sabato 3 giugno 2017

1962-2012
Ri-apriamo il Concilio
(pubblicato su il foglio n. 393, giugno-luglio 2012, www.ilfoglio.info)
Intervento nel convegno “Chiesa di tutti chiesa dei poveri”, nel 50° del Concilio, Roma 15-9-2012

Per chi è nato dopo gli anni '70, il Concilio Vaticano II è archeologia. Oggi, in un mondo minacciato da molti pericoli e molte paure; in una Chiesa che si difende, che ammonisce e rimprovera più che animare e incoraggiare; oggi, per il popolo vario dei variamente credenti in Dio, che cosa vale ricordare i cinquant'anni dall'apertura di quel Concilio?
Chiesa giovane e coraggiosa
Anche chi ne sa molto poco, sa che fu un momento assai vivo della Chiesa, in un tempo storico di speranza e di slancio. Tanto che oggi, col senno di poi, sembra che allora si sia peccato di ottimismo riguardo alla storia successiva. Ma la Chiesa fu in testa ad un movimento di ripensamento e di messa in discussione di molte strutture e idee della vita comune. La Chiesa appariva giovane e coraggