Libri
Pragmatici e persuasi
Pietro
Polito, Il
dovere di non collaborare. Storie
e idee dalla
Resistenza alla nonviolenza
Ediz. SEB 27, Torino 2017, pp. 180, euro 15
(dalla
presentazione e discussione su questo libro nella Sala Poli, Centro
Studi Sereno Regis, 12 dicembre 2017)
oooo
Questo di Pietro Polito è un libro bello, ricco di letture, di
pensieri raccolti, di esperienze narrate, di belle vivide figure
storiche. L'Autore dice che è un libro storico, descrittivo, non a
tesi. Io però ci vedo tracce di un cammino, una evoluzione, dalla
Resistenza alla nonviolenza.
E
subito mi viene in mente don Primo Mazzolari (1890-1959) che, nel
1952, a soli sette anni dalla fine della guerra, scriveva: “Se
facessimo la resistenza come l'abbiamo fatta ieri, con l'animo di
oggi, saremmo in peccato” (p. 149 dell'edizione critica, a cura di
Paolo Trionfini, di Tu
non uccidere, EDB,
Bologna 2015).
Le prime edizioni di questo libro, dal 1955, uscirono senza il nome
dell'autore Mazzolari, a cui la gerarchia aveva proibito di scrivere
e predicare: nel clima della guerra fredda, parlare di pace era visto
come favorire il nemico. Solo nel 1965, sei anni dopo la morte di
Mazzolari, il libretto uscì col suo nome. Mazzolari si avvicinava al
concetto di resistenza di Aldo Capitini.
E mi ricordo che Norberto Bobbio, in una piccola cerchia di
conversazione, al Centro Gobetti, una volta ci disse: “A volte mi
sono pentito di non avere sparato ad un soldato tedesco, ma so che se
l'avessi fatto sarei pentito di averlo fatto”. È l'intelligente
pensiero bipolare di Bobbio.
C'è
un uccidere giusto, giustificabile? Il caso estremo lo ipotizza anche
Beccaria (qui a p. 10), e anche Gandhi parla di casi tragici estremi
in cui “uccidere può essere un dovere” (Teoria
e pratica della nonviolenza,
Einaudi 1996, p. 69), anche se sembra più esatto parlare di
necessità che di dovere.
Il “non uccidere” nella Bibbia è subito delimitato da
circostanze: non uccidere l'innocente (Esodo 23) e chi uccide sarà
ucciso (Esodo 21). La Bibbia ammette la vendetta privata, ma limitata
dalla proporzione: “occhio per occhio”, ma non di più. Ed anche
questo sarà superato. In tutto c'è movimento, evoluzione, anche
nelle cose sacre: “La Scrittura cresce con chi la legge” diceva
Gregorio Magno nel VI secolo. Anche papa Ratzinger ha ammesso una
evoluzione del dogma, il quale non significa fissità, ma una tappa
della comprensione.
Ogni
principio morale richiede discernimento nella situazione. Per
applicare questo metodo, papa Francesco (p. es. in Amoris
Laetitia, cap.
8) viene attaccato dai moralisti assoluti.
Ma
le azioni umane hanno un orientamento fondamentale, di principio. Ho
raccontato molte volte la mia esperienza infantile dell'aver visto
uccidere, a guerra finita, tre soldati tedeschi che avevano perso il
contatto coi loro in ritirata, da parte di partigiani, senza alcun
motivo, per puro trascinamento della svalutazione della vita nemica.
Nel bimbo di nove anni che ero io si stampa il valore: non si deve
uccidere. La Resistenza è stata giusta, il mezzo armato
comprensibile, ma l'uccidere esseri umani degrada l'umanità. Antonio
Giolitti (p. 40) non esclude la violenza, ma è consapevole dei
guasti che produce. Il problema non è “tutto bene o tutto male”,
ma evoluzione: perciò sottolineo “dalla Resistenza alla
nonviolenza”.
