesso momento è vero che non è mai inutile, che non fallisce mai nel tempo ampio, ma si afferma contro e più della stessa forza che, temporaneamente, la stronca. Se i cristiani, che affidano la vita e ripongono la speranza nel Grande Sconfitto, non vedessero questo e non agissero nella storia con questa fiducia, ma dovessero confidare nei metodi sbrigativi ed eliminatori della violenza, che vuol bruciare i tempi, strappare i successi, e far crescere la pianta estirpandola, la loro fede sarebbe vana perché abbandonerebbe la vicenda umana al male della violenza senza speranza.

18 – Dunque, la nonviolenza è conversione personale dalla propria violenza, dalla durezza alla mitezza; è indipendenza, libertà dall’idolo23 della violenza; è lotta alla violenza altrui e dei sistemi, con una forza che non fa violenza; è confidenza in forze così profonde e reali della verità umana e del bene, che non sono veramente sconfitte da nessuna sconfitta, ma testimoniano in ogni caso una possibilità migliore. La nonviolenza è un impegno e una lotta libera dall’ossessione e dall’ideologia della vittoria24. La quale è consustanziale all’ideologia della violenza, perché dovere e volere vincere ad ogni costo trascina a fare violenza.
Questo far conto sulla efficacia della nonviolenza, che sempre testimonia la pace, anche quando è sconfitta (ma ha pure i suoi successi, e più di quanti sono comunemente noti!25), non è «fondamentalismo pacifista», non è «esaltazione a basso costo del martirio», né «l’esporsi masochisticamente al danno della guerra» da parte di «esaltatori del martirio» (secondo il giudizio di un autore citato da Melloni26, che può forse avere ragione in qualche caso estremo, di cui però non vedo esempi, quando invece figure di un simile autolesionismo sacrificale sono tipiche della mitologia militare violenta, in tutta la storia, fino alla figura tristemente attuale dell’attentatore sui-omicida). Nella nonviolenza si tratta soltanto della forza – il satyagraha gandhiano, la forza che viene dall’attenersi alla verità, senza ingannare l’avversario - data dal sapere che la via della giustizia come mezzo per la giustizia, la pace come via alla pace, può venire ostruita temporaneamente, ma non cancellata. La giustizia, anche quando è colpita, testimonia il permanente valore della giustizia. Come la scintilla sprizza dalla pietra sotto lo scalpello, così il diritto risalta sotto l’offesa, non è cancellato ma evidenziato. L’opera della pace e della giustizia è affidata alla sapienza del tempo: «Uno semina, un altro miete»27.

V – Nonviolenza assoluta?

19 – Tra poco, il 24 marzo 2005, saranno venticinque anni dal martirio di Oscar Romero per la giustizia pacifica. Il 9 aprile saranno sessant’anni dal martirio di Dietrich Bonhoeffer. Questo testimone di pensiero e di azione cristiana, che si prese la responsabilità in coscienza, davanti a Dio, di collaborare all’attentato violento contro la vita del tiranno violento, potrebbe essere portato come obiezione al necessario forte odierno impegno nonviolento dei cristiani.
Tutti coloro che meglio pensano e vivono l’impegno nonviolento, a cominciare da Gandhi, esplicito su questo28, sanno che, nelle strette della storia, non si può farne un assoluto. Nel conflitto fra doveri – la nonviolenza da un lato, la liberazione dalla violenza in atto per salvarne le vittime, dall’altro lato – non sempre è possibile, oppure non sempre riusciamo a vedere la possibilità, di una integrale nonviolenza. In breve, senza sviluppare ora di più l’analisi di questo problema29, credo di poter dire che l’importante è capovolgere la logica tuttora dominante anche nella filosofia politica, che fa della violenza la regola ultima dell’azione storica nei conflitti acuti e dello stesso concetto di stato (secondo la definizione di Max Weber comunemente accettata), e vede nella nonviolenza una possibilità rara, eccezionale, fortunata.
L’opzione morale e politica della nonviolenza non è proponibile come assoluta, in tutti i casi che si possono presentare, ma può e deve essere decisa come regola, salvo drammatiche eccezioni di necessità. La nonviolenza è quindi una regola con eccezioni, e non un’eccezione alla regola30. Questa impostazione è responsabile e realistica, più della realpolitik, perché risparmia tanti più errori e dolori, e tanto di più difende le vite e i diritti31.
Ma non voglio, col dir questo, essere inteso come se riconoscessi uno spazio di legittimità alla guerra e un suo ruolo moralmente tollerabile nelle relazioni umane e politiche. Non voglio concedere un sollievo al pensiero che legittima o tollera una funzione della violenza. La guerra, esclusivamente di stretta difesa, può essere una necessità, ma resta sempre una più che triste necessità, una caduta nell’impotenza, un fallimento anche quando ha successo nel respingere un’aggressione, mai una gloria, mai un vanto, mai un diritto. La guerra non è altro che uccidere, un’uccisione di massa, e, anche se imposta dall’avversario, anche se vinta con effetto liberante, è una sconfitta e una vergogna32. La politica, per essere politica, costruzione e non distruzione del vivere insieme, deve ripudiare la guerra sistematicamente, in linea di principio e nelle conseguenze legislative, pratiche, operative, strumentali. Anche la guerra di difesa deve essere superata: la difesa armata omicida è uno stadio barbaro e feroce dell’azione che rivendica il diritto aggredito. Difende e non aggredisce, ma uccide come chi aggredisce. Uccidere può essere una tragica necessità, se non si è predisposto altro mezzo di difesa, ma non è mai un dovere, mai un diritto, mai un successo33. La difesa armata omicida è ancora più vendetta che difesa, più ritorsione che riparo. La difesa civile, sociale, non armata – in Italia denominata meglio Difesa Popolare Nonviolenta – è possibile, se c’è la volontà di conoscere e attuare un modello umano, non omicida, di difesa che resiste, frustra e respinge la violenza; è programmabile, se se ne volessero conoscere le esperienze storiche e le molte tecniche sperimentate. Gli apparati statali in generale dicono impraticabile quello che non hanno mai neppure tentato di conoscere davvero e non hanno mai minimamente organizzato, finanziato, strutturato in una misura almeno centesimale rispetto a ciò che profondono in spese e risorse umane e materiali nella struttura militare omicida: «Una cosa è dire: bisogna ricorrere alla violenza il meno possibile; altra cosa è dire: bisogna ricorrere alla nonviolenza il più possibile»34. Gli stati si comportano così perché sono tradizionalmente e strutturalmente legati all’apparato militar-industriale35, spesso anche con vincoli di interessi personali di dirigenti statali nella grande industria militare, attivamente interessata a provocare guerre utili a consumare con profitto cruento e ad aggiornare i suoi strumenti omicidi.
Il fatto che noi non possiamo ancora, oggi, adottare come regola assoluta la nonviolenza nei conflitti su vasta scala sociale, come la adottiamo nei rapporti interpersonali, dove l’omicidio non è mai ammesso ma sempre punito36, non dipende da un limite del principio del non uccidere, ma dipende, per un verso, dalla complessità non tutta prevedibile delle situazioni che possono verificarsi e dal conflitto di doveri opposti, e, per un altro verso più determinante ancora, dalla debolezza dell’opzione morale e culturale di ripudio della violenza nella politica. Come è finora prevalentemente concepita, vincolata alla ristretta antropologia machiavellica e hobbesiana, la politica è intrisa fino al midollo, anche nelle democrazie formali, di un uso cinico del potere degli uni sugli altri. La concezione che abbiamo di noi stessi e delle nostre possibilità di convivere costruttivamente, è così bassa e disperata, così succube delle vicende negative, così priva di fede incoraggiante e stimolante del miglioramento umano, così ignara delle possibilità di quello che Ernesto Balducci, sulla scorta di Ernst Bloch, chiamava «l’uomo inedito»37, dentro l’uomo edito che noi siamo, quella concezione – dicevo - è tale che ci fa credere necessario, per non ucciderci tra noi, che il potere statale abbia su di noi un minaccioso diritto, che è in realtà un diritto di vita e di morte, anche dove non c’è la pena capitale, ma c’è la possibilità della guerra38. Questo falso diritto bisogna arrivare a negare. Noi siamo nella preistoria della politica umana. Noi dobbiamo umanizzare questa nostra storia. Sappiamo inventare mille trovate tecnologiche e non sappiamo ancora inventare forme politiche del tutto libere dall’uccidere. La democrazia è un parziale inizio di nonviolenza (contare le teste invece di tagliarle), ma assolutamente insufficiente, perché non abolisce la guerra, non è determinata a realizzare universalmente il diritto alla vita che vuole affermare all’interno, perché usa ancora pene violente. I cristiani hanno un compito primario, in questo. All’inizio degli anni ottanta, nel tempo del terrificante dispiegamento bilaterale dei missili nucleari, ricordo che Norberto Bobbio diceva: «I cristiani hanno il “non uccidere”, ma temo che non saranno all’altezza della loro responsabilità».

VI – La riconciliazione prima di poter pregare

20 – Questo convegno avviene attorno ad una memoria di violenze e all’omaggio penitente a quelle vittime, memoria convertita, per grazia di Dio, in fraterna riflessione e colloquio per la riconciliazione delle memorie. Noi abbiamo ricevuto quella parola: «Se dunque tu sei per deporre sull’altare la tua offerta e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello; dopo verrai a offrire il tuo dono» (Matteo 5, 23-24).
Ecco la memoria di una separazione, di una relazione fraterna ferita, anche se fosse soltanto nell’animo del fratello per un malinteso, anche se non ci fosse un mio malanimo, né un fatto oggettivo; quanto più, allora, se ci sono state violenze nella storia come quelle che abbiamo di nuovo qui sentito rievocare. Ecco, il solo presentarmi davanti a Dio per pregare risveglia in me questa memoria che turba la mia preghiera e la mia relazione con Dio, perché è turbata la relazione col fratello. Dio è là dove è il fratello: se il cammino è interrotto, Dio è introvabile. Dio è difensore del fratello offeso: non lo incontro se non reincontro il fratello.
L’esigenza della riparazione è più urgente del culto, perché è condizione di un culto sincero. La pace è più urgente del culto, perché è un elemento necessario al culto. Dio ci attende insieme e non vuole preghiere separate: «Va’ prima a riconciliarti. Dopo verrai». Tra cristiani di confessioni diverse, separate e avverse nella storia, anche con violenza, oggi costruiamo fraternità e amicizia, ma abbiamo bisogno e diritto, poiché ci stiamo riconciliando, anche di pregare insieme. Conservando la varietà dei riti, che è ricchezza, dovremmo realizzare l’intercomunione. Le differenze di strutture e discipline ecclesiali, e le differenze dottrinali secondarie, non dovrebbero impedire l’unità nel momento principale della preghiera, del rendimento di grazie (eucarestia).
Le memorie avvelenate, per un’offesa subita, o compiuta; la memoria di guerre e violenze varie che ci siamo fatti impugnando verità armate gli uni contro gli altri, queste memorie ci hanno impedito a lungo di pregare insieme, e di pregare sinceramente, separati ciascuno nella sua chiesa. È necessario ricordare le violenze, non è sano rimuoverle dalla memoria, perché la riconciliazione che ha futuro è quella, come ci insegna l’esemplare vicenda sudafricana (nella quale lo spirito cristiano è stato energia portante), basata sulla verità, su tutta la verità anche più brutta e dolorosa39.
La riconciliazione non è soltanto ritrovare una precedente situazione pacifica, conciliata, ma, di più, è un nuovo trovare una relazione nuova, umilmente e sapientemente addolorata per le fratture di ieri, istruita dalla colpa, libera da superbie ecclesiastiche o teologiche, esperta del dolore inflitto-patito, convertita alla pace. Non solo una pace-patto-contratto, ma un passo più avanti, una nuova conciliazione, un concilio degli animi, dei cuori, delle menti, dei cammini, aperto ad accogliere, a riformarsi, a ricomporre, anche ad aprire dialettiche nuove senza giudicare né escludere, sapendo essere diversi e amici, e fratelli, perché la pace nella chiesa come nel mondo non è l’omologazione, tanto meno imperiale, d’autorità, ma la «convivialità delle differenze»40, secondo la splendida definizione prediletta da Tonino Bello, vescovo di pace.

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1 Con questo titolo ho pubblicato una raccolta di scritti presso Cittadella Editrice, Assisi 1998.
2 Gli atti di un interessante convegno su questa problematica sono contenuti in Convertirsi alla nonviolenza?, Credenti e non credenti si interrogano su laicità, religione, nonviolenza, a cura di Matteo Soccio, Il Segno dei Gabrielli editori, S. Pietro in Cariano (Verona), 2003.
3 Eknath Easwaran, Badshah Khan, il Gandhi musulmano, Edizioni Sonda, Torino, 1990.
4 Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino, 1996, pp. 57-58 e 155.
5 Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, prefazione di Roberto Mancini, traduzione di Enrico Peyretti; Pisa University Press, 2004, p. 170.
6 Cfr Apocalisse 3, 15-16.
7 Nadia Neri, Un’estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del lager, Edizioni Bruno Mondadori, Milano, 1999, pp. 5, 124, 142 e passim.
8 Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Cittadella editrice, Assisi, 2004, pp. 9-10.
9 Enzo Bianchi, in AA. VV. La pace, dono e profezia, Edizioni Qiqaion, Magnano, 1991, p. 5.
10 Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, citato, p. 31.
11 Aldo Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia 1969, p. 385, cit. da Rocco Altieri, Aldo Capitini e la nonviolenza nell'incontro tra religioni orientali e occidentali, in Nonviolenza e giustizia nei testi sacri delle religioni orientali, Atti del convegno della Facoltà di Lettere dell'Università di Pisa, 24-26 maggio 1995, a cura di Caterina Conio e Donatella Dolcini, ed. Giardini, Pisa 1999, pp. 303-312.

12 Alberto Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna. Un discorso storico sul cristianesimo che cambia, Einaudi, Torino, 2004
13 Si vedano: Giuseppe Mattai, Bruno Marra, Dalla guerra all’ingerenza umanitaria, Sei, Torino, 1994; Massimo Toschi, L’angelo della pace. Il Vangelo nel tempo della guerra, Quaderni di Missione oggi, info@saveriani.bs.it (articoli dal 1993 al 2002).
14 Le citazioni dal libro indicato di Melloni sono tratte dalle pagine 135 (le prime due), 137, 139, 140, 141, 143.
15 Raimon Panikkar, La torre di Babele. Pace e pluralismo, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole, 1990, p. 47.
16 Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, citato, p. 6.
17 Gandhi, opera citata, p. 44.
18 «Non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo di amare la legge è di obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l'esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l'ora non c'è scuola più grande che pagare di persona un'obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. (…) Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri. Non capisco come qualcuno possa confonderlo con l'anarchico. Preghiamo Dio che ci mandi molti giovani capaci di tanto» (Don Lorenzo Milani, L'obbedienza non è più una virtù. Lettera ai giudici, del 18 ottobre 1965, Libreria Editrice Fiorentina, senza data, pp. 37-38).
19 Cfr Rinaldo Bertolino, citato da Rodolfo Venditti, L’obiezione di coscienza al servizio militare, 3ª edizione, Giuffré, Milano, 1999, pp. 13-14.
20 Cfr La Costituzione della Repubblica Italiana illustrata con i lavori preparatori, a cura di V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1979, p. 173.
21 Erich Fuchs, Resistenza, in Serge Molla, Violenza, Claudiana, Torino, 2004, p. 65.
22 Andrea Cozzo, Elementi per un approccio nonviolento al superamento del sistema mafioso, in La nonviolenza è in cammino, foglio telematico quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo, nbawac@tin.it; n. 853 del 27 febbraio 2005.
23 Alberto Melloni, opera citata, p. 134.
24 Cfr il mio Dov’è la vittoria? Piccola antologia aperta sulla miseria e fallacia del vincere, Il Segno dei Gabrielli editori, S. Pietro in Cariano (Verona), 2005
25 Si può vedere la mia bibliografia dei casi storici di lotte nonviolente Difesa senza guerra, pubblicata più volte in successivi aggiornamenti, reperibile in internet: http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_2668.html ; http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti
26 Alberto Melloni, opera citata, p. 135-136.
27 Giovanni 4,37, che cita la bella immagine del salmo 126, 5-6.
28 Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, citato, pp. 18 e ss., 69 e ss. Anche Gandhi si è trovato, ovviamente, a dover decidere in un serio conflitto fra doveri diversi: opera citata, p. 103
29 Giuliano Pontara precisa con chiarezza che la nonviolenza non è un principio assoluto e fanatico, e risponde così alla critica frequente per cui essa mancherebbe al dovere di impedire efficacemente una precedente violenza. Proprio in base all’etica della responsabilità (cioè degli effetti dell’atto) e non dei principi o delle intenzioni, Pontara sostiene «la tesi per cui è desiderabile che, a livello pratico, di morale positiva, gli individui interiorizzino una norma che proibisce l’uso della violenza» (La personalità nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1996, pp. 46-47, ma vedi da p. 42 a p. 48). Questa interiorizzazione pratica, anche se non teoricamente assoluta, del rifiuto della violenza è la via più efficace, perciò più responsabile, per ridurre globalmente la violenza e per inventare alternative ad essa nei conflitti. Lo stesso problema Pontara tocca altrove (Antigone e Creonte. Etica e politica nell’era atomica, Editori Riuniti, Roma, 1990) concludendo: «Parrebbe necessario che in pratica il nonviolento debba accettare quella norma che proibisce assolutamente l’uso della violenza che in teoria, come ho accennato sopra, non parrebbe sostenibile» (pp. XII-XIV della Introduzione).
30 Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, citato, pp. 229, 274-275.
31 Jean-Marie Muller, opera citata, p. 294, 302.
32 Vedi ampiamente il mio libro succitato Dov’è la vittoria?
33 Mentre per Gandhi uccidere può essere addirittura, in certe circostanze, un dovere, un imperativo della nonviolenza (Teoria e pratica della nonviolenza, citato, pp. 69 e ss, ma anche p. 22 e 344), per Jean-Marie Muller «la giustificazione della violenza con la necessità è la prova che la violenza non ha una giustificazione umana» (opera citata, p. 69), e «la necessità di uccidere non sopprime affatto il comandamento di non uccidere» (ivi, p. 78); lo stato di necessità non permette di rendere dovere o diritto la violenza dell’uccidere (v. ancora la pp. 80, 275, 289, 292).
34 Jean-Marie Muller, opera citata, p. 296; vedi anche p. 209.
35 Giuliano Pontara lo definisce più completamente «complesso militare-industriale-accademico-burocratico», in Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1996, p. 10
36 Il principio della legittima difesa personale, che può scusare penalmente anche chi uccide per non essere ucciso, si basa sul giudizio insostituibile, entro la situazione immediata, della coscienza personale dell’aggredito. Ma nessuno può ordinare ad un altro di uccidere. Ogni esercito, invece, è basato su questo comando, rafforzato da dura disciplina spersonalizzante. Non si può evitare una considerazione che sembra condurre a negare ogni possibilità morale di un esercito.
37 Vedi principalmente Ernesto Balducci, La terra del tramonto. Saggi sulla transizione, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole, 1992, passim e, in particolare, p. 12 e pp. 49 e ss.
38 Anche Norberto Bobbio nel libro Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e la guerra (Edizioni Sonda, Torino, 1989), paga il suo tributo all’idea che la pace può soltanto venire imposta, e che, pur necessaria, non è possibile perché manca il “terzo” più potente degli antagonisti. Bobbio, tuttavia, dopo la fine della guerra fredda senza guerra calda, ammise in una corrispondenza epistolare inedita che la saggia paura della “mutua distruzione assicurata” aveva funzionato da “terzo”.
39 Serge Molla, Violenza, citato, pp. 53-56.
40 Antonio Bello, Scritti, vol. 4°, Scritti di pace, Editore Mezzina, Molfetta, 1997, pp. 66-67, 99, 110, 161, 175, 176, 178, 263, 279, 336, 341, 347.