sabato 30 dicembre 2017

Per Nanni Salio 
di Enrico Peyretti - Pubblicato su Azione Nonviolenta, gennaio-febbraio 2017

Ci rendiamo conto, sempre di più, di quanto abbiamo perso con la morte di Nanni Salio. Ma lo abbiamo perso, oppure lo abbiamo avuto in consegna? Il suo lascito è il suo lavoro, il suo spirito, la sua persona, gli impulsi le idee e gli esempi che ha dato a noi. Nulla vada perduto di ciò che vale. Non facciamo una celebrazione dell'amico e guida, ma ci prendiamo in carico, per quanto possiamo, con tanta gratitudine e responsabilità, ciò che ci affida. Oltre i valori interiori, il materiale di lavoro che abbiamo in mano sono i suoi scritti. Tra i molti, scelgo qui alcune pagine di appunti che fece circolare tra noi del Sereno Regis a partire dal gennaio 2013, «con lo scopo di avviare una riflessione interna per giungere a elaborare una possibile “visione” condivisa delle finalità che i soci del Centro Studi Sereno Regis, e di altre associazioni e gruppi più vicini (MIR-MN, ASSEFA) si propongono di realizzare nel breve e nel lungo periodo». Entro questo documento, mi limito ora a riprendere e commentare soltanto alcuni punti.

Scriveva Nanni questa premessa: «Ho avuto l'impressione, in molti casi, che non sia facile comunicare qual è il nostro progetto: dipende dalla nostra poca chiarezza, oppure non lo sappiamo formulare bene, oppure ancora continua a esserci un pregiudizio verso la nonviolenza, intesa solo come aspirazione personale, ma lontana da una effettiva capacità di incidere nella realtà sociale?».
Effettivamente, dall'esterno del nostro ambiente di ricerca la nonviolenza certamente è intesa come garbo personale, mitezza di tratto e di azione, ma quasi solo nel privato interpersonale. Credo davvero che un punto primario del nostro lavoro sia:
a) indicare e sperimentare la nonviolenza nelle relazioni larghe, sociali, verso il “terzo sconosciuto”, cioè nell'ethos sociale, ben al di là del “familismo” (fino al clan, alla consorteria) che caratterizza la storia e la struttura della società italiana;
b) modificare la concezione della politica statale-istituzionale generalmente (non solo in Italia) legata per tradizione, quasi inevitabilmente, alla violenza (v. libro di Krippendorff Stato e guerra, Gandhiedizioni 2008). C'è un vero indissolubile “matrimonio”originario tra stato e guerra, rispetto al quale vale moltissimo la dichiarazione (poco più che tale) di “ripudio” (termine matrimoniale) della Costituzione italiana, art. 11 . Il nostro lavoro teorico e storico sulla politica (struttura sociale e istituzioni), e di stimolo all'evoluzione antropologica (nulla di meno!) di emancipazione dal mito della violenza risolutiva, è il punto importante, enorme, difficile, di lungo percorso, che ci impegna.
1. Al primo punto Nanni chiedeva: «Cosa intendiamo per nonviolenza? Non possiamo dare per scontata la risposta. Ci sono vari approcci, che sinteticamente individuo in due assi: agire individuale/collettivo; motivazioni religose-spirituali-esistenziali/politiche. Due assi e quattro approcci principali che non si escludono, ma pongono evidentemente alcuni problemi che vanno affrontati con chiarezza e profondità».
Mi pare utile questa articolazione della complessa scelta nonviolenta. Non è da vedervi una divaricazione, ma una preziosa complementarietà tra i due assi. Essere cercatori di nonviolenza implica:
1) una motivazione personale di valore profondo, che può essere religiosa, umanistica, morale, comunque sempre seriamente interiore: la decisione di non infliggere né ammettere sofferenza ingiusta: per il filosofo confuciano Mencio (IV sec. a.C.) il sentimento umano è «non sopportare le sofferenze altrui». Il Samaritano del vangelo (Luca 10) è toccato «nelle viscere» dalla condizione dell'uomo ridotto dai briganti «mezzo morto». Quella decisione è messa alla prova nel quotidiano, nei rapporti e conflitti familiari, sul lavoro, nella collaborazione, nella gestione di se stessi, nei contatti sociali casuali;
2) una disponibilità e impegno all'agire collettivo-politico, con mezzi associativi e non dissociativi, di verità e non inganno, costruttivi e non distruttivi, di ragione e dialogo e non di forza.
Queste due componenti, personale e politica, possono, in ogni singola persona, essere presenti con differente rilievo (chi vive più la prima, chi la seconda), con i relativi problemi di equilibrio e armonia, ma sono entrambe necessarie alla nonviolenza: né spiritualismo appartato, che condanna la politica per i fatti di malcostume, né politicismo senza etica. In effetti, i maggiori maestri della nonviolenza hanno congiunto con saggezza queste due dimensioni, indicando una realizzazione dell'umano intero: la persona in relazione vitale con le altre persone, sia nella comunicazione spirituale e culturale, aperta e plurale, sia nelle istituzioni sociali democratiche, di confronto costruttivo, di trasformazione dei conflitti, non di lotta spregiudicata.

2. In un secondo punto, su Religioni, spiritualità, politica, Nanni osservava: «Tra i soci e amici, amiche e simpatizzanti del CSSR ci sono approcci che privilegiano una dimensione strettamente religiosa e altri una dimensione prevalentemente laica. Il terreno comune è, ovviamente, quello di una ricerca spirituale, esistenziale, di produzione di senso. Ma occorre approfondire, nel rispetto reciproco di storie personali e approcci diversificati». E qui citava opportunamente Raimon Panikkar:
«Tre grandi tradizioni si incontrano e si intrecciano nella nostra epoca: la tradizione teista, in particolare quella monoteista, la tradizione... non-teista, specialmente quella buddhista, e una tradizione con due teste, quella secolare e quella atea. Il loro inevitabile incontro produce ondate che possono far naufragare molte imbarcazioni individuali, come pure maremoti capaci di travolgere interi popoli. L'homo religiosus tradizionale dei primi due gruppi deve vedersela con l'homo saecularis per verificare insieme se per caso possono incontrarsi nel riconoscimento di una realtà, senza per questo dover spostare il centro di gravità verso una pura trascendenza (sia pure intesa come immanente) o dirigere la propria vita verso quanto è semplicemente empirico (sia pure inteso come futuro)». (Raimon Panikkar, Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, Mondadori, Milano 2006, p. 31).
A me pare che questa pluralità di accenti, religioso e laico, sia un valore del nostro gruppo di lavoro come dei nostri movimenti organizzati, un valore che sarebbe minore se fosse presente uno solo dei due accenti. Panikkar vede la realtà cosmoteandrica (mondo-dio-uomo) con uno sguardo apertissimo, largamente comprensivo, perciò educativo alla pace profonda. A proposito, vorrei citare qui un altro suo pensiero simile, nel quale, come sempre, cerca la composizione e correzione plurale-armonica (non un piccolo compromesso) tra le diverse parti armonizzate della realtà:
«Forse le religioni dovrebbero concentrarsi meno sul nirvana, la mukti, la salvezza, il cielo e così via, cioè sul successo, e concentrare i propri sforzi sull'obiettivo di guarire le ferite umane, curare le piaghe storiche dell'umanità: in una parola sulla cultura di pace più che sulla predicazione della salvezza» (Raimon Panikkar, intervista rilasciata nel 2006, in Jesus n. 12, 2006, e in Brunetto Salvarani, Il fattore R. Le religioni alla prova della globalizzazione, Emi, Bologna 2012, p. 135).
Questa osservazione di Panikkar, concorde con quella citata da Nanni, è un tipico pensiero nonviolento, perché non è separatore, ma unitivo senza confusione. La pace, per lui, non è il monismo (l'impero unico, l'uniformazione forzata a scapito della varietà, la Torre di Babele, titolo del suo libro su pace e pluralismo,)  e neppure il dualismo (la differenza irriducibile, opposta, disarmonica, incompatibile: pace di separazione). È l'armonia delle differenze. Come diceva anche Tonino Bello. 
Vorrei far notare che oggi, nel mondo delle religioni, come in un gorgo fluviale, si accavallano due correnti opposte: da una parte integralismi capaci di violenza sia dottrinale, sociale, sia persino fisica, e dall'altra incontro, conoscenza, dialogo, cooperazione tra le religioni sempre più conviventi negli stessi paesi. Il primo fenomeno fa paura e sangue, ma va verso l'isolamento, mentre il vero movimento in avanti è il dialogo interreligioso, realtà crescente e positiva, motivo di speranza attiva nel mondo attuale. L'unità profonda delle religioni, sottostante alla «pluralità delle vie» (Pier Cesare Bori, da Pico della Mirandola), è la difesa e la realizzazione dell'umano, in tutte le persone. L'autenticità umana è pensata in diversi modelli, ma è un «concetto generativo» (Roberto Mancini) che supera i modelli storici mentre opera intimamente nel midollo della storia. Più che un progetto definito l'umanità nonviolenta è un fermento, che freme nelle religioni e profezie, come nelle culture e nelle politiche umanistiche. Non per nulla la nostra «ricerca, educazione, azione», termini cari a Nanni, non è un dato, ma un “movimento”.
     Enrico Peyretti, 26 settembre 2016



