IL GANDHI MUSULMANO
Il 20
gennaio 2008 sono stati venti anni dalla morte di un singolare
protagonista della nonviolenza, musulmano. Qui riassumo il libro di
Easwaran che ne presenta la vita, lo spirito e l’opera. Ho steso
questa sintesi prima di conoscere la scheda essenziale che dallo
stesso libro ha tratto Giorgio Barazza, e prima di leggere la
sintesi, più breve della mia, che ne ha fatto Francesco Pullia.
Seguono
due brevissime schede.
Eknath Easwaran,
Badshah Khan, il Gandhi musulmano, traduzione di Lorenzo
Armando, Ed. Sonda, Torino 1990 (1984), pp. 250.
È
uscita presso lo stesso editore una seconda
edizione di questo libro, nel 2008, con prefazione di Elvio Arancio e
Luisa Mondo e una postfazione di Nanni Salio, pp. 213, euro 14,00
Abdul Ghaffar Khan,
detto Badshah Khan, il “re dei khan” (1890-1988) è ricordato con
questi vari nomi. Fu il leader che guidò una popolazione guerriera e
feroce come i pathan, ovvero pashtun (= Afghani), della Frontiera, la
“porta dell’India” (oggi tra Pakistan e Afghanistan), di
religione musulmana, e li condusse ad adottare la nonviolenza contro
le repressioni molto violente del dominio inglese (vedi Scheda 1).
Quella è la terra di Zoroastro, degli inni vedici, della cultura
buddhista, prima che vi arrivasse l’islam. Badshah Khan trovò
proprio nella sua fede islamica l'ispirazione alla nonviolenza. La
sua figura storica è importante per sfatare la rozza identificazione
odierna tra islam e violenza.
Gandhi
osservò che proprio il violento coraggioso nella difesa di diritto e
dignità è il più disponibile a capire e vivere la "nonviolenza
del forte". Egli scrive: «Mentre non c’è
alcuna speranza di vedere un vile diventare nonviolento, questa
speranza non è vietata ad un uomo violento» (Antiche
come le montagne, Ed. Comunità,
Milano 1965, p. 168; citato da Jean-Marie Muller, Il
principio nonviolenza. Una filosofia della pace,
Pisa University Press 2004, p. 271).
«Musulmano è
colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e
lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio.
La fede in Dio è amore del proprio compagno». Sono parole di Khan
citate in questo libro (p. 61). Il giovane Ghaffar apprese da suo
padre Behram Khan lo spirito del perdono, davvero singolare in quella
società che aveva il codice della vendetta come regola di onore. Era
un ragazzo negli anni della Guerra della Frontiera, la rivolta dei
pathan nel luglio 1897 (raccontata da Winston Churchill, ventitreenne
corrispondente di guerra arruolato nel 4° ussari), repressa dagli
inglesi che distrussero i raccolti, tagliarono gli alberi (azione
feroce di guerra vietata dal Corano), avvelenarono i pozzi,
demolirono le case. Ma fu una vittoria di Pirro: l’ostilità dei
pathan durerà nei decenni, fino ad oggi. Non lo capì Churchill, ma
lo capì Annie Besant, inglese, che già si batteva per l’autogoverno
indiano.
Nel 1879 la Gran
Bretagna aveva imposto la sua influenza sull’Afghanistan, in
funzione anti-russa (la storia si ripete!). Inutilmente l’emiro
afghano aveva ammonito gli inglesi sulla indomabilità dei pathan.
Poco dopo il “giubileo di diamante” della regina Vittoria (giugno
’97), l’impero stava diventando una trappola.
Come Gandhi indù,
così Abdul Ghaffar musulmano riceve un’educazione inglese, senza
perdere il cuore della propria tradizione. Dapprima si arruola nelle
“guide”, un corpo scelto a servizio dell’impero, ma poi ne
esce, perché gli inglesi trattavano i pathan da inferiori. Lavora la
terra e osserva le condizioni del suo popolo. Il suo percorso è
simile a quello di Gandhi. Il viceré Curzon “viviseziona” con le
deportazioni la nazione pathan. In queste condizioni, Abdul Ghaffar
apre una scuola nel suo villaggio di Utmanzai e poi altre nei
villaggi vicini, nonostante l’avversione dei mullah tradizionalisti
e gli ostacoli della legge inglese. Ormai ha scelto la via delle
riforma sociale educativa per servire il suo popolo. Si sposa, ha un
figlio che lo aiuterà. Incontra altri leader musulmani impegnati
nella promozione culturale del popolo e si dedica in particolare alle
tribù delle montagne, governate dagli inglesi con durezza,
isolamento, umiliazioni. Tra di loro, in preghiera e digiuno, trova
la sua via, che seguirà per settant’anni: il servizio di Dio nel
servire i poveri, gli ignoranti, i violenti. Negli stessi anni,
Gandhi avvia in Sudafrica il satyagraha, fino al suo ritorno in
India, nel 1914.
