Economia
e comunità
(intervento
di Enrico Peyretti nella tavola rotonda del convegno “Religioni e
economia”,
Campus
Einaudi, 6 dicembre 2017)
“Economia
di comunione” non è una tautologia?
Eco-nomia vuole già dire “regola della casa”, perciò
dell'ambiente, della comunità.
Una
certa possibile felicità e pace nella vita sociale può venire
meglio dalla regola
“ognuno per sé”, o non piuttosto dalla regola “per tutti, e
quindi per ognuno”? Quel bene può venire da una economia che mira
anzitutto al bene di tutti, senza scartare nessuno, cioè senza
consegnare il risultato alla gara spregiudicata, dove i forti battono
i deboli. Questo si può fare per gioco, per sport, ma non per
davvero, nella vita sociale. La vita che sia un po' possibilmente
felice non è una gara di forza, ma una con-vivenza, un vivere
insieme: “Vita tua vita mea”. Tutti abbiamo bisogno degli altri,
perciò io sto bene se stai bene tu.
Ma,
sentiamo dire, i beni sono scarsi, quindi li avrà chi li prende per
primo. È proprio vero? Bisogna chiederselo. Può darsi, in molti
casi, che la distribuzione, secondo le reali differenti necessità di
ciascuno, realizzi una specie di moltiplicazione che evita almeno la
miseria di alcuni. I beni rispondono ai bisogni non solo se si
moltiplicano in quantità, ma se si distribuiscono con giustizia. Le
gravi diseguaglianze creano potere eccessivo degli uni e impotenza e
dipendenza degli altri. Non generano solo invidia e rabbia della
avidità insoddisfatta, ma stabiliscono una gerarchia materiale che
riduce la consapevolezza della parità di valore di tutti gli umani e
sulla possibilità di sviluppo della persona umana in tutti.
Non
è forse questo, tra il primato del prendere individuale, e il
primato del dare il sufficiente a tutti, il più profondo discrimine
morale-politico
nella gestione dei beni in una società? Per tanti o pochi che siano
i beni, siamo prima rivali che si escludono a vicenda, o prima soci
con uguale dignità e reciproco bisogno gli uni degli altri?
Vivere da soci o morire da rivali?
Una
economia di comunione è possibile soltanto con la violenza del
comunismo sovietico? Non è comunione quella imposta, non maturata
nella libera volontà comune, consapevole dalla interdipendenza tra
gli umani. Una economia umana dipende da una coscienza e da una
cultura sociale umana. L'economia che oggi impera ci fa più felici
insieme, o più nemici gli uni degli altri, come in guerra?
L'economia,
come la politica, non è una meccanica, che funziona con leggi
fisiche proprie, ma è un'azione umana, regolata da un'etica, cioè
dalla ricerca del maggior bene possibile per tutti. Chiesi un giorno
a Romano Prodi, dopo una conferenza: “L'economia è una scienza o
una politica?” Mi rispose: “ È una politica, con qualche
elemento di scienza”. Intendo: è un'azione volontaria che deve
tener conto di alcuni dati di realtà.
Serve
all'attività economica la riflessione etico-politica, la
predicazione morale? Mi sembra che, per cercare, trovare e fare il
maggior bene sociale possibile, sia davvero utile la pura riflessione
morale. La quale è attività umana di ricerca e intelligenza dei
principi e delle azioni che possono assicurare migliori relazioni
sociali, per ridurre il viver male, e accrescere il viver bene.
Quindi, la riflessione morale può cercare e indicare anche le
migliori forme dell'economia, più utili al bene umano comune.
Certo,
non è sufficiente affermare una morale dei principi umani (diritti e
doveri reciproci), perché sono necessarie anche verifiche
sperimentali, che confermano, o correggono e ri-orientano la
riflessione sulle regole maggiori. Tra il principio e la pratica, c'è
un cammino, sia dell'agire, sia del pensare. È vero il proverbio
“dal dire al fare c'è di mezzo il mare”, ma è pure vero che
“senza il dire non puoi neanche partire”. Il principio pensato,
detto, cioè valutato e formulato, non è un'astrazione comoda per
esentarsi dall'azione, ma è parte stessa dell'azione, come il primo
passo è costitutivo indispensabile del cammino, e l'occhio che
guarda la meta è attore del cammino tanto quanto i piedi che,
guidati dall'occhio, percorrono il terreno.
Non
ha vero senso opporre la teoria alla pratica, o stabilire gerarchie
tra i due lati dell'azione, reciprocamente necessari: teoria vuol
dire vedere, visione, e, come non c'è un vero vedere senza tendere,
muoversi, così non c'è un agire sensato senza visione. Le
idee-orientamenti hanno valore nel determinare la qualità umana
delle azioni, perciò le politiche e le economie. Queste pratiche
attuano i valori veduti e voluti, e, nell'attuarli, li affinano o ne
richiedono la ri-forma, fino alla tras-formazione (il filosofo
Roberto Mancini distingue questi due termini, indicando la necessità
di una trasformazione, e non solo riforma e moderazione, dei principi
che oggi guidano l'economia imperante). Mi chiedo di nuovo, guardando
ai risultati: l'economia che oggi impera, col principio
individualistico e possessivo, ci fa più felici insieme, o più
nemici gli uni degli altri, come in guerra? Possiamo convincerci
insieme che la politica e dunque l'economia dipendono anzitutto da
quali idee, culture, valori, da quale umanesimo sono animate, e solo
dopo possono essere buona pratica, azione efficace, soluzioni di
problemi?