 
Gesù, maestro di trasgressione
21 dicembre 2017
Marco 7, 1-23, commento di Paolo Scquizzato, a San Rocco, 21 dicembre 2017

Il capitolo 7 comincia in greco con kai (= et, quindi), perciò si collega a ciò che precede (vedi): Gesù ha 1) moltiplicato i pani 2) guarito e perdonato.
Non doveva guarire! L'infermità è il castigo di Dio, da non togliere! Non doveva perdonare!
La sua prima colpa è l'aver guarito. Ma Gesù proclama: Dio non punisce perché è amore.
I discepoli di Gesù prendono cibo con mani impure. La versione Cei 2008 dice “cibo”, ma il greco dice “pani”, al plurale, riferito alla moltiplicazione, che appena precede nel racconto. Il contesto è eucaristico. Il senso in Marco è che i discepoli non si purificano prima dell'eucarestia.
Vediamo il cap. 6: prese il pane, benedizione, lo spezzò, lo fa distribuire ai discepoli. Ordina di dare i pani senza vedere chi è degno e chi no. Nell'eucarestia il pane va donato a tutti. Papa Francesco ha detto: c'è un ottavo sacramento, la “dogana pastorale”!
Puro-impuro non è una categoria previa al sacramento, ma successiva: dopo, fai un cammino di purificazione. I sacramenti non sono premi, ma doni. Dio non premia: ti ama anche se sei maledetto e impuro. Amare è un dono, non un premio.
I guardiani del tempio vogliono la purificazione previa, ma non c'è nella Torah questo comandamento. È nel Talmud. L'establishment religioso lo fa passare per comandamento di Dio. Gesù lo smonta: è soltanto volontà umana. Mette in discussione la tradizione fatta volontà di Dio.
Quante cose così nel cristianesimo! Quanta sofferenza e sensi di colpa inflitti per morbose prescrizioni umane! Era peccato mortale mangiare una fetta di salame il venerdì santo! Le prime donne che portavano i pantaloni attentavano alla morale! Poi, comparsa la minigonna, i pantaloni non erano più peccato! Gli anticoncezionali erano peccato grave, oggi li usano anche i cattolici. Nel 1964 il film di Pasolini “Il vangelo secondo Matteo” era vietato a tutti i cristiani perché blasfemo. Il 21 luglio 2014 l'Osservatore Romano lo definisce il miglior film su Gesù di tutti i tempi. Nel 1844 la libertà di coscienza è peccato gravissimo. Per Buonaiuti e tanti altri preti condannati ieri, oggi si parla di cause di beatificazione. I bambini morti senza battesimo andavano all'inferno (il limbo era praticamente lo stesso), ora Ratzinger ci ha detto che il limbo non esiste. Tante cose normali della vita, il ciclo mestruale, l'aver partorito, erano impurità, la puerpera doveva essere “rinchiesata” 1, riammessa in chiesa con un rito apposito. Follie di uomini passate per volontà di Dio!
Gesù ha visto lungo, ha trasgredito la volontà di uomini, ha toccato il Talmud, che era stato messo nella sfera delle cose di Dio. Chiama “ipocriti” quelli che lo criticano su di ciò, quindi teatranti, maschere che recitano una parte, mentre la realtà è un'altra.
La religione ha un potere devastante su uomini e donne con l'arma del peccato. Divide l'umanità, mentre Dio non vuole divisione. “Tu hai peccato, e io (religione) ti salvo, se passi da me”
Colossesi 2, 16-23: non lasciatevi fregare dalla religione! La maggior parte delle cose sono proibite, ma queste proibizioni non hanno alcun valore se non soddisfare la “carne”, cioè l'io.
È solo parola di uomo”. Tutto ciò che non matura, che non realizza l'uomo e la donna, va lasciato cadere. Anche se è nella Bibbia. Gesù svuota di divinità ciò che è solo umano. Korbàn (Marco 7,10 ss) era l'offerta sacra. Era dovere dei figli la cura economica del genitori vecchi. Ma l'offerta al tempio – cioè ai sacerdoti! - toglieva quel dovere: in nome di Dio! Per Gesù questo è follia!
Solo se si onora l'uomo si può onorare Dio. Gesù non ha dubbi: servire l'uomo prima di Dio. Servi l'uomo, e così servi Dio. Non arrivi all'uomo se soltanto servi Dio. Servi Dio nell'uomo.
Versetto 15: “non c'è nulla fuori dell'uomo che possa contaminarlo”. La Torah conteneva tante prescrizioni alimentari. Gesù osa toccare la Torah: non è vero! “Considerava puri tutti gli alimenti” (v. 19).
Cosa è parola di Dio, e cosa non lo è? Nella Torah ci sono parole che non sono parola di Dio. Altro che trasgressione! Gesù è l'unico interprete della Bibbia. È parola di Dio ciò che fa bene all'uomo, che lo fa felice, lo compie. Nella liturgia non è da dire sempre “parola di Dio” ad ogni lettura, ma “parola della Genesi”, “parola di Isaia”, ecc.
Gesù ci dice che può essere impuro non ciò che viene da fuori, ma ciò che esce dal cuore dell'uomo, ed elenca dodici atteggiamenti che possono rompere con Dio perché rompono la relazione umana. Il peccato non è un'offesa a Dio, perché l'amore non si offende. Unico grande peccato è la ferita inferta a chi mi sta accanto. In Matteo 19 Gesù elenca solo i comandamenti che hanno a che fare con il prossimo. L'amore è tutta la legge. Non cita i primi tre comandamenti nei confronti di Dio. Non credere in Dio non è peccato. L'unica offesa-peccato è nella sfera delle relazioni umane. Su di ciò Gesù lavora tantissimo, va molto contro la Torah.
Trans-gredire vuol dire avanzare per gradi. Se non avanza (la religione, la teologia) è fissazione. Gesù non sopporta la religione, non chiede di essere religiosi, né santi. “Siate misericordiosi”.
Gesù ha fatto tutto quello che la religione vieta di fare. Dice Alberto Masggi: “Gesù ha rotto con la religione, con lui è nata la fede”. La religione diceva maledetto l'uomo senza figli; Gesù, a quanto sappiamo dai vangeli, non si sposa e non ha figli. La religione diceva di non toccare il lebbroso; Gesù lo tocca. Esodo 34 diceva che solo Dio perdona; Gesù perdona senza condizioni 2. Gesù trasgredisce il sabato, lo fa apposta, provoca, fa una scampagnata di sabato in mezzo ai campi per una distanza proibita dalla legge: “Il sabato è per l'uomo, non l'uomo per il sabato”. La legge prescrive il digiuno il lunedì e giovedì; Gesù non digiuna mai, tanto che è soprannominato mangione e beone. Non c'è peccato che allontani da Dio, perciò Gesù frequenta i peccatori. L'amore trasgredisce. Fare esperienza di trasgressione. Stare dalla parte dell'uomo, contro i poteri forti, anche i poteri religiosi.