Molti indiani
combatterono e morirono per l’impero inglese nella prima guerra
mondiale, ma, nonostante le illusioni, le condizioni dell’India
risultarono più dure di prima. Ghaffar sente parlare di Gandhi e
delle sue campagne, si riconosce nel suo scopo e nei suoi metodi. Tra
il 1915, quando muore improvvisamente la moglie amata, e il 1918,
Ghaffar visita tutti i 500 villaggi delle basse valli della
Frontiera. La gente lo acclama badshah khan.
Nel 1919, dopo la
strage di Amritsar, Gandhi prepara la rivolta nonviolenta contro il
dominio inglese. Ghaffar è imprigionato per sei mesi senza processo,
e così tante altre volte. La sua colpa è educare il popolo. I
genitori lo inducono a risposarsi. Partecipa nel 1920 alla sessione
del Congresso che decide la lotta nonviolenta. Sente come un dovere
sacro la lotta per la libertà. In carcere rifiuta la libertà
sottoposta alla condizione di non girare più per i villaggi;
impressiona tutti per la scrupolosa osservanza del regolamento e la
forte capacità di soffrire; rifiuta miglioramenti ottenibili con la
corruzione. Un carceriere riconosce che Ghaffar è in prigione «per
conto di Dio». In prigione, incontrando altri indipendentisti indù
e cristiani, impara a conoscere e rispettare le altre religioni.
Intanto, gli muore l’amata madre. Scarcerato nel 1924, sebbene
molto provato dopo tre anni di prigione, è ormai accolto come un
leader dai pathan.
Egli sente più di
tutti la contraddizione intrinseca alla mistica della vendetta e
della violenza, tipica dei fieri pathan, che preferiscono rubare
piuttosto che mendicare, uccidere piuttosto che patire un dolore.
Molte storie di vendette familiari gli dicono che il pathan non è un
assassino irresponsabile, ma la vittima del suo distorto codice
d’onore. Ghaffar comprende che la politica dell’impero inglese ha
buon gioco nel mettere i pathan gli uni contro gli altri: impegnati a
tagliarsi la gola tra di loro non pensano alla libertà. Intuisce che
la violenza pathan è frutto di ignoranza, superstizione e del peso
schiacciante dell’abitudine. Così sprecano il loro coraggio e
forza. Sa che il suo compito è educare, illuminare, risollevare,
ispirare. Insegnerà ai pathan che il vero coraggio è essere nel
giusto. Egli riuscirà in questo perché è un vero pathan, che può
capire nell’intimo i pathan.
Vedo due lezioni,
a questo punto della storia che percorriamo: la nonviolenza non può
essere importata, ma può crescere solo dall’interno di una
cultura, che discute e riforma se stessa, sulle sue basi positive; se
i pathan capirono la nonviolenza, anche popolazioni soggette alla
cultura mafiosa, ma non prive di umanità, possono capirla e viverla.
Nel 1926 gli muore
il padre e, per una caduta durante il pellegrinaggio alla Mecca, la
seconda moglie, dopo di che fa voto di non risposarsi per dedicarsi
interamente al servizio del popolo. Come Gandhi, Ghaffar valorizza
molto il ruolo attivo delle donne nel movimento. Fonda una rivista in
lingua pakhtu, che discute di igiene, temi sociali, diritti delle
donne, dignità del popolo pathan. Egli pratica già la sostanza del
“programma costruttivo” di Gandhi.
Nel 1928 incontra
Gandhi, ne riceve profonda impressione, e impara da lui la tolleranza
e pazienza che manca nei leader islamici. Incontra anche Nehru. Si
inserisce nella lotta per l’indipendenza indiana, dando coscienza
politica ai pathan: «Dovete vivere per la comunità. È l’unica
strada che conduca alla prosperità e al progresso» (p. 129).