Per
esempio, un punto di partenza, cioè un principio, nel pensare e
realizzare l'attività economica, è la concezione che si ha della
persona umana riguardo alle cose utili alla vita. La umana umana è
egoista?
È edonista e basta? Non è questo, dell'uomo egoista per natura, un
dogma ideologico? Ideologia, in questo senso, non è solo un insieme
di idee, ma idee che rivestono la realtà di un'immagine preconcetta,
parziale, utile a giustificare e confermare un modo di agire o uno
stato di fatto. L'uomo è quell'essere “tristo” che ci mostra
Machiavelli, riducendo la politica a tecnica del potere? Oppure ha
anche la coscienza che “siamo fatti gli uni per gli altri”,
sapienza immancabile in tutti i tempi e culture? Siamo davvero
stretti nella maledetta tenaglia “o si domina o si è dominati”?
Quale umanità, quale forma umana scegliamo in noi stessi e nel
prossimo? Ne va della nostra libertà, e anche della mite felicità
della pace. Cioè della vita. L'economia è plasmata così o cosà
dall'antropologia, dall'idea dell'uomo che scegliamo di seguire, da
quel lato della complessità umana che decidiamo di sviluppare.
Non
è corretto ridurre all'egoismo l'essere umano, per il fatto che
spesso, troppo spesso, siamo egoisti. L'essere umano è anche
sociale, solidale, visto che abbiamo bisogno gli uni degli altri, e
che un altra persona in grave pericolo ci commuove nelle viscere. La
cultura sociale oggi egemone ci piega più all'avidità o alla
condivisione, all'egoismo o alla collaborazione? Se abbiamo
comportamenti egoisti non possiamo dire che questa è la natura
umana. L'economia come egoismo, persino armato, ci fa felici o
infelici, umani o disumani? Ha ragione papa Francesco a dire: “Questa
economia uccide”? (Evangelii
Gaudium,
53).
L'amore
sociale riduce la sofferenza. Dato che c'è tra noi “insocievole
socievolezza” (Kant), se sviluppiamo la socievolezza sviluppiamo la
pace e riduciamo la paura dell'altro che è in ognuno. Vogliamo
provare, con le esperienze che abbiamo, ad essere più soci che
rivali?
In
questo convegno “Religioni e economia”, si è considerata la
religione, nella varietà delle sue forme, come vincolo restrittivo
della libera azione individuale? 0ppure si è riconosciuta ogni
religione come relazione energetica e intima con la intera comunità
umana, come spirito vitale dell'umanesimo? Ogni religione, pur con
tutti i limiti teorici e le contraddizioni pratiche, è una forma di
coscienza del Bene profondo, a cui aspirano tutti gli umani,
liberazione dalla rivalità e ostilità reciproca, relazione di
non-accanimento-possessivo, che degrada le dimensioni umane. L e
cose, infatti, il loro possesso quantitativo, che sembra lo scopo di
una certa economia,
fino ad un certo punto garantiscono e sviluppano la vita, ma oltre
quel punto la schiacciano, la deformano, la trasformano in dominio
contro altre vite.
Ricordiamoci
che, come ci insegna Simone Weil, l'obbligo reciproco tra noi di
rispetto e riconoscimento non nasce con il contratto sociale, e con
l'impero della legge, ma è nativo e precedente. Per nascita, siamo
degni. La dignità non ci è data da autorità, potenze, tanto meno
dal possesso di cose, ma è nativa. Perciò il primo atto sociale
verso l'altro è il riconoscimento: ora conosco in te quello che già
eri, un essere umano inviolabile, che non posso violare senza
contraddire ed offendere la mia qualità umana. Sei mio simile.
Sappiamo di essere finiti, ma altrettanto in-finiti: “l'homme
dépasse l'homme”. Non è mai compiuto in ciò che è. Questo è il
progresso, non le nuove tecnologie. “L'uomo colloca continuamente
nel futuro la propria verità, la propria pienezza, perché è
l'unico essere che non coincide con sé. Non può ripiegarsi su di sé
in una equazione tranquilla” (Aldo Antonelli). L'umanità può
diventare giusta, anche nell'economia.
Ricordiamoci,
nella relazione economica, il principio solidale della semplicità
volontaria, rammentato tante volte da maestri e compagni, come
Gandhi, come Nanni Salio? “La natura produce abbastanza per le
necessità di tutti, non per l'avidità di alcuni” . “Vivere
semplicemente perché altri possano semplicemente vivere”.
ooooo
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