(appunti di Enrico Peyretti, che ha cercato di annotare tutto correttamente)
(ho gli appunti di altre due conferenze di Scquizzato su: Miracoli; Grano e zizzania)
1Un ricordo personale di me che batto gli appunti: un prete di Pisa giustificava questo rito di purificazione col fatto che la mamma, per il fatto di avere avuto un bambino, doveva pure “aver sentito un certo trasporto” per il marito. Capito? (e. p.)
2Anche noi discepoli, che abbiamo ricevuto lo Spirito santo, possiamo rimettere i peccati: Giovanni 20, 21-23 (e. p.)

venerdì 29 dicembre 2017

Morire e vivere, e la politica
16 ottobre 2017

Noi siamo attesa, tensione, siamo desiderio e bisogno, siamo evoluzione e trascendenza, necessità di superarci («L'homme dépasse l'homme»), proiezione sempre incompiuta, utero vuoto da colmare di vita, cambiamento continuo di ciò che resta ma non resta, passa e non passa, viene e non viene. Siamo in-quietudine, mai a riposo è il nostro cuore. Noi non siamo una fine, ma siamo per un fine. Siamo sempre all'origine, all'atto di nascere. Siamo una tale volontà di vita che anche morire dovrà essere un nascere. Siamo l'incompiutezza che deve compiersi, altrimenti è morta. O non siamo, ma solo sembriamo, il fenomeno umano, oppure siamo questo germe di infinito nel finito. Si muore solo se si accetta di morire, se si cessa di nascere. Noi siamo così mortali, finiti, e inaccettabilmente finiti, da non poter morire. Siamo così piccoli da essere schiacciati da un vapore nell'aria, e così grandi da contenere il cielo e tutte le stelle. Noi siamo desiderio e passione.
Conviene sapere una cosa e anche l'altra. C'è anche una filosofia del finito, un'antropologia dell'uomo che appare e scompare: sia il singolo, sia forse l'intera specie. L'essere umano riflette, si guarda, è sano se non si accetta com'è: dunque, se sono finito sono infinito, se sono infinito sono finito. Dibattersi e spostarsi è essere uomo, altro prodigio dal prodigio pianta.
L'intelligenza, quando c'è, fa un po' di luce sulla via che stiamo percorrendo, ma non traccia altre vie. L'organo del sentire, del tastare anche nel buio, arriva più in là: ciò che attendiamo, ciò che sentiamo. L'udito del cuore è assai più acuto di quello delle orecchie. La vista del terzo occhio invisibile è assai più lungimirante di quella dei due occhi sulla faccia. Ciò che sappiamo, che abbiamo visto, studiato e imparato, analizzato e interpretato, è assai poco rispetto a ciò che, ignoto, ci attira. Troppa "pre-cisione" scientifica riduce la realtà, la "taglia" in anticipo. Siamo attirati, più che spinti e diretti dalla nostra volontà e scelta, dal nostro sapere. Siamo passione, che è una passività creativa, che ci accresce, ci porta avanti, ci fa patire ciò che non raggiungiamo, per farci andare ad esso. Chiamiamo tutto ciò felicità, e ci diciamo a vicenda, mentendo per paura e rinuncia, che la felicità è irraggiungibile, mentre, dentro di noi, segretamente, sappiamo che non c'è altro da cercare e da raggiungere che la felicità, senza la quale saremmo qui come fantasmi vuoti, non saremmo mai nati, saremmo nulla. Nonostante i delitti umani, siamo in sostanza sete di verità e di bene. Vedete che non cerchiamo altro, anche sbagliando, anche facendoci male?
Provo a pensare che la vita in società – nel rispetto della libera persuasione di ognuno - possiamo e dobbiamo ispirarla a questa che è la grandezza dell'uomo, e anteporla alla presa di potere (il potere, per fare che cosa?). È da buttare via questa idea, niente affatto nuova, soltanto messa oggi da parte? È ben indirizzata, anche nella nostra mente, la politica attuale? No, non ha direzione, non è attratta e orientata da un valore umano. Parla di democrazia e diritti umani, poi brama il potere: forse per realizzarli? No, non è ben diretta, perché il potere spegne l'idea, ottunde l'intelligenza: è una palla di piombo legata alle caviglie del cammino e alle ali della mente. Vogliamo dire, più moderatamente, che la politica non è attratta abbastanza dai valori umani? Diciamo pure così. Fatto sta che ben spesso li offende e ne fa strumento. Vogliamo dire, più decisamente, che la politica, l'arte indispensabile di vivere insieme – altrimenti nessuno vive – non è ancora nata nella storia dell'evoluzione umana? Non è nata perché, concepita nell'utero insano della supremazia degli uni sugli altri, è abortita e marcita. Si è fatta la regola “o si domina, o si è dominati”; ha separato noi-voi, noi-altri, e proprio in ciò ha fatto consistere il concetto di politica; ha posto uno o alcuni nell'indecente funzione di comandare agli altri; ha inventato le armi e la guerra, e se ne è fatta struttura portante, malattia mortale, cancro dorsale. La politica non è mai nata: al suo posto è nato il dominio. Al suo posto, abbiamo la cosa oggi chiamata politica: una contraffazione, un fallimento.
Ma disperare è sbagliato, è consacrazione dell'errore. Detta una cosa, bisogna dirsi anche il contrario. La modernità ha concepito una dignità dell'uomo, tacendo il Dio antico. «Ciò che è dato al cielo è tolto alla terra». I cristiani si sono offesi, hanno gridato alla bestemmia e alla rovina. Poi si sono lentamente ricordati che quel dio che Gesù ha rivelato nel suo modo di vivere, si è nascosto nella terra e nella carne umana, e che, dunque, difendere questa, e venerare questa, è venerare quel Padre. I cristiani stanno facendo pace con un mondo che tace di Dio, o lo eclissa. Vedono che rispettare, nella politica, la uguale dignità di ogni uomo, sarebbe attuare la vita buona sulla terra di tutti. I cristiani, come ogni umanista, esigono una politica dei diritti umani, dunque di giustizia e di pace. Possono concordare nell'agire con chi, senza vedere tracce di infinito nella persona umana, vi vede però una insopprimibile esigenza di rispetto, di inviolabilità, almeno per non infliggerci sofferenza. Venerare la persona perché è il breve volo di un giorno, o perché è l'immagine di una Vita più grande, non cambia nella pratica, si può fare insieme. Soltanto che si sappia e si senta, insieme, che la politica non è esercitare un potere sui popoli, ma servirli sottoponendosi.
La politica reale, oggi, è deforme e offensiva, ma l'uomo è correggibile, sanabile, autoevolubile, incontra luci. Riformarci alla radice è la cosa più pratica. La morale è politica e la politica è morale, chcché ne dicano i mestieranti.
Ne parleremo all'infinito, non per coincidere, ma per capirci meglio, anche con prospettive e accenti un po' differenti. Noi siamo infiniti, come il nostro dis-correre. Ciò che importa è che discorriamo insieme.
e. p.

mercoledì 27 dicembre 2017


27 dicembre 2017

    Gli auguri - "io desidero bene per te" - sono una cosa bella, la più bella della vita, in qualunque momento. Perché li facciamo di più nelle feste, gli auguri? Perché si intuisce vagamente, pur nella nostra sordità di vecchi (a tutte le età) rimbambiti dal chiasso, che ogni festa significa condivisione di un successo, una memoria, una speranza felici della vita comune, non solo individuale. Siamo barbari, ma forse non totalmente. Un fondo di sapienza bambina è rimasto nel fondo della nostra pubblica balordaggine. E diventare bambini (non "ritornare") è sapienza evangelica. Quanto a scegliere le feste per il rito (non brutto) degli auguri, chi vorrebbe solo quelle religiose, chi vorrebbe solo quelle civili. Perché vietare una festa? Ognuno la faccia o non la faccia come la sente. Al massimo sentirà malinconia se si apparta da solo. Ma perché arrabbiarsi? Fa male alla salute. Se qualcuno fetseggia una canagliata, come il 28 ottobre '22, si fa riconoscere per quello che è. Anche se fa festa il 4 novembre 1918, una vittoria della strage di stato, madre del fascismo. Io non partecipo, lo lascio solo con le sue stolte strombazzate.

    Ora c'è stato il Natale, che è diventato natal-carneval-mercato. Un cristiano, che vede in Gesù di Nazareth l'uomo compiuto, l'umanità realizzata, a cui tutti intimamente aspiriamo, dovrebbe lamentare la scristianizzazione del Natale. Io no. Gesù è nato di nascosto, immerso totalmente nell'umanità com'è, e ne promuove passo passo l'umanizzazione. Restiamo unmani, diventiamo umani. C'è chi non vuole il Natale perché confonde ancora, per una vecchia confusione che gli hanno messo in testa, l'annuncio cristiano col clericalismo (e non vede che il vangelo supera e smonta ogni potere clericale, quello che ha condannato Gesù). Nessuno lo obbliga, ma se mi propone il 25 aprile invece del 25 dicembre, apre una buffa "guerra di religione, o di piccinerie", di cui non c'è bisogno. Facciamo tutte le feste che hanno senso, perciò il 4 novembre denunciamo e piangiamo i 600.000 ammazzati dallo stato, e specialmente onoriamo i ribelli alla follia bellica, fucilati alle spalle dai comandi militari. E il 2 giugno, festa del voto assolutamente senza armi, aboliamo l'indebita parata militare, che non è il simbolo dello stato (simbolo semmai della sua incapacità civile), e facciamo una festa tutta civile, della solidarietà popolare e interpopolare. Non ci vuole molto. Basta capirlo.
Auguri sinceri a tutti! Enrico

17 12 12 Pragmatici e persuasi (libro di Pietro Polito, "Il dovere di non collaborare"

Libri
Pragmatici e persuasi
Pietro Polito, Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla nonviolenza
Ediz. SEB 27, Torino 2017, pp. 180, euro 15
(dalla presentazione e discussione su questo libro nella Sala Poli, Centro Studi Sereno Regis, 12 dicembre 2017)
oooo
Questo di Pietro Polito è un libro bello, ricco di letture, di pensieri raccolti, di esperienze narrate, di belle vivide figure storiche. L'Autore dice che è un libro storico, descrittivo, non a tesi. Io però ci vedo tracce di un cammino, una evoluzione, dalla Resistenza alla nonviolenza.
E subito mi viene in mente don Primo Mazzolari (1890-1959) che, nel 1952, a soli sette anni dalla fine della guerra, scriveva: “Se facessimo la resistenza come l'abbiamo fatta ieri, con l'animo di oggi, saremmo in peccato” (p. 149 dell'edizione critica, a cura di Paolo Trionfini, di Tu non uccidere, EDB, Bologna 2015). Le prime edizioni di questo libro, dal 1955, uscirono senza il nome dell'autore Mazzolari, a cui la gerarchia aveva proibito di scrivere e predicare: nel clima della guerra fredda, parlare di pace era visto come favorire il nemico. Solo nel 1965, sei anni dopo la morte di Mazzolari, il libretto uscì col suo nome. Mazzolari si avvicinava al concetto di resistenza di Aldo Capitini.
E mi ricordo che Norberto Bobbio, in una piccola cerchia di conversazione, al Centro Gobetti, una volta ci disse: “A volte mi sono pentito di non avere sparato ad un soldato tedesco, ma so che se l'avessi fatto sarei pentito di averlo fatto”. È l'intelligente pensiero bipolare di Bobbio.
C'è un uccidere giusto, giustificabile? Il caso estremo lo ipotizza anche Beccaria (qui a p. 10), e anche Gandhi parla di casi tragici estremi in cui “uccidere può essere un dovere” (Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, p. 69), anche se sembra più esatto parlare di necessità che di dovere.
Il “non uccidere” nella Bibbia è subito delimitato da circostanze: non uccidere l'innocente (Esodo 23) e chi uccide sarà ucciso (Esodo 21). La Bibbia ammette la vendetta privata, ma limitata dalla proporzione: “occhio per occhio”, ma non di più. Ed anche questo sarà superato. In tutto c'è movimento, evoluzione, anche nelle cose sacre: “La Scrittura cresce con chi la legge” diceva Gregorio Magno nel VI secolo. Anche papa Ratzinger ha ammesso una evoluzione del dogma, il quale non significa fissità, ma una tappa della comprensione.
Ogni principio morale richiede discernimento nella situazione. Per applicare questo metodo, papa Francesco (p. es. in Amoris Laetitia, cap. 8) viene attaccato dai moralisti assoluti.
Ma le azioni umane hanno un orientamento fondamentale, di principio. Ho raccontato molte volte la mia esperienza infantile dell'aver visto uccidere, a guerra finita, tre soldati tedeschi che avevano perso il contatto coi loro in ritirata, da parte di partigiani, senza alcun motivo, per puro trascinamento della svalutazione della vita nemica. Nel bimbo di nove anni che ero io si stampa il valore: non si deve uccidere. La Resistenza è stata giusta, il mezzo armato comprensibile, ma l'uccidere esseri umani degrada l'umanità. Antonio Giolitti (p. 40) non esclude la violenza, ma è consapevole dei guasti che produce. Il problema non è “tutto bene o tutto male”, ma evoluzione: perciò sottolineo “dalla Resistenza alla nonviolenza”.
La “tensione” della ricerca morale è superiore alla regola formulata, e alla “necessità” della situazione: se la guerra poteva essere in altri tempi giustificata come necessaria, oggi diventa impossibile sia per l'evoluzione morale, sia per la distruttività estrema: Giovanni XXIII dichiarò “alienum a ratione”, fuori da ogni ragionevolezza, il giustificarla. La Resistenza non è stata solo armata, conteneva già ampie forme di lotta nonviolenta, allora non teorizzata come è oggi.