Ci
voleva un esercito, sì, ma di gente libera sia dalla violenza dei
fisicamente forti sia dalla nonviolenza dei moralmente deboli.
Badshah Khan insegnò ai pathan che la massima forma di onore e di
coraggio era affrontare un nemico per una giusta causa senza
indietreggiare e senza imitare con l’uso delle armi la sua
violenza, combattendo anche contro la propria violenza.
Riuscì
così a costituire il primo “esercito” nonviolento della storia
addestrato professionalmente. Tutti i pathan potevano entrarvi,
uomini e donne, purché pronunciassero questo giuramento (per i
pathan giurare impegna la vita):
«Sono
un khudai kidmatgar (servo di Dio), e poiché Dio non ha bisogno di
essere servito, ma servire la sua creazione è servire lui, prometto
di servire l’umanità nel nome di Dio.
Prometto
di astenermi dalla violenza e dal cercare vendetta.
Prometto
di perdonare coloro che mi opprimono o mi trattano con crudeltà.
Prometto
di astenermi dal prendere parte a litigi e risse e dal crearmi
nemici.
Prometto
di trattare tutti i pathan come fratelli e amici.
Prometto
di astenermi da usi e costumi antisociali.
Prometto
di vivere una vita semplice, di praticare la virtù e di astenermi
dal male.
Prometto
di avere modi gentili ed una buona condotta, e di non condurre una
vita pigra.
Prometto
di dedicare almeno due ore al giorno all’impegno sociale».
Questo esercito
volontario e gratuito cominciò con 500 reclute, la divisa era una
camicia rossa (gli inglesi li vedono come infiltrati sovietici), le
funzioni erano aprire scuole, sostenere progetti di lavoro, mantenere
l’ordine nelle assemblee, sviluppare l’autogoverno della società.
Marciando sulle montagne cantavano il loro inno:
«Siamo
l’esercito di Dio, / non ci importano morte o ricchezza, /
marciamo, noi e il nostro capo, / pronti a morire. / Noi serviamo ed
amiamo / il nostro popolo e la nostra causa. / La libertà è il
nostro scopo, / le nostre vite il prezzo da pagare» (p. 132).
Badshah Khan
diceva a questi “soldati”: «Vi sto fornendo un’arma a cui la
polizia e l’esercito non potranno resistere. È l’arma del
Profeta: la pazienza e la giustizia sono quest’arma. Nessun potere
sulla terra può resisterle». Egli sviluppava così la sabr,
la pazienza, che nel Corano è la virtù centrale nella “guerra
santa” tra il bene e il male che ogni persona ha da combattere nel
proprio cuore, facendone la virtù del nonviolento forte. Così,
sabr, insieme a lâ unf, è il termine che significa
nonviolenza in arabo (p. 135).
Come i coloni
americani nel luglio 1776 a Philadelphia, così, in termini simili,
cinquemila delegati del Congresso a Lahore, il 31 dicembre 1929, e il
giorno dopo assemblee di massa in tutta l’India, dichiaravano se
stessi e tutti gli indiani uomini e donne liberi, da quel momento e
per sempre. Ma aggiungevano: «La
strada più efficace per ottenere la libertà non passa per la
violenza. (...) Se riusciamo a ritirare la nostra collaborazione
volontaria con il governo inglese, e siamo disposti alla
disobbedienza civile, compreso il rifiuto di pagare le tasse, senza
compiere violenze neanche se provocati, la fine di questo dominio
disumano è certa».
Nel marzo del
1930, Gandhi, dopo averla annunciata al viceré, guidava la “marcia
del sale”, ribellione nonviolenta al monopolio inglese su un bene
prezioso come l’acqua nel clima tropicale. Centomila persone,
compreso Gandhi, finirono in prigione. Nella regione della Frontiera
la repressione fu più intensa e brutale, come documentò una
commissione del Congresso. Badshah Khan, col suo “esercito” di
camicie rosse, intensificò l’azione di educazione e organizzazione
nei villaggi, ma fu arrestato dagli inglesi e condannato a tre anni
di carcere.
Manifestazioni
nonviolente di persone disarmate furono investite da carri armati
inglesi nel bazar di Kissa Khani, con quasi trecento morti e altri
feriti, colpiti a sangue freddo tra la folla che rimaneva ferma di
fronte agli spari dei soldati. Il massacro (simile a quello di
Amritsar del 1919) è documentato nei giornali anglo-indiani del
tempo e negli studi di Gene Sharp. Ma tiratori scelti garhwali si
rifiutarono di sparare sulla folla: «Noi non spareremo sui nostri
fratelli disarmati». Solo alcune tribù delle montagne, tra le quali
fu sempre impedito a Badshah Khan di agire, compirono incursioni
violente, mentre Khan era in carcere. Alcuni scrittori inglesi hanno
usato questi fatti per screditare la nonviolenza di Khan. Ma, mentre
le azioni violente furono sgominate dagli inglesi, il movimento
nonviolento cresceva.
Sconcertati dalla
nonviolenza dei pathan, gli inglesi tentavano di spingerli alla
reazione violenta, con provocazioni fisiche umilianti, nel villaggio
stesso di Khan, Utmanzai, a cui i “servi di Dio” resistettero
eroicamente. La popolazione si aggregava a loro. La resistenza
restava nonviolenta. Alla fine di settembre l’esercito nonviolento
arrivò a contare ottantamila (altre fonti dicono centomila)
volontari, uomini e donne. Dopo l’accordo paritario, che disgustò
Churchill, tra Gandhi e il viceré, accordo che sancì la tregua, i
pathan ottennero con la lotta nonviolenta la parità politica della
loro regione col resto dell’India.
Khan,
tornato nella Frontiera, era considerato un santo, era chiamato il
Gandhi della Frontiera, ma reagiva: «Non aggiungete il nome di
Gandhi al mio!». Neppure il titolo badshah gli piaceva: era servo
del popolo, non re. Cede la sua terra ai figli, diventando un fakir,
un senza terra, senza diritto di voto nella jirga. Resta solo
un riferimento spirituale. Gira instancabile per i villaggi, ad
educare gli ignoranti, avversato dagli inglesi, dai mullah, dai khan
ricchi che non vogliono riforme. Due volte rischia di essere ucciso.
Percorreva fino a quaranta chilometri al giorno. Appena arrivato in
un villaggio, puliva la moschea, stava coi poveri. Ripeteva: «Abbiamo
due obiettivi: liberare il paese; nutrire l’affamato e vestire
l’ignudo». Insegnava l’igiene, la forza, il disinteresse.
Ricordava alle donne la loro parità coranica con gli uomini.
Gli
inglesi gli proibirono queste visite. Gandhi protestò, voleva
visitare la Frontiera, ma gli fu impedito. Mandò il figlio Devadas,
che constatò la forza e l’ispirazione di Khan. Il quale disobbedì
al divieto e fu arrestato. Violando la tregua, tra fine del 1931 e
inizio del 1932, gli inglesi occuparono Peshawar e arrestarono anche
Gandhi. Un inglese collaboratore di Gandhi, Verrier Elwin, documenta
la persecuzione contro le “camicie rosse”, nella Frontiera, con
metodi feroci e 35.000 arresti, e testimonia l’attaccamento
orgoglioso dei pathan alla nonviolenza. Anche senza la presenza di
Badshah Khan, avevano ormai compreso che la nonviolenza funziona.
Elwin documenta oggettivamente anche alcuni rari episodi di violenza,
da parte di non appartenenti all’esercito nonviolento. Elwin fu
arrestato ed espulso dalla provincia.
Intanto,
Khan fu detenuto per tre anni senza processo, in isolamento, lontano
dalla Frontiera, soffrendone nella salute. Rilasciato nel 1934, ma
bandito dalla Frontiera, Khan accettò l’invito di Gandhi e andò a
vivere a Wardha, il suo ashram nell’India centrale. Gandhi era
concentrato nel suo “programma costruttivo”: dopo aver insegnato
come combattere in modo nonviolento, ora il compito più arduo era
insegnare a vivere in modo nonviolento. Affascinato da Khan, chiese
al suo segretario, Mahadev Desai, di stenderne una biografia, con una
sua prefazione. Desai scriveva di Khan: «La cosa più grande in lui
è la sua spiritualità, il vero spirito dell’islam, la
sottomissione a Dio».
Il
fratello di Khan, Saheb, aveva una moglie inglese. Una volta Gandhi
chiese se si era convertita all’islam. Khan gli rispose: «Sarai
sorpreso, ma non saprei dirti se è musulmana o cristiana. Per quanto
ne so, non si è mai convertita, è assolutamente libera di seguire
la sua fede. Un marito e una moglie dovrebbero poter seguire ciascuno
la sua fede». Gandhi era d’accordo, ma osservò che la maggior
parte dei musulmani non pensava così. Khan lo sapeva bene, ma disse
che nessuno conosce il vero spirito dell’islam, e che «tutte le
fedi sono ispirate quanto basta a coloro che vi aderiscono. Il Corano
dice che in molti modi Dio manda messaggeri in tutte le nazioni» (p.
174).
In
seguito, Khan va a Calcutta, parla ai musulmani del Bengala, li
invita a formare un movimento di combattenti nonviolenti e ad aiutare
i villaggi poveri. Partecipa con Gandhi alla sessione annuale del
Congresso, a Bombay, nell’ottobre ’34, durante la quale racconta
agli indiani cristiani l’esperienza dei khudai khidmatgar, e parla
al Club per l’unità delle donne. Accusato per frasi “sediziose”
pronunciate a Bombay, nel suo racconto del massacro di Kissa Khani,
in dicembre Khan è di nuovo arrestato. Su consiglio di Gandhi, che
non lo voleva in prigione, accettò a fatica di difendersi affermando
che non intendeva usare espressioni sediziose, ma fu ugualmente
condannato a due anni di carcere duro, in isolamento. Ne soffrì
nuovamente nella salute. Rilasciato nel luglio ’36, tornò da
Gandhi. Nel gennaio ’37, nelle prime elezioni dei consigli
legislativi, il fratello Saheb viene eletto primo ministro della
Frontiera e revoca il bando inflitto a Khan, accolto nella sua terra
da immenso affetto popolare. La lotta nonviolenta dei pathan aveva
ottenuto un parziale autogoverno.
In
ottobre Nehru visitò la Frontiera, e nel ’38 lo stesso Gandhi,
finalmente, accolto da folle composte, non sfrenate, nelle uniformi
rosse. Egli constata l’amore che lega Khan al suo popolo, al quale
ha insegnato la forza vera. A Mardan un corpulento pathan dice a
Gandhi: «Noi siamo ignoranti, siamo poveri, ma non ci manca niente,
perché tu ci hai insegnato la lezione della nonviolenza». Gandhi
voleva studiare meglio l’esperienza dei khudai khidmatgar, e tornò
in ottobre ad incontrarli. Disse loro che non bastava la resistenza
passiva se si fossero sentiti più deboli per il fatto di non usare
le loro armi tradizionali, e che dovevano invece sentirsi più forti,
altrimenti era meglio tornare alle armi. Ma «voi avete una forza
spirituale tale da proteggere non solo l‘islam ma anche altre
religioni». «Rimuovere la violenza dal proprio cuore non è solo la
capacità di controllo della collera, ma il completo sradicamento
della collera. Realizzare la nonviolenza significa conoscere Dio,
sentire in sé la sua forza. Chi ha rinunciato alla violenza dovrebbe
pronunciare il nome di Dio ad ogni respiro». Egli, disse Gandhi, lo
faceva da vent’anni, anche nel sonno (p. 190). Sappiamo che, quando
fu ucciso, spirò invocando «He Ram!».
Gandhi
girò tutta la regione insieme a Khan. Questi riconosceva che la
collera dei pathan era solo repressa, ed era turbato dalla quantità
di rivalità fra tribù e famiglie. Ora bisognava esercitare i
volontari nel Programma costruttivo, la nonviolenza positiva: filare
e tessere, l’igiene, l’educazione di base, l’indostano come
lingua nazionale unificante.
1939,
seconda guerra mondiale: l’India è coinvolta senza consenso. Il
Congresso delibera che un’India libera e democratica sosterrebbe
volentieri le altre nazioni libere contro l’aggressione, ma non
senza un chiarimento, che però gli inglesi rinviano a dopo la
guerra. Intanto, essi scavano divisione tra indiani indù e
musulmani, per dominarli meglio. Il Congresso voleva l’indipendenza,
la Lega musulmana lo status di dominion entro l’impero. Nel 1940
Alì Jinnah proponeva uno stato musulmano. Richiesto di unirsi alla
lotta, in quanto musulmano, contro il «dominio indù», Badshah Khan
rifiutò. Invitò la Lega a cacciare gli inglesi e poi vivere
insieme, indù e musulmani, come avevano fatto per secoli. Quelli
della Lega chiamarono Khan indù.
Davanti
all’ipotesi di attacco esterno all’India, il Congresso dapprima
si allontanò da Gandhi e dalla nonviolenza, ma Khan fu duro nel
riaffermare il metodo di «servire Dio e l’umanità offrendo le
proprie vite senza ucciderne alcuna». Intanto, egli continua
l’addestramento attivo nel Programma costruttivo, avvia scuole
femminili, cosa rara tra i musulmani. Racconta come da giovane aveva
tendenze violente e, sull’insegnamento di Gandhi, abbia dovuto
«rifare se stesso». Simili trasformazioni, talora faticose, aveva
indotto anche in altri, come nel fuorilegge omicida Murtaza Khan,
che, scontata la condanna, era diventato un comandante dei khudai
khidmatgar. Poi finì di nuovo in prigione, ma questa volta come
“servo di Dio”, per la libertà della sua gente.
Nel
luglio 1942 Gandhi rivolge ormai agli inglesi una sola richiesta:
«Quit India» (lasciate l’India). Viene arrestato. Khan e il
fratello parlano contro lo sforzo bellico. Alla fine dell’anno sono
in prigione 60.000 indiani. Con i leaders del Congresso in prigione,
esplode la violenza in tutta l’India, ma non nella Frontiera.
Dopo
la guerra, l’Inghilterra si avvia a riconoscere l’indipendenza,
ma c’è contrasto tra Congresso e Lega musulmana, su chi dovrà
avere il potere. Gravi violenze scoppiano tra indù e musulmani.
Gandhi e anche Khan, addolorati, si recano nelle regioni più
infuocate per pacificare gli animi con la preghiera e il digiuno e
dimostrare la fratellanza reciproca. La violenza contagia ora anche
la Frontiera, dove 10.000 khudai khidmatgar proteggono indù e sikh
con la loro presenza disarmata. Il Congresso si rassegna alla
richiesta della Lega, di uno stato musulmano separato.
Solo
Khan e Gandhi si opposero, con ragione perché la violenza segnò
ancora l’agosto 1947, quando si incrociarono due migrazioni di
quindici milioni di persone, con violenze che fecero 500.000 morti.
Rimase un’eredità di violenza e paura. Khan e i suoi soldati della
nonviolenza resteranno in balia dei ministri musulmani, che da anni
li ostacolavano. Gandhi promette di andare in Pakistan, senza
riconoscere la frontiera, a costo della vita. Di Khan dice: «La sua
agonia interiore mi spezza il cuore».
Nel maggio ’47,
Gandhi aveva tentato, parlando con tutti, di evitare la spartizione.
Frena gli indù eccitati, difende la bontà dell’islam
distinguendola dai musulmani violenti. Prega con una preghiera tratta
dal Corano. Khan è con lui, angosciato per il futuro. Si separano
quando Gandhi parte per Calcutta, Khan per la Frontiera.
Il 15 agosto 1947
avveniva in pace e amicizia il passaggio delle consegne tra l’ultimo
viceré inglese, Lord Mountbatten e il nuovo governo indipendente
dell’India, guidato da Nehru. Gandhi, e quanti lo seguirono,
avevano realizzato il prodigio storico di trattare gli avversari con
rispetto, e anche amore, nel tempo stesso in cui rifiutavano
caparbiamente il loro dominio. Avevano combattuto senza armi e
avevano conquistato la libertà e la pace. Ma purtroppo non c’era
la pace interna. Le violenze tra indù e musulmani spinsero Gandhi ad
un digiuno «fino alla morte» nel gennaio 1948: la paura degli
indiani di perdere “Bapu”, il Mahatma, ottenne la cessazione dei
massacri. Gandhi voleva andare a piedi in Pakistan, attraverso il
Punjab, la regione che aveva visto le maggiori violenze. Ma fu
ucciso, con una Beretta italiana, nel pomeriggio del 30 gennaio, da
un fanatico indù.
Un referendum,
nella Frontiera, doveva scegliere tra Pakistan e India. Badshah Khan,
per evitare violenze e divisioni tra i villaggi per generazioni,
consiglio ai khudai khidmatgar di astenersi, così la Frontiera andò
al Pakistan. I khudai khidmatgar assicurarono la loro lealtà al
nuovo stato. Khan chiese un’autonomia per la regione dei pathan, ma
per questo fu accusato di tradimento e condannato a tre anni di
carcere duro, prolungati a sette, e poi subito di nuovo incarcerato.
I khudai khidmatgar furono messi al bando e distrutte le loro sedi.
Ucciso Gandhi,
incarcerato Khan, i due più grandi uomini di Dio di tutta l’India
erano stati sacrificati in nome della religione. Khan, in un
intervallo di libertà, fondò il primo partito socialdemocratico del
Pakistan. Egli trascorse in carcere trent’anni, un terzo della sua
vita, e sette in esilio, ospite politico del governo afghano, ma non
cessò mai di sostenere i princìpi dell’amore e del servizio,
senza rancore per nessuno. Nel 1962 fu dichiarato “prigioniero
dell’anno” da Amnesty International.
Alla sera della
sua vita si accingeva a ricostruire ciò per cui aveva vissuto e che
aveva visto distruggere da dietro le sbarre della prigione. Diceva
che non cercava riposo in questa vita. «Si impara molto dalla scuola
della sofferenza. Mi chiedo cosa sarebbe stato di me se avessi avuto
una vita facile e non avessi avuto il privilegio di gustare le gioie
della prigione e tutto ciò che essa significa» (p. 231).
Easwaran paragona
talvolta questi uomini a Francesco d’Assisi: come Francesco, alla
fine della vita, vide vacillare e dissolversi ciò che aveva avviato
spendendosi totalmente, movimento che però in seguito continuò a
scuotere il genere umano, così è dell’opera di Gandhi, la cui
alternativa nonviolenta risalta sempre di più, a fronte dei
fallimenti pazzeschi della politica violenta, e così è anche di
Badshah Khan, che va dimostrando la profonda consonanza dell’islam
vivo e in ripresa, con la nonviolenza. Ciò che Gandhi ha fatto
nell’induismo e Martin Luther King nel cristianesimo, Abdul
Ghaffar, Badshah Khan, sta facendo nell’islam, lungo le linee
profonde di cammino degli spiriti e della storia umana.
Enrico
Peyretti, 11 gennaio 2008 (enrico.peyretti@gmail.com
)
****************
Scheda 1
Guerra “civilizzata”
1919, 1933
C’è
sempre chi dice che la nonviolenza gandhiana ebbe gioco facile con
gli inglesi che sono dei gentiluomini, ma non può funzionare in
altri conflitti. Oltre gli esempi già riferiti, ricordo l’esempio
che mi ha colpito nel libro di Easwaran, Badshah
Khan il Gandhi musulmano
(nell'edizione italiana, Sonda, Torino, 1990, a pp. 14-15): con i
pathan "selvaggi" gli inglesi ritenevano impossibile la
"guerra civilizzata" e necessaria la punizione collettiva
dei civili; il bombardamento aereo di obiettivi civili fu praticato
dagli inglesi, ben prima dei tedeschi a Guernica, su Kabul e Jalabad
nel 1919 dalla Royal Air Force (L. Dupree, Afghanistan,
Princeton University Press, Princeton 1980, p. 442), e su villaggi
della Frontiera (O. Caroe, The
Pathans: 550 B.C. - 1957 A.D.,
St Martin's Press, New York, 1958, p. 408; Caroe fu l'ultimo
governatore della Frontiera prima dell'indipendenza e scrive dei
pathan con comprensione, rispetto e affetto; il suo libro è il più
completo sui pathan, benché filobritannico).
Alla
conferenza sul disarmo aereo, Ginevra 1933, non la Germania ma la
Gran Bretagna si oppose alla proposta di bando del bombardamento
aereo su civili !!
************
Scheda 2
Tra
le molte (ma sempre insufficienti) indicazioni su Islam e
nonviolenza, segnalo le pagine 124-135 del mio libro La
politica è pace,
Cittadella, Assisi 1998, con i relativi rinvii, che oggi sono da
aggiornare; gli atti ancora inediti di un convegno su islam,
violenza, nonviolenza, del Centro Studi Sereno Regis, di Torino
(www.serenoregis.org);
alcune voci della bibliografia storica Difesa
senza guerra, in
rete; il libro di Chaiwat Satha-Anand, Islam
e nonviolenza, Ed.
Gruppo Abele 1997.
Nessun commento:
Posta un commento