La “tensione” della ricerca morale è superiore alla regola
formulata, e alla “necessità” della situazione: se la guerra
poteva essere in altri tempi giustificata come necessaria, oggi
diventa impossibile sia per l'evoluzione morale, sia per la
distruttività estrema: Giovanni XXIII dichiarò “alienum a
ratione”, fuori da ogni ragionevolezza, il giustificarla. La
Resistenza non è stata solo armata, conteneva già ampie forme di
lotta nonviolenta, allora non teorizzata come è oggi.
Due resistenze in una sola
Il
25 maggio 2015, ci trovammo all'Istoreto, studiosi maturi ed anziani,
giovani ricercatori, per conversare con storici di classe come Anna
Bravo e Giovanni De Luna, autori entrambi di recenti importanti
libri, sulla Resistenza armata, non armata e nonviolenta, detta anche
civile.
De
Luna, nel suo libro La
Resistenza perfetta (Feltrinelli
2015), afferma
che senza la Resistenza armata, quella civile non avrebbe avuto
ragione di essere. Anna Bravo, come altri autori, da Semelin in qua,
afferma che, in tutta Europa, la Resistenza civile al dominio
nazista e fascista, ha avuto una sua autonomia di mezzi e di azione
rispetto alla forma armata, pur convergenti entrambe allo stesso fine
di difesa e liberazione, e nel rispetto e riconoscimento da parte dei
resistenti civili della dedizione e sacrificio dei partigiani
combattenti.
È
venuta in discussione la presunta gerarchizzazione delle due forme di
lotta, che secondo gli interpreti dell'immagine armata della
Resistenza verrebbe compiuta dai ricercatori della nonviolenza nella
storia e nella politica. Questi però ribadiscono: riconosciamo non
solo la scelta delle armi in quel momento da parte dei partigiani,
anche per la non conoscenza di esperienze nonviolente, ma
riconosciamo pure che esistono tragiche situazioni estreme in cui
uccidere diventa una brutta necessità. Eppure non ci si può
acquietare in ciò, e bisogna cercare, nelle esperienze storiche come
nei progetti politici, lo sviluppo di mezzi di lotte giuste, libere
dall'uso della morte artificiale aggiunta alla nostra mortalità
naturale. Ciò sarebbe una evoluzione umana, una emancipazione dalla
necessità ripetitiva violenta. Il non uccidere è un obiettivo
irrinunciabile di umanizzazione, non è un di più per anime belle.
De Luna ha ritenuto che gli
storici della Resistenza civile, negli ultimi venti anni, abbiano
posto come un anatema sulla lotta armata. A me pare proprio di no. Il
punto non è solo la coraggiosa decisione personale-esistenziale di
passare la soglia oltre la quale c'è il morire e far morire (la
soglia tracciata da Barbato ben illustrata nel libro di De Luna), ma
è soprattutto lottare, anche a rischio di morire, con la forza e la
volontà umana di giustizia, senza affidare il giudizio alla capacità
distruttiva delle armi, giudizio che per sua natura sfugge al
criterio umano e facilmente si ritorce anche in effetti di
disumanizzazione di chi usa le armi, pur con giuste ragioni.
Resistenza guerra giusta?
La Resistenza è stata (come dice Borgna, a p. 10-11 del libro di
Polito) una guerra giusta? Non la includerei del tutto nella
“guerra”, ma nella “rivolta” di coscienza (armata o non
armata): nelle bande partigiane non vigeva il comando di uccidere,
come negli eserciti, secondo quella affermazione del generale Carlo
Jean, che ho citato tante volte: “Nell'esercito occorre
l'obbedienza automatica, perché si tratta di uccidere”. Ma
un'obbedienza automatica non è umana.
La
vittoria della forza non è mai la pace giusta.
È un puro caso che la forza vincente, perché è maggiore, sia
quella che difende il diritto e non il sopruso. Il confronto tra due
violenze non c'entra nulla col confronto tra due ragioni o diritti.
Bobbio ha ripetuto: “La guerra è l'antitesi del diritto”. C'è
una irrazionalità radicale della guerra, prima di ogni giudizio
morale.