Due resistenze in una sola
Il 25 maggio 2015, ci trovammo all'Istoreto, studiosi maturi ed anziani, giovani ricercatori, per conversare con storici di classe come Anna Bravo e Giovanni De Luna, autori entrambi di recenti importanti libri, sulla Resistenza armata, non armata e nonviolenta, detta anche civile.
De Luna, nel suo libro La Resistenza perfetta (Feltrinelli 2015), afferma che senza la Resistenza armata, quella civile non avrebbe avuto ragione di essere. Anna Bravo, come altri autori, da Semelin in qua, afferma che, in tutta Europa, la Resistenza civile al dominio nazista e fascista, ha avuto una sua autonomia di mezzi e di azione rispetto alla forma armata, pur convergenti entrambe allo stesso fine di difesa e liberazione, e nel rispetto e riconoscimento da parte dei resistenti civili della dedizione e sacrificio dei partigiani combattenti.
È venuta in discussione la presunta gerarchizzazione delle due forme di lotta, che secondo gli interpreti dell'immagine armata della Resistenza verrebbe compiuta dai ricercatori della nonviolenza nella storia e nella politica. Questi però ribadiscono: riconosciamo non solo la scelta delle armi in quel momento da parte dei partigiani, anche per la non conoscenza di esperienze nonviolente, ma riconosciamo pure che esistono tragiche situazioni estreme in cui uccidere diventa una brutta necessità. Eppure non ci si può acquietare in ciò, e bisogna cercare, nelle esperienze storiche come nei progetti politici, lo sviluppo di mezzi di lotte giuste, libere dall'uso della morte artificiale aggiunta alla nostra mortalità naturale. Ciò sarebbe una evoluzione umana, una emancipazione dalla necessità ripetitiva violenta. Il non uccidere è un obiettivo irrinunciabile di umanizzazione, non è un di più per anime belle.
De Luna ha ritenuto che gli storici della Resistenza civile, negli ultimi venti anni, abbiano posto come un anatema sulla lotta armata. A me pare proprio di no. Il punto non è solo la coraggiosa decisione personale-esistenziale di passare la soglia oltre la quale c'è il morire e far morire (la soglia tracciata da Barbato ben illustrata nel libro di De Luna), ma è soprattutto lottare, anche a rischio di morire, con la forza e la volontà umana di giustizia, senza affidare il giudizio alla capacità distruttiva delle armi, giudizio che per sua natura sfugge al criterio umano e facilmente si ritorce anche in effetti di disumanizzazione di chi usa le armi, pur con giuste ragioni.

Resistenza guerra giusta?
La Resistenza è stata (come dice Borgna, a p. 10-11 del libro di Polito) una guerra giusta? Non la includerei del tutto nella “guerra”, ma nella “rivolta” di coscienza (armata o non armata): nelle bande partigiane non vigeva il comando di uccidere, come negli eserciti, secondo quella affermazione del generale Carlo Jean, che ho citato tante volte: “Nell'esercito occorre l'obbedienza automatica, perché si tratta di uccidere”. Ma un'obbedienza automatica non è umana.
La vittoria della forza non è mai la pace giusta. È un puro caso che la forza vincente, perché è maggiore, sia quella che difende il diritto e non il sopruso. Il confronto tra due violenze non c'entra nulla col confronto tra due ragioni o diritti. Bobbio ha ripetuto: “La guerra è l'antitesi del diritto”. C'è una irrazionalità radicale della guerra, prima di ogni giudizio morale.
Si deve resistere al potere ingiusto, anzitutto non collaborando con la propria obbedienza. Gene Sharp mostra che il potere consiste nell'essere obbedito, per le più varie ragioni, dalla convinzione alla convenienza. Non esiste il sangue blu dei re, che renda il potere per sua natura legittimo. Tutti abbiamo, se lo vogliamo, l'arma no, che inceppa il comando ingiusto: è l'arma che non uccide. Le condizioni per usarla sono il motivo giusto, la consapevolezza, il coraggio.
Si può togliere al prepotente il sostegno degli esecutori-collaboratori, ridurlo nudo, metterlo nella necessità di restituire parità, non occorre ucciderlo. La nonviolenza è lotta, pura dalla riproduzione della violenza. Non è sempre facile: si tratta di una tensione, movimento, avvicinamento, una evoluzione umana. Neppure Gandhi è assolutista: parla di “ridurre la violenza al minimo possibile”. Una evoluzione concreta verso la liberazione da ogni uccidere, non va accusata di utopismo fuori dal mondo, oppure di integralismo morale. La pazienza attiva e costruttiva della nonviolenza si oppone alla follia del pensiero armato, che precipita fino alla catastrofe.

Gobetti: etica, politica, religione
Mi soffermo sul capitolo "Antifascismo etico", su Gobetti (pp. 63-67). Davanti alla presa di potere di Mussolini, bisognava collaborare (come fecero alcuni popolari, in coscienza cristiani) per moderare, ridurre il danno? Oppure, come fece Gobetti, su base morale civile, bisognava giudicare, opporre "l'opera educativa", essere "esuli in patria"?  Se si vuole comprendere e rispettare la scelta della riduzione del danno, del “minor male”, si dovrà almeno altrettanto comprendere e rispettare la scelta di Gobetti. Polito cita una pagina di Gobetti "contro la politica come mera tattica", pagina che "andrebbe rimeditata in questo nostro tempo" (p. 65). Quello di Gobetti "non è il realismo che viene a patti con la realtà, ma è il realismo che fa i conti con la realtà". Scrive Gobetti: "Bisogna concepire il nostro lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo divulgarsi", cioè non nel successo. E Polito: "la lotta di Gobetti al fascismo prima ancora che politica è di natura morale, ha un valore religioso, è un problema di stile" (p. 66).
    E si potrebbe parlare anche dell'antifascismo "religioso" di Capitini (p. 75-88). Entrambi laici, non cattolici, sarebbero moralisti integralisti, con una idea e prassi impropriamente dettata alla politica, o invece appartengono al meglio della politica civile italiana?
La religione non è solo sudditanza dottrinaria e rituale all'istituzione cattolica in Italia (p. 76), che certo è stata anche un potere politico, ma da 50 anni si va liberando dal potere, per essere vangelo.
La "religione" in senso serio e spirituale, è vita della coscienza, è umanesimo profondo e alto, che "collega" in libertà e giustizia la persona al tutto sociale e spirituale: "Religiosus esse nefas, religentes oportet" (Aulo Gellio). Ogni diversa religione ha un suo riferimento essenziale – per i cristiani Gesù di Nazareth, come modello e maestro di uomo compiuto – ma tutte le religioni autentiche sono forme di massima socialità. Così possono ispirare la politica, la convivenza umana. La politica è essenzialmente giustizia dei rapporti umani, ben prima che tecnica del potere, e lotta spregiudicata per conquistarlo.
Il potere serve alla giustizia, e non viceversa. La politica non è una tecnica o una meccanica, ma appartiene all'etica, che cerca l'agire umano migliore. Avessimo oggi un laicismo come quello di Gobetti e Capitini, avessimo - ma sta venendo, specialmente con Francesco - un cristianesimo umano, non sacrale, non autoritario, non politico-potente, e perciò veramente "politico", cioè servizio fraterno alla convivenza plurale di tutti. Non c'è nulla da temere se l'universalismo-pluralismo spirituale (di cui ho incontrato maestri come Panikkar, Bori, Küng) viene ad animare una politica che oggi pare senza idee e progetti, perché senza anima, ridotta a brevi calcoli interni al sistema ingiusto vigente.

Alcuni punti maggiori
Ritengo importante per me evidenziare e meditare alcuni punti del bel libro di Polito:
Pag. 34 – Oggi manca l'aver fatto l'esperienza di una scelta morale come la Resistenza, di un tale bivio morale, che anche chi allora era giovane o bambino ha respirato nell'aria. Perciò le scelte sono oggi di basso livello, di interesse, di appartenenza: non si trova in gioco la qualità umana. Non deve esserci bisogno dell'estremo, ma almeno la memoria, e almeno la coscienza che in realtà anche oggi è in gioco la qualità e il senso umano: la distruttività nucleare insensata, la rovina della natura che è vita nostra, la mercificazione della vita di persone e popoli assoggettati al potere della finanza, non sono forse un urgente motivo per resistere con forza, costruendo radicali alternative vitali?
Pag. 35-37 – Tra i condannati a morte ci sono testimonianze alte laicamente “religiose” e anche “evangeliche” (p. 36) per la loro purezza morale e dedizione all'umanità.
Pag. 56 – La Resistenza pensata da Polito, meditata, insieme a profondi testimoni, potrebbe dare a questo libro anche il titolo “Umanità della Resistenza”. Vedi Bianca Guidetti Serra dove parla (p. 54) di “protagonismo femminile senza mai impugnare un'arma”; “riconoscere anche nei nemici delle persone”; “ritrovare la dimensione umana che ci accomuna al nemico”. “La democrazia è il regime delle persone semplici”.
Pag. 57-59 – Antonicelli insegna e ammonisce: imparare è una cosa difficile. La rivoluzione non è vendetta, ma lavoro leale del contadino, però anche la tempesta potrebbe un giorno essere leale. L'accento non va più sulla Patria, ma sull'Umanità.
Pag. 75-88 – Capitini afferma che in realtà la Resistenza c'è dal 3 gennaio 1925 (p. 84), e lui l'ha fatta, a caro prezzo personale, fin dal gennaio 1933. Il conflitto armato è secondario rispetto alla solidarietà popolare, elemento vincente ( p. 85). “L'altra via” sognata da Capitini: che “gli italiani si liberassero dal fascismo da soli”, con una “eroica non-collaborazione e disobbedienza civile…. senza torcere un capello a nessuno”. Ma questa possibilità non era conosciuta, e il fascismo era appoggiato da chiesa, monarchia, esercito, intellettuali (p. 86-87)
Pag. 89-96 - La serietà di Pavone: problema della religione, non necessaria alla morale (p. 95) e problema della violenza: è contento di non avere ucciso, meglio essere ucciso (96)
Pag 105-111 - Caffi: la violenza perpetua la violenza. Egli conclude ponendo a base gruppi di amicizia: l'amicizia (fratellanza, compassione) è base di politica umana, è energia di evoluzione umanizzante.
Pag. 112-115 – Dopo un ricordo di Nanni Salio, Polito legge in Capitini (Tecniche della nonviolenza, Feltrinelli 1967) l'azione della disobbedienza civile e scrive che oggi “possiamo meglio intendere che la violenza perde anche quando vince e la nonviolenza vince anche quando perde”. Questo mi ricorda Michael N. Nagler, che, in Per un futuro nonviolento (Ponte alle grazie, 2005), dopo aver esaminato alcuni casi efficaci di resistenza nonviolenta al nazismo, conclude: «la nonviolenza ogni tanto “funziona”, ma è sempre efficace. La violenza ogni tanto “funziona”, ma non è mai efficace». Che cosa intende Nagler col termine “funzionare”, che mette tra virgolette? Vuol dire che la nonviolenza a volte, ma non sempre, ottiene del tutto ciò che vogliamo, ma ha sempre un effetto positivo sull’intero sistema. Neppure la violenza vince sempre (per il vinto in guerra la violenza è fallita), ma di certo non lascia mai un seme fecondo. Quella che Nagler chiama qui “efficacia”, non è altro che quella “fecondità” che troviamo detta da Merleau-Ponty: «La regola dell’azione non è (…) l’efficacia a ogni costo, ma anzitutto la fecondità» (Segni, Il Saggiatore 1967, p. 102).
Sulle tecniche di non-collaborazione all'ingiustizia, Polito conclude con Capitini: “Non accettare la realtà così com'è è il primo contributo alla sua liberazione” (pp. 113 e 115).
Pag. 116-119 - Calamandrei: la desistenza è pericoloso oblio; la Resistenza è memoria religiosa per “una nuova religione civile per gli italiani”. Religione civile”, termine usato qualche anno fa dagli “atei devoti” (politici, intellettuali e giornalisti non credenti che vedevano nella chiesa uno strumento di conservazione e difesa dell'«identità occidentale» e del sistema vigente). Ma quella espressione può valere anche come patrimonio morale di una società politica . Così Calamandrei capiva l'intenzione di La Pira (che proponeva di aprire la Costituzione con le parole “In nome di Dio, il popolo italiano...”, poi ritirò la proposta “perché su Dio non si vota”) e scriveva: “qualcosa che va al di là delle nostre persone… un'idea religiosa, perché tutto è religione quello che dimostra la transitorietà dell'uomo ma la perpetuità dei suoi ideali”. Cioè, per Calamandrei, c'è della sacralità in un giusto patto di convivenza umana (p. 119).
Pag. 120-123 - Ada Gobetti auspica un rinnovamento “religioso” dell'umanità, ma non segue Capitini sulla nonviolenza, non esclude casi di necessità della violenza, però ci sono momenti Quando non si deve obbedire (così un suo articolo), ed è maturità umana sostituire il ragionamento alla violenza.
Pag. 124-127 - Massimo Mila scrive un manualetto sulla democrazia per l'istruzione dei partigiani che spesso hanno “opinioni piuttosto selvagge” e pensano di vincere la guerra per impiantare “un fascismo con segno rovesciato”, e fa l'elogio della opposizione politica in parlamento (anche se non si conquista la maggioranza) per un efficace controllo sull'operato del governo.
Pag. 128-133 – Questo bel capitolo su Danilo Dolci mostra un “nuovo modo di vivere la religione e la politica” (p. 129), una opposizione sociale ispirata a purezza morale e ad una radicale efficacia operativa, con coraggio e sacrificio personale. Dolci preferisce parlare di “azione di coscienza” meglio che “obiezione di coscienza”, e subisce 26 processi. Il suo metodo consiste in: 1) realismo, col mezzo dell'inchiesta 2) coinvolgere l'opinione pubblica 3) coltivare valori politici con una rivoluzione permanente 4) comunicare con metodo maieutico, seminare domande per l'autoanalisi popolare e formazione di coscienza.
Pag. 134-138 - Don Lorenzo Milani vuole formare il “cittadino sovrano”, responsabile di tutto, non obbediente sempre per supposta virtù, ma critico e attivo, alternativo al cittadino appagato, come al cittadino arrabbiato contro la politica.
Pag. 139-144 – Pietro Polito, nella presentazione del libro, considera centrali le sue pagine su Pier Paolo Pasolini, un'altra figura di “resistente” in senso ampio e profondo: Polito lo sente differente da sé, ma “il più attuale”. Il poeta è “profeta disarmato”, ha solo la verità della parola consapevole contro il potere, il quale è “un sistema di educazione che ci divide soggiogati e soggiogatori”. Ma l'uso della violenza ribelle non è il necessario rifiuto essenziale, e “non lascia più vedere di che segno sei”. “I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto no”. “Il rifiuto, per funzionare, deve essere grande, non piccolo, totale, non questo o quel punto, deve essere 'assurdo', non di buon senso”. Così fu il rifiuto di Claudio Baglietto, esule per rifiutare il servizio militare, ispiratore di Capitini (p. 160-166).
Il volume contiene anche un inedito di Bobbio “Fiori rossi al Martinetto” e poi sviluppa il confronto tra la nonviolenza “pragmatica” di Calogero e la nonviolenza “persuasa” di Capitini (pag. 154-159). Polito dichiara la sua persuasione: “Il 'no' di Baglietto rappresenta l'affermazione purissima del primato della coscienza: la mia propensione è sempre andata più verso i persuasi che verso i pragmatici, verso coloro che, quando è in gioco un valore, credono che l'etica delle intenzioni viene prima dell'etica del risultato” (p. 166).
La nonviolenza “persuasa” è l'idea e ricerca preferita anche da me, come più profonda, ma sono rimasto un po' perplesso davanti all'affermazione di Capitini che “dal punto di vista religioso, del 'persuaso', il valore della nonviolenza non sta nella sua efficacia” e che “importa sommamente non ottenere una cosa o un'altra, ma il modo di ottenerla. Perché il modo vuol dire l'ispirazione che vive in quel momento, il senso della vita, l'anima, il centro”. “L'atto religioso non vale perché è vantaggioso, ma vale in senso assoluto, per un amore che è superiore a ogni considerazione di utilità” (p. 159). Questo accento sulla pura testimonianza, o martirio, però, nel pensiero nonviolento complessivo va pure composto con la ricerca di effetti reali e positivi per la giustizia e la pace, valori che la nonviolenza vuole pure cercare e in diversi casi storici ha saputo ottenere, più fecondamente dei metodi violenti.
Leggiamo in conclusione Capitini: “Il principio della nonviolenza è mettere il bene al posto del male”. “Il male si vince accrescendo il bene” ( p. 177). Questo è lo stesso vangelo di Gesù di Nazareth, è la fiducia coraggiosa, o fede, che il Bene sia la realtà essenziale, comunque lo chiamiamo, e che sia possibile viverlo, nonostante le offese della storia. Tutto il libro è percorso da un'idea di religione, vista nei protagonisti, nella loro ricerca, nella loro vita e azione: una religione laica, non una particolare chiesa o tradizione, non una dottrina o istituzione, ma il senso di umanità sentito in sé e riconosciuto negli altri, come un valore grande, non disponibile ai calcoli utilitari. Potrà sembrare troppo vaga una tale idea di religione, ma io l'apprezzo, perché ci unisce nella volontà di verità e giustizia del vivere. È “religione vera” (anche secondo la Bibbia) ciò che ci unisce, ci fa solidali, soccorrevoli, attivi per la pace e la giustizia.
Nella discussione sul libro, nel Sereno Regis, il 12 dicembre, qualcuno ha sottolineato la divergenza tra chi crede in Dio (chiamiamo così, con nome improprio, la realtà vivente vista come origine e meta e spirito della nostra vita profonda) e chi non crede. Oggi anche la teologia cristiana sottolinea la continuità tra fede esplicita, che accoglie segni di luce sul mistero, e la fede nel valore umano in tutti come in noi. Non c'è questo abisso di separazione, quando nel nostro vivere ci riconosciamo tutti poveri cercatori di luce e di bene, e ciò è anche quel tanto di felicità che possiamo assaggiare insieme, nella pace.
Enrico Peyretti, 13 dicembre 2017

18 08 2017 Questa democrazia non basta

Politica e pericolo
QUESTA DEMOCRAZIA NON BASTA 
(pubblicato su il foglio, n. 444, settembre 2017, www.ilfoglio.info)
È un momento di serio pericolo per il mondo intero. Chi come noi pensa e comunica ha il dovere di guardare più avanti della politica piccola e introversa. Ci sono prove e minacce, e strumenti allestiti per lo sterminio atomico. E questo proprio mentre la coscienza civile e morale-giuridica, nel “mondo libero” dalla ottusità del proprio potere, delibera (122 stati nell'Assemblea dell'Onu, il 7 luglio) il bando delle armi atomiche, fuochi accesi nei boschi di tutta la terra. L'Italia, sottomessa a legami potenti e incoscienti, si astiene e si oppone, con motivazioni artificiose, a questo progresso di umanità. Anche sul Municipio di Torino, dal 2 agosto (imminente l'anniversario di Hiroshima), un grande striscione chiede: “Italia ripensaci. Ratifica il bando delle armi atomiche”. È l'appello di un bel gruppo di associazioni differenti.
Popoli e stati, che si dicevano civili, non vedono che non esiste più la politica locale, né gli interessi nazionali, se non si ha cura assidua e generosa, altruista, della intera comunità umana mondiale, nel nostro pianeta unico. Il danno tuo è indissolubilmente mio. Unico è il destino, unica la salvezza.
Questa coscienza fonda il dovere dei popoli forti di restituire un futuro storico ai popoli deboli, e di condonare tutto o quasi il debito loro imposto con la brutalità del commercio di rapina, chiamato libertà. La libertà dei più forti, non distribuita, si chiama violenza: libere volpi fra libere galline. E quando le vittime fuggono dalla morte in cerca di vita si alzano muri e leggi contro la loro vita.
Nel teatro mondiale, si dimenano sul palco alcuni attori folli, autentici pericoli pubblici, a volte scelti da popoli sprovveduti, accecati dalle propagande e dalle proprie psicosi. L'Italia politica, culturale, popolare, sembra non rendersi conto della propria coscienza addormentata.
Politica misera, piccoli calcoli di numeri e somme elettorali, personalismi patologici, in una prospettiva di stretto mantenimento, perfino col porre mano alle armi su quel mare Mediterraneo (nomen omen), dove l'umanità invoca, per assoluto diritto di vita, la precedenza che spetta ai finora scartati.

LE MIGRAZIONI SONO UN VALORE
Le migrazioni non sono da respingere – è follia e male – ma da accogliere e valorizzare saggiamente, come aggiunte di vita e contatto di culture. La corruzione non è nelle Ong - che sono l'eccezione sana, l'altruismo pratico - ma è diffusa nel popolo, sfibrato dall'assenza di obiettivi umani grandi e generosi, come un corpo denutrito, in ipotermia morale. L'esempio delle classi dirigenti è corruttore, invece che educatore e correttore. Ritorna persino la miseria umana della mentalità fascista e razzista. Essa fu, cento anni fa, frutto della guerra nazionalista, e dell'antisocialismo dei padroni. Essa è, oggi, opera del culto unico del benessere materiale e privato, una angustia che strozza le anime. Il ritorno del fascismo candida il nostro paese alla morte civile, se non fisica.
Certo, ci sono energie sane, ma non è pubblicamente consentito che l'idea comune della vita, l'ethos sociale, sia vivere per gli altri, per tutti, nella giustizia, e salvare così anche il senso della vita individuale. Ci sono esempi religiosi, ci sono serie testimonianze morali laiche, ma sono la minoranza etica: l'Italia di oggi è al di sotto del suo compito. La cultura, gli intellettuali come categoria, divagano, intrattengono, non fanno il loro compito nel popolo. Quando non fanno peggio: c'è persino un “pane-bianco” non commestibile, che teorizza una volontà politica: mettere a fondamento della Costituzione, cioè della vita umana in Italia, la libertà di chi è libero, e non il diritto alla libertà e dignità, alla partecipazione, all'espressione attiva, di chi non è libero, di chi è scartato, in condizioni di diseguaglianza. C'è una cultura, attrezzata di mezzi influenti, che vuole congelare più che mai l'onore della Costituzione italiana, l'art. 3. C'è chi vuole falsificare la filosofia umana della Costituzione, dell'Italia resistente, risorta da morte, dopo la prostituzione del fascismo e il crimine della guerra.
Ma c'è anche chi mette l'art. 3 in testa al proprio programma di rinascita culturale e politica, di una vera sinistra giusta e nonviolenta. Se c'è una possibilità, per il mondo, e per ogni popolo, di uscire da questo momento di deserto morale e di follie, esso sta, per la cultura occidentale, nell'offrire il proprio apporto intero alla comunità umana mondiale pluriculturale. Questo apporto, che attinge alle più antiche e alte tradizioni morali, è anche nel trinomio, sempre rivoluzionario, “Liberté, égalité, fraternité”. La più dimenticata, la fondamentale, è la terza. Questa deriva è dovuta anche al tradimento di quegli intellettuali che vendono parole ai mercanti della parola.
Facciamo una società di pericolosi rivali, o di soci, di amici, di fratelli? Ne va del senso possibile del vivere, oppure campare come morti che si tormentano l'un l'altro, immagine dell'inferno.
La classe politica italiana (c'è di meglio, e anche di peggio) non vede oltre il proprio naso, fa i conticini della serva sulle settimane fino alle prossime elezioni. Non sa di essere dentro una storia umana travagliata. Sembra che la politica, nobilissimo impegno, corrompa largamente chi vi assume compiti di potere. Allora, si faccia più attiva la politica dei cittadini.
Solo l'idealismo e la profezia, ascoltata e intimamente accolta, illuminano e orientano l'intelligenza operativa in scelte decisive, di vita, e di qualità umana. Anche modeste possibilità, come sono le nostre, non esimono nessuno dall'onore dell'impegno possibile, oggi più che mai necessario.

IL POTERE COME COSA
La manovra governativa agostana di respingimento dei profughi in Libia, a molti osservatori preoccupati anzitutto della pace nella giustizia, appare un errore che può essere grave, tragico per molte persone bisognose. Più che le cronache della tragedia, vorrei riflettere sul "cinismo" della politica. Cioè, sull' anti-umanesimo del "potere", inteso come sostantivo, cioè sostanza, oggetto, strumento, arma, che uno ha e altri no, sovranismo-suprematismo escludente. Potere non come verbo, ma come cosa, simboleggiata oscenamente da animali feroci negli stemmi e nelle bandiere statali; dagli edifici imponenti (le torri signorili, i palazzi sovietici, i grattacieli); dal linguaggio e dalla simbologia militar-patriottica-sovranista, che fa di una sfilata di armi la festa dello stato; da simboli come spade, scettri, corone, divise, scudi, sciarpe, cappelli, stivali, che divinizzano e sovrelevano i corpi dei detentori del "potere", come idoli da obbedire, a cui sacrificare vite.
La democrazia è stata un progresso, ha tolto l'eternità al potere assoluto, ma non ha cambiato la sostanza: ha solo concesso, chiesto e preteso dal popolo di avallare la violenza politica. Non per nulla lo stato si definisce ancora come detentore della "violenza legittima", cioè della falsità: del cattivo detto buono, del brutto detto bello, del crudele detto benefico, dell'ingiusto detto giusto, del mortale detto vitale. Ragion per cui si dice “giustiziare” per dire “ammazzare” (nella pena di morte legale, come nella malavita), e si ingoia questa massima insensatezza senza rendersene conto. La politica davvero umana è ancora tutt'altra da quella che abbiamo.
La democrazia - per la quale hanno dato la vita i Resistenti ai fascismi - ha dichiarato il popolo "sovrano" nelle forme e limiti costituzionali (art. 1), e poi con mille arti e inganni ha conservato e assolta la "sovranità" internazionale, “superiorem non recognoscens”, perciò senza legge, belligena, dello Stato Leviatano. Il cui potere viene oggi ridotto, non da un cosmopolitismo democratico, ma solo dal potere supremo della finanza globalizzata, che concede o toglie i diritti umani dall'alto del tempio delle "borse" (giusto il termine).

IL POTERE COME VERBO
Ben altro è il "potere" come verbo (io posso, tu puoi, .... tutti possono), cioè la possibilità, riconosciuta effettivamente a tutti, senza discriminazioni, di “pieno sviluppo della persona umana” (art, 3 Costituzione, obbligo politico). Questa sarebbe la “onnicrazia” di Capitini, aggiunta e compimento della democrazia attuale. Nessuno nega che qualcosa la politica attuale realizzi, ma sotto una coltre contraddittoria di cinismo, di ragion di stato (cioè irrazionalità umana), di calcolo utilitaristico immorale, cosicché non ci si può sentire tutelati e realizzati dalle istituzioni politiche, anche democratiche. E noi che ci parliamo qui siamo fra i privilegiati, e ci serviamo anche utilmente di quelle istituzioni, ma i deboli, poveri, deprivati, oppressi, scartati, scacciati, rinchiusi, sfruttati, respinti, e anche torturati e violentati, pesano sulla nostra coscienza, che è complice se non urla la propria vergogna, la propria denuncia, e la volontà costruttiva di politica umanizzata.
Io sono turbato. Il ferragosto, più sacro del Natale, è sempre utile alle manovre sotto i nasi distratti. Nulla di nuovo. Tolstoj è stato il maggiore di questo pensiero, più radicalmente democratico, più avanti delle moderne filosofie politiche e anche delle chiese. I 5 stelle hanno scimmiottato una democrazia diretta, invero un principato e i manovratori soliti.
Credo di conoscere la critica a questa critica: la democrazia è piena di difetti, ma è il sistema migliore possibile. Sappiamo tutti, con pazienza, che l'errare è umano, insufficienti tutte le realizzazioni, ma soprattutto sappiamo che bisogna non fermarsi nel possibile.
Enrico Peyretti

P. S. - Segnalo una profonda riflessione di Mario Dogliani nel saggio Le due piramidi della democrazia, in “Critica marxista” n. 3/2017