23 dicembre 2017 Libri
Vie
islamiche alla nonviolenza, di
Jawdat
Said
Cura
e Introduzione di Naser Dumairieh, Prefazione di Adnane Mokrani
Edizioni Zikkaron, Marzabotto
(Bo) (koinonia.montesole@gmail.com)
Si conoscono di più le violenze riferite all'islamismo che l'islam
come tale. Questo libro, molto chiaro tra altri che diremo, mostra la
nonviolenza propria dell'islam, mentre noi conosciamo di più quella
delle altre grandi religioni e culture. L'autore,
Jawdat
Said, nato
nel 1931, è siriano. Ha studiato in Egitto e in Arabia Saudita. È
fervente musulmano, intellettuale impegnato, persuaso nonviolento,
critico delle idee prevalenti nei popoli musulmani, arrestato più
volte e impedito di insegnare. Dal 2013 è rifugiato a Istanbul.
Il curatore Naser Dumairieh, siriano, laureato in filosofia islamica
a Damasco, ha acquisito un master in studi cristiani sull'ermeneutica
biblica all'Università Gregoriana di Roma, è ricercatore
universitario a Montreal. Il prefatore Adnane Mokrani, teologo
musulmano tunisino, vive in Italia, insegna alla Pontificia
Università Gregoriana di Roma e al Pontificio Istituto di Studi
Arabi e di Islamistica, è autore di Leggere il Corano a Roma
(2010).
Nella
Prefazione, Adnane Mokrani mostra vari aspetti dell'opposizione
dell'Islam ad ogni violenza (pp. VII-XIV). Pur senza dimenticare le
tradizioni guerresche, presenti nella tradizione islamica, come in
altre tradizioni, compresa quella cristiana, egli ricorda le figure
di Abdul Ghaffar Khan, il “Gandhi musulmano” che precedette
Gandhi con la propria azione nonviolenta, e di Ramin Jahanbegloo,
filosofo della nonviolenza a Harward . Tra i discepoli musulmani di
Gandhi c'è anche Maulana Abul Kalam Azad, che, come Said, fonda la
nonviolenza nel cuore del pensiero religioso islamico. Questi
pensatori musulmani, più che in uno stato per i musulmani, vedevano
nello stato laico la maggiore garanzia di uguaglianza e giustizia.
Jawdat Said non fece azione politica, come Gandhi, ma l'onda verde in
Iran nel 2009 e la Primavera araba del 2011 provarono che la
nonviolenza è presente nei movimenti popolari, ed è temuta dai
dittatori più delle azioni violente che giustificano la repressione.
Introduzione
In
un'ampia Introduzione (pp. XV- LIII), Naser Dumairieh, studioso di
islamismo e cristianesimo, spiega bene, sul problema della guerra, la
differenza tra il periodo meccano e quello medinese di Mohammed. Alla
Mecca egli vietò ai musulmani persino l'autodifesa, quando erano
perseguitati e torturati, ordinando pazienza e sopportazione. A
Medina nacque il primo stato islamico territoriale, includente
musulmani, politeisti, ebrei, con una legge che salvaguardava i
diritti di ogni gruppo. La fondazione dello stato implica anche l'uso
della forza per la sicurezza pubblica e la difesa da continui
attacchi esterni. A Medina troviamo il primo versetto del Corano,
22,39-40, che autorizza l'uso della forza per difendersi. Il jihad
non è più soltanto lo sforzo personale per la fedeltà religiosa,
ma diventa anche il combattimento politico, la guerra. La
giustificazione di questo combattimento dipende da precise
condizioni: quando la gente viene uccisa, o viene cacciata dalle sue
case, a causa della propria fede. E si combatte contro chi vuole
costringere a cambiare idee o religione, contro l'oppressore. A me
pare che, a Medina, le condizioni per giustificare la guerra statale
(non privata) siano sostanzialmente quelle che, nell'occidente
cristiano, costituirono la teoria della “guerra giusta”, diritto
riconosciuto anche agli stati cristiani, e messo in discussione solo
oggi, nei piani più avanzati della riflessione morale. Nelle regole
di Medina, in caso di vittoria non è lecito costringere il vinto a
diventare musulmano, anzi egli ha diritto a restare nella sua fede.
Persino l'idolatra deve essere protetto e accompagnato. È ordinato
di com-battere, non di uccidere: com-battente
è chi si difende, mentre chi aggredisce è chiamato uccisore.
È
ordinato di difendere la libertà di credo e di pensiero, non di
imporre un'idea. Non sono vero jihad le lotte interne tra l'imam 'Ali
e i khawarij,
estremisti fanatici che non rispettano il principio della
non-costrizione. Non si trova nel linguaggio islamico l'espressione
“guerra santa”, coniata in occidente per le guerre di religione.
Dumairieh
sottolinea, nello sviluppo del pensiero di Said, la “morte della
guerra”, arrivata alla distruttività totale: «Le armi non
difendono: esse sono come i feticci che venivano adorati prima
dell'avvento dell'Islam». L'alternativa alla violenza è la
conoscenza. Said chiarisce anche il punto dell'uccisione
dell'apostata: Mohammed non impedì il ritorno alla Mecca di quelli
che volevano abbandonare l'Islam. Il detto «chi cambia la sua
religione uccidetelo» per Said riguarda un caso specifico, perché
il principio generale è la “non-costrizione”. Le guerre della
riddah,
dell'apostasia, per la maggior parte degli storici sono guerre
politiche di difesa e non guerre di religione.
Importante
per Said è pure la distinzione tra la devozione e i modi giusti per
esercitarla: «Questa è la tragedia di molti giovani devoti e
fanatici che non hanno compreso la direzione giusta in cui impiegare
questa devozione». È chiaro il riferimento a quei musulmani che noi
in Europa chiamiamo “radicalizzati” e che compiono violenze nel
nome di Allah, come i khawarij
di altri tempi. Il fanatico è come una madre che ama molto il suo
bambino, ma è ignorante sui modi di allevarlo e curarlo, e finisce
per fare il suo male.
Il
pensiero di Jawdat Said
Jawdat Said, fin dal suo primo libro in Egitto, nel 1965, insegna La
dottrina del primo figlio di Adamo, Abele, che dice a Caino:«E
se tu stenderai la mano contro di me per uccidermi, io non stenderò
la mano su di te per ucciderti, perché temo Dio, il Signore dei
mondi» (Corano 5,28). Il libro incontra reazioni contrarie. Gli
appelli alla nonviolenza risultavano incomprensibili presso i
musulmani. In quel racconto simbolico di Abele, Said vede
l'evoluzione dell'uomo alla consapevolezza, che trova anche in
Socrate e nella Bibbia. Così fanno anche tutti i profeti, e noi
vogliamo seguirne l'esempio. Gli inviati di Dio hanno pazienza e non
rispondono alle offese (Corano 14,9-13). (pp. 3-16).
Chi segue la
dottrina di Abele non vuole avere altra colpa che di aver detto: «Il
nostro Signore è Dio». Said intende per jihad
«l'impiego
della forza armata da parte di un regime islamico arrivato al potere
con il consenso del popolo, poiché questo è un compito del governo
e non dei singoli individui o dei gruppi». «Il jihad
si
compie contro chi spinge gli altri ad abbandonare il proprio credo e
le proprie case con la forza armata». «Lo scopo del jihad
non
è diffondere l'Islam, bensì impedire l'ingiustizia, e per questo il
jihad
serve
a proteggere il dissidente, ossia a creare un clima di libertà di
pensiero senza coercizione. Il jihad
è
contro l'oppressore, anche se fosse musulmano (….), perché
l'oppressore diffonde la discordia [la fitnah,
il conflitto interno alla comunità], e “la discordia è peggiore
dell'uccisione”(Corano 2,191)»
.
Il
jihad,
quindi, ha delle condizioni di cui i musulmani «hanno cominciato ad
essere consapevoli», anche se continuano conflitti sulla loro
definizione. I limiti del jihad
sono fortemente ristretti dal principio coranico «Non vi è
costrizione nella religione» (2,265). Ma, mentre molti popoli sono
arrivati a questo principio, «i musulmani non vi sono ancora
arrivati», lamenta Said, anche perché sono governati da tiranni
(tawaghit)
con la costrizione, dalla quale nessuno si sforza di liberare le
persone. «La religione non si ordina con la forza dei muscoli o
delle armi, o con la distruzione, bensì con la forza delle idee e
con la rettitudine, aiutando gli altri a liberarsi dall'ingiustizia e
dalla costrizione», scriveva Said nel 2000. (pp.
17-22)
La violenza da
abbandonare non è solo quella fisica: è la violenza dei cuori. Lo
promette il Corano (7,43; 59,10), con parole simili al profeta
ebraico Ezechiele. I sufi
e i devoti curano i cuori e sanno che Dio accetta il meglio di
ciascuno «senza
tenere conto delle loro cattive azioni» (Corano 46,16).
«La
violenza è una sconfitta ideologica basata sull'idea di uccidere il
malato anziché guarirlo». Non basta volere il giusto, bisogna anche
conoscere i mezzi, altrimenti si ha la «devozione senza senno». Il
problema islamico (nella componente salafita come in quella
nazionalista) è di questo tipo. «Sono tutti devoti alla loro
comunità, ma nutro forti sospetti sulle loro idee, condanno i loro
metodi e mi oppongo al modo con cui alcuni di loro considerano gli
altri». Non accettano la sfida ideologica perché non hanno fiducia
nelle loro idee. «Perché temono l'arena delle idee e ricorrono a
quella dei corpi? Perché praticano la costrizione nella religione?».
«Chi è sconfitto ideologicamente ricorre alla battaglia corporale».
«Dobbiamo pazientare nella battaglia ideologica». (pp.
22-27).
«Io
sento una pace sublime e posso affrontare il mondo intero nel modo in
cui hanno fatto i profeti, ossia solo con la parola uguaglianza,
la parola giustizia
e la parola timore
di Dio»,
scrive Said. Per questo egli chiede a tutti i sostenitori dei diritti
umani di collaborare per abolire il diritto di veto (dei vincitori
della guerra nel 1945) nel Consiglio di sicurezza dell'Onu, scandalo
nella modernità, ostacolo alla crescita del mondo, contrario
all'umanità.
Il
metodo della nonviolenza ha molti vantaggi, che Said esamina in 8
punti. I suoi benefici si estendono a tutti i contendenti, sono
collettivi: chi aderisce al dialogo, «non si sentirà sconfitto o
obbligato, ma percepirà il dolce rivelarsi della verità e il
sottomettersi ad essa senza coercizione; chi vince non sentirà di
aver vinto con l'imposizione della forza». La via nonviolenta
«elimina la mortificazione di chi cambia opinione e la presunzione
di chi invita alla verità». «Noi chiediamo di scendere nel campo
della lotta ideologica nella quale, per natura sua, chi vince non è
chi detiene più armi». «Noi non vogliamo fare altro che annunciare
il messaggio dell'Islam. Perché allora aiutiamo i nemici di quella
religione facendo cose che suscitano la loro ostilità nei nostri
confronti?» (pp. 27-35).
La
diversità è importante. «Proteggendo la diversità e mettendo in
relazione le persone si libera la verità». «Come facciamo a
rendere unanime la parola dei musulmani? Essi pensano che l'unità si
realizzi solo eliminando le idee considerate false o sbagliate»,
invece «l'errore si elimina mostrando ciò che è giusto e con
questo metodo salvo me stesso e salvo la mia storia». «Credo che
dobbiamo accettare dagli altri ciò che di meglio hanno fatto, al di
là delle loro azioni cattive, poiché noi siamo predicatori e non
giudici o poliziotti». Said chiede di creare nuove relazioni,
alternative alle vecchie relazioni. «L'alternativa che propongo è:
non
vi è costrizione nella religione»,
né nella dottrina né nella politica. Lasciamo che le idee sbagliate
«muoiano di morte naturale». «L'errore ha il diritto di vivere; se
non gli do il diritto di vivere, nemmeno io avrò lo stesso diritto.
Questo è fondamentale». Ibn'Arabi (Murcia 1165 – Damasco 1240) ha
scoperto di poter convivere nell'amore nonostante la diversità di
religione, di dottrina e di politica. E anch'io – dice Said – ho
percepito questo. «Chissà chi trarrà beneficio dal mio appello
all'amore per il bene di tutte le dottrine e le religioni, e perfino
degli atei! Quello che chiedo loro è solo di ripudiare la violenza,
di lasciare agli esseri umani il diritto di scegliere l'orientamento
che desiderano, anziché uccidersi tra loro» (pp. 35-40).
Bastino
queste citazioni dirette a mostrare il valore di questo pensatore
militante. Mi pare che egli intenda la nonviolenza anzitutto come
dialogo, ascolto, rispetto. In altri paragrafi del suo scritto
principale espone il concetto di giustizia come uguaglianza perché
siamo davanti a Dio e «non prendiamo alcun padrone che non sia Dio»
(Corano 3,64). Si legge l'universale regola d'oro nelle parole di
Said: «Ti conferisco lo stesso diritto che prendo per me stesso e
vieto a te ciò che vieto a me stesso» (p. 42). Continua con altri
cenni critici verso modi di vivere presenti tra i musulmani. «Una
regola fondamentale è che il cambiamento inizia da se stessi, dal
voler cambiare se stessi e non l'altro». Qui Said parla come Gandhi.
«Tu non risolverai il problema se non amerai colui che diverge da
te». «Possiamo amare il nemico, ossia chi è colpito dalla
malattia, pur odiando la malattia». «Gesù, su di lui la pace, non
aveva chiesto l'impossibile quando disse: “Amate i vostri nemici”
(Matteo 5,44) e così il Corano quando disse: “Ecco, voi li amate
ma essi non vi amano” (3,119)» (pp.46-49).
In
un articolo recentissimo, dell'agosto di quest'anno 2017 Jawdat Said
vede, nella risposta di Dio agli angeli che prevedono la violenza
dell'uomo, in un bel testo coranico (2,30), la “morte della
guerra”. Oggi la guerra non serve più a risolvere i conflitti.
Sembra di sentire Giovanni XXIII nella Pacem
in terris. Con
l'inviare uomini in guerra ad uccidersi tra loro si compiono barbari
sacrifici umani offerti agli idoli del potere, da politici stolti e
malvagi, e dal cinismo dei produttori di armi. Di questa malattia è
malato anche il mondo islamico. Il mito della forza impedisce le
soluzioni. C'è bisogno di conoscenza per uscire da un “tempo
abrogato”, dalla ignoranza sulla natura e sulla società.
Rettitudine e democrazia, scuole, istruzione, scienza e religione,
sono necessarie. Democrazia è fare ricorso alla persuasione anziché
alla coercizione, rinunciare alla violenza e affidarsi alle urne
elettorali. Tutti coloro che detengono la bomba atomica sono contro
l'umanità, e così quelli che bramano di ottenerla. La ricetta
concreta per il capovolgimento sociale tramite la conoscenza è «la
regola della disobbedienza e dell'insubordinazione quando ci viene
ordinato qualcosa contrario alle leggi dell'universo e dell'uomo».
Ecco, Said vede bene che la coraggiosa non-collaborazione al male è
la prima regola della nonviolenza. E di nuovo condanna il diritto di
veto delle potenze, perché nessuno è al di sopra della legge. Il
principio coranico dell'unicità di Dio fonda l'eguaglianza umana, e
la nullità degli idoli di potenza. «Oh voi altri, oh mondo, oh
esseri umani: Dio non vuole sacrifici, Dio è clemente e
misericordioso»” (pp. 51-64).
Un'appendice
di Naser
Dumairieh illustra il ruolo di Said nella rivoluzione siriana del
2011, sostenitore delle forme nonviolente, per elezioni democratiche,
per il pluralismo e l'uguaglianza. Non c'è costrizione nella
religione, chi vuole creda e chi non vuole non creda - dice Dio agli
uomini - perciò non vi sia costrizione neanche nella politica e
nella società.
In
uno scritto del 2003 (qui pp. 69-84), Said stesso ricapitola il suo
lavoro educativo, la sua fiducia nel bene e nella ragione,
nell'umanità guidata da Dio (con qualche ingenuità sulla storia
recente, a dire il vero), la sua speranza impegnata nella evoluzione
morale umana, sempre attento a criticare i ritardi e a promuovere la
consapevolezza dei popoli musulmani.
Vediamo che Jawdat Said sa difendere l'Islam dal pregiudizio che lo
condanna come religione fanatica e violenta (a qualcuno sembrerà che
faccia troppa apologia, ma la sua lettura dell'Islam è positiva),
però nello stesso tempo denuncia e critica liberamente il ritardo
dei popoli musulmani e delle politiche dei loro paesi nel conoscere e
applicare i principi pacifici dell'Islam.
Islam
e nonviolenza
Questo bel libro di Jawdat
Said viene ad arricchire una serie di pubblicazioni (indicate, per
esempio, in www.transcend.org)
che,
specialmente dal 2015, di fronte alle violenze dell'Isis/Daesh,
spettacolarizzate dai media più di ogni altra guerra, distinguono
tra Islam religioso, civile, anche nonviolento, e l'abuso che ne
viene fatto per giustificare feroci lotte di potere. Chi
studia la nonviolenza non si stupisce di incontrare cultura e prassi
nonviolenta nell'Islam. L'informazione grossolana fa vedere solo il
terrorismo, ma nelle bibliografie ragionate
(http://enricopeyretti.blogspot.it/
Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonviolente) si
trova la storia esemplare di Badshah
Khan, il Gandhi musulmano,
si incontra il libro di Chaiwat Satha-Anand, Islam
e nonviolenza, come
pure il fascicolo Les
dossiers de Non-violence Politique,
n. 2, che illustra numerosi casi storici di lotte nonviolente, tra
cui anche Iran 1978-79. Questo fascicolo è tradotto nei Quaderni
della DPN, col titolo
Resistenze civili: le
lezioni della storia. Nel
volume di D. Morrison, Ph. Taylor, Sh. Ramachandaran, Media,
guerre e pace,
troviamo vari altri casi storici, tra cui il caso Iran, sul quale ha
scritto pure Ryszard
Kapuscinski
Sha
in
Shah.
Sul
tema Islam,
pace, nonviolenza ho
raccolto del materiale in tre capitoli (da p. 124 a 135) nel mio La
politica è pace (ed.
Cittadella, Assisi 1998).
Segnalo anche Ramin
Jahanbegloo, Leggere Gandhi a Teheran, e
Mahmoud Mohamed
Taha (1909 o 1911- 1985), Il
secondo messaggio dell'Islam,
e vari altri.
Enrico
Peyretti, 23 dicembre 2017
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