Si
deve resistere al potere ingiusto, anzitutto non collaborando con la
propria obbedienza. Gene Sharp mostra che il
potere consiste nell'essere obbedito, per le più varie ragioni,
dalla convinzione alla convenienza. Non
esiste il sangue blu dei re, che renda il potere per sua natura
legittimo. Tutti abbiamo, se lo vogliamo, l'arma
no,
che inceppa il comando ingiusto: è l'arma che non uccide. Le
condizioni per usarla sono il motivo giusto, la consapevolezza, il
coraggio.
Si può
togliere al prepotente il sostegno degli esecutori-collaboratori,
ridurlo nudo, metterlo nella necessità di restituire parità, non
occorre ucciderlo. La nonviolenza è lotta, pura dalla riproduzione
della violenza. Non è sempre facile: si tratta di una tensione,
movimento, avvicinamento, una evoluzione umana. Neppure Gandhi è
assolutista: parla di “ridurre la violenza al minimo possibile”.
Una evoluzione concreta verso la liberazione da ogni uccidere, non va
accusata di utopismo fuori dal mondo, oppure di integralismo morale.
La pazienza attiva e costruttiva della nonviolenza si oppone alla
follia del pensiero armato, che precipita fino alla catastrofe.
Gobetti:
etica, politica, religione
Mi
soffermo sul
capitolo
"Antifascismo etico", su Gobetti (pp. 63-67). Davanti alla
presa di potere di Mussolini, bisognava collaborare (come fecero
alcuni popolari, in coscienza cristiani) per moderare, ridurre il
danno? Oppure, come fece Gobetti, su base morale civile, bisognava
giudicare, opporre "l'opera educativa", essere "esuli
in patria"? Se si vuole comprendere e rispettare la scelta
della riduzione del danno, del “minor male”, si dovrà almeno
altrettanto comprendere e rispettare
la scelta di Gobetti. Polito cita una pagina di Gobetti "contro
la politica come mera tattica", pagina che "andrebbe
rimeditata in questo nostro tempo" (p. 65). Quello di Gobetti
"non è il realismo che viene a patti con la realtà, ma è il
realismo che fa i conti con la realtà". Scrive Gobetti:
"Bisogna concepire il nostro lavoro come un esercizio
spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo divulgarsi",
cioè non nel successo. E Polito: "la lotta di Gobetti al
fascismo prima ancora che politica è di natura morale, ha un valore
religioso, è un problema di stile" (p. 66).
E
si potrebbe parlare anche dell'antifascismo "religioso" di
Capitini (p. 75-88). Entrambi laici, non cattolici, sarebbero
moralisti integralisti, con una idea e prassi impropriamente dettata
alla politica, o invece appartengono al meglio della politica civile
italiana?
La religione non è solo
sudditanza dottrinaria e rituale all'istituzione cattolica in Italia
(p. 76), che certo è stata anche un potere politico, ma da 50 anni
si va liberando dal potere, per essere vangelo.
La "religione"
in senso serio e spirituale, è vita della coscienza, è umanesimo
profondo e alto, che "collega" in libertà e giustizia la
persona al tutto sociale e spirituale: "Religiosus esse nefas,
religentes oportet" (Aulo Gellio). Ogni diversa religione ha un
suo riferimento essenziale – per i cristiani Gesù di Nazareth,
come modello e maestro di uomo compiuto – ma tutte le religioni
autentiche sono forme di massima socialità. Così possono ispirare
la politica, la convivenza umana. La politica è essenzialmente
giustizia dei rapporti umani, ben prima che tecnica del potere, e
lotta spregiudicata per conquistarlo.
Il potere serve alla
giustizia, e non viceversa. La politica non è una tecnica o una
meccanica, ma appartiene all'etica,
che cerca l'agire umano migliore. Avessimo oggi un laicismo come
quello di Gobetti e Capitini, avessimo - ma sta venendo, specialmente
con Francesco - un cristianesimo umano, non sacrale, non autoritario,
non politico-potente, e perciò veramente "politico", cioè
servizio fraterno alla convivenza plurale di tutti. Non c'è nulla da
temere se l'universalismo-pluralismo spirituale (di cui ho incontrato
maestri come Panikkar, Bori,
Küng)
viene ad
animare una politica che oggi pare senza idee e progetti, perché
senza anima, ridotta a brevi calcoli interni al sistema ingiusto
vigente.
Alcuni punti maggiori
Ritengo importante per me
evidenziare e meditare alcuni punti del bel libro di Polito:
Pag. 34 – Oggi manca l'aver fatto l'esperienza di una scelta morale
come la Resistenza, di un tale bivio morale, che anche chi allora era
giovane o bambino ha respirato nell'aria. Perciò le scelte sono oggi
di basso livello, di interesse, di appartenenza: non si trova in
gioco la qualità umana. Non deve esserci bisogno dell'estremo, ma
almeno la memoria, e almeno la coscienza che in realtà anche oggi è
in gioco la qualità e il senso umano: la distruttività nucleare
insensata, la rovina della natura che è vita nostra, la
mercificazione della vita di persone e popoli assoggettati al potere
della finanza, non sono forse un urgente motivo per resistere con
forza, costruendo radicali alternative vitali?
Pag. 35-37 – Tra i condannati a morte ci sono testimonianze alte
laicamente “religiose” e anche “evangeliche” (p. 36) per la
loro purezza morale e dedizione all'umanità.
Pag. 56 – La Resistenza pensata da Polito, meditata, insieme a
profondi testimoni, potrebbe dare a questo libro anche il titolo
“Umanità della Resistenza”.
Vedi Bianca Guidetti Serra dove parla (p. 54) di “protagonismo
femminile senza mai impugnare un'arma”; “riconoscere anche nei
nemici delle persone”; “ritrovare la dimensione umana che ci
accomuna al nemico”. “La democrazia è il regime delle persone
semplici”.
Pag. 57-59 – Antonicelli insegna e ammonisce: imparare è una cosa
difficile. La rivoluzione non è vendetta, ma lavoro leale del
contadino, però anche la tempesta potrebbe un giorno essere leale.
L'accento non va più sulla Patria, ma sull'Umanità.
Pag. 75-88 – Capitini afferma che in realtà la Resistenza c'è dal
3 gennaio 1925 (p. 84), e lui l'ha fatta, a caro prezzo personale,
fin dal gennaio 1933. Il conflitto armato è secondario rispetto
alla solidarietà popolare, elemento vincente ( p. 85). “L'altra
via” sognata da Capitini: che “gli italiani si liberassero dal
fascismo da soli”, con una “eroica non-collaborazione e
disobbedienza civile…. senza torcere un capello a nessuno”. Ma
questa possibilità non era conosciuta, e il fascismo era appoggiato
da chiesa, monarchia, esercito, intellettuali (p. 86-87)
Pag. 89-96 - La serietà di Pavone: problema della religione, non
necessaria alla morale (p. 95) e problema della violenza: è contento
di non avere ucciso, meglio essere ucciso (96)
Pag 105-111 - Caffi: la violenza perpetua la violenza. Egli conclude
ponendo a base gruppi di amicizia: l'amicizia (fratellanza,
compassione) è base di politica umana, è energia di evoluzione
umanizzante.
Pag. 112-115 – Dopo un ricordo di Nanni Salio, Polito legge in
Capitini (Tecniche della nonviolenza,
Feltrinelli 1967) l'azione della disobbedienza
civile e scrive che oggi “possiamo meglio intendere che la violenza
perde anche quando vince e la nonviolenza vince anche quando perde”.
Questo mi ricorda Michael
N. Nagler, che, in Per
un futuro nonviolento
(Ponte alle grazie, 2005), dopo aver esaminato alcuni casi efficaci
di resistenza nonviolenta al nazismo, conclude: «la nonviolenza ogni
tanto “funziona”, ma è sempre efficace. La violenza ogni tanto
“funziona”, ma non è mai efficace». Che cosa intende Nagler
col termine “funzionare”, che mette tra virgolette? Vuol dire che
la nonviolenza a volte, ma non sempre, ottiene del tutto ciò che
vogliamo, ma ha sempre un effetto positivo sull’intero sistema.
Neppure la violenza vince sempre (per il vinto in guerra la violenza
è fallita), ma di certo non lascia mai un seme fecondo. Quella che
Nagler chiama qui “efficacia”, non è altro che quella
“fecondità” che troviamo detta da Merleau-Ponty:
«La regola dell’azione non è (…) l’efficacia a ogni costo, ma
anzitutto la fecondità» (Segni,
Il Saggiatore 1967, p. 102).
Sulle tecniche di
non-collaborazione all'ingiustizia, Polito conclude con Capitini:
“Non accettare la realtà così com'è è il primo contributo alla
sua liberazione” (pp. 113 e 115).
Pag. 116-119 - Calamandrei:
la desistenza è pericoloso oblio; la Resistenza è memoria religiosa
per “una nuova religione civile per gli italiani”. “Religione
civile”, termine usato qualche anno fa dagli “atei devoti”
(politici, intellettuali e giornalisti non credenti che
vedevano nella chiesa uno strumento di conservazione e difesa
dell'«identità occidentale» e del sistema vigente). Ma quella
espressione può valere anche come patrimonio morale di una società
politica . Così Calamandrei
capiva l'intenzione di La Pira (che proponeva di aprire la
Costituzione con le parole “In nome di Dio, il popolo italiano...”,
poi ritirò la proposta “perché su Dio non si vota”) e scriveva:
“qualcosa che va al di là delle nostre persone… un'idea
religiosa, perché tutto è religione quello che dimostra la
transitorietà dell'uomo ma la perpetuità dei suoi ideali”. Cioè,
per Calamandrei, c'è della sacralità in un giusto patto di
convivenza umana (p. 119).
Pag. 120-123 - Ada Gobetti
auspica un rinnovamento “religioso” dell'umanità, ma non segue
Capitini sulla nonviolenza, non esclude casi di necessità della
violenza, però ci sono momenti Quando
non si deve obbedire
(così un suo articolo), ed è maturità umana sostituire il
ragionamento alla violenza.
Pag. 124-127 - Massimo Mila
scrive un manualetto sulla democrazia per l'istruzione dei partigiani
che spesso hanno “opinioni piuttosto selvagge” e pensano di
vincere la guerra per impiantare “un fascismo con segno
rovesciato”, e fa l'elogio della opposizione politica in parlamento
(anche se non si conquista la maggioranza) per un efficace controllo
sull'operato del governo.
Pag. 128-133
– Questo bel capitolo su Danilo Dolci mostra un “nuovo modo di
vivere la religione e la politica” (p. 129), una opposizione
sociale ispirata a purezza morale e ad una radicale efficacia
operativa, con coraggio e sacrificio personale. Dolci preferisce
parlare di “azione di coscienza” meglio che “obiezione di
coscienza”, e subisce 26 processi. Il suo metodo consiste in: 1)
realismo, col mezzo dell'inchiesta 2) coinvolgere l'opinione pubblica
3) coltivare valori politici con una rivoluzione permanente 4)
comunicare con metodo maieutico, seminare domande per l'autoanalisi
popolare e formazione di coscienza.
Pag. 134-138 - Don Lorenzo
Milani vuole formare il “cittadino sovrano”, responsabile di
tutto, non obbediente sempre per supposta virtù, ma critico e
attivo, alternativo al cittadino appagato, come al cittadino
arrabbiato contro la politica.
Pag. 139-144 – Pietro
Polito, nella presentazione del libro, considera centrali le sue
pagine su Pier Paolo Pasolini, un'altra figura di “resistente” in
senso ampio e profondo: Polito lo sente differente da sé, ma “il
più attuale”. Il poeta è “profeta disarmato”, ha solo la
verità della parola consapevole contro il potere, il quale è “un
sistema di educazione che ci divide soggiogati e soggiogatori”. Ma
l'uso della violenza ribelle non è il necessario rifiuto essenziale,
e “non lascia più vedere di che segno sei”. “I pochi che hanno
fatto la storia sono quelli che hanno detto no”. “Il rifiuto, per
funzionare, deve essere grande, non piccolo, totale, non questo o
quel punto, deve essere 'assurdo', non di buon senso”. Così fu il
rifiuto di Claudio Baglietto, esule per rifiutare il servizio
militare, ispiratore di Capitini (p. 160-166).
Il volume contiene anche un
inedito di Bobbio “Fiori rossi al Martinetto” e poi sviluppa il
confronto tra la nonviolenza “pragmatica” di Calogero e la
nonviolenza “persuasa” di Capitini (pag. 154-159). Polito
dichiara la sua persuasione: “Il 'no' di Baglietto rappresenta
l'affermazione purissima del primato della coscienza: la mia
propensione è sempre andata più verso i persuasi che verso i
pragmatici, verso coloro che, quando è in gioco un valore, credono
che l'etica delle intenzioni viene prima dell'etica del risultato”
(p. 166).
La
nonviolenza “persuasa” è l'idea e ricerca preferita anche da me,
come più profonda, ma sono rimasto un po' perplesso davanti
all'affermazione di Capitini che “dal punto di vista religioso, del
'persuaso', il valore della nonviolenza non sta nella sua efficacia”
e che “importa sommamente non ottenere una cosa o un'altra, ma il
modo di ottenerla. Perché il modo
vuol dire l'ispirazione che vive in quel momento, il senso della
vita, l'anima, il centro”. “L'atto religioso non vale perché è
vantaggioso, ma vale in senso assoluto, per un amore che è superiore
a ogni considerazione di utilità” (p. 159). Questo accento sulla
pura testimonianza, o martirio, però, nel pensiero nonviolento
complessivo va pure composto con la ricerca di effetti reali e
positivi per la giustizia e la pace, valori che la nonviolenza vuole
pure cercare e in diversi casi storici ha saputo ottenere, più
fecondamente dei metodi violenti.
Leggiamo
in conclusione Capitini: “Il principio della nonviolenza è mettere
il bene al posto del male”. “Il male si vince accrescendo il
bene” ( p. 177). Questo è lo stesso vangelo di Gesù di Nazareth,
è la fiducia coraggiosa, o fede, che il Bene sia la realtà
essenziale, comunque lo chiamiamo, e che sia possibile viverlo,
nonostante le offese della storia. Tutto il libro è percorso da
un'idea di religione, vista nei protagonisti, nella loro ricerca,
nella loro vita e azione: una religione laica, non una particolare
chiesa o tradizione, non una dottrina o istituzione, ma il senso di
umanità sentito in sé e riconosciuto negli altri, come un valore
grande, non disponibile ai calcoli utilitari. Potrà sembrare troppo
vaga una tale idea di religione, ma io l'apprezzo, perché ci unisce
nella volontà di verità e giustizia del vivere. È “religione
vera” (anche secondo la Bibbia) ciò che ci unisce, ci fa solidali,
soccorrevoli, attivi per la pace e la giustizia.
Nella discussione sul libro,
nel Sereno Regis, il 12 dicembre, qualcuno ha sottolineato la
divergenza tra chi crede in Dio (chiamiamo così, con nome improprio,
la realtà vivente vista come origine e meta e spirito della nostra
vita profonda) e chi non crede. Oggi anche la teologia cristiana
sottolinea la continuità tra fede esplicita, che accoglie segni di
luce sul mistero, e la fede nel valore umano in tutti come in noi.
Non c'è questo abisso di separazione, quando nel nostro vivere ci
riconosciamo tutti poveri cercatori di luce e di bene, e ciò è
anche quel tanto di felicità che possiamo assaggiare insieme, nella
pace.
Enrico Peyretti, 13 dicembre 2017
Nessun commento:
Posta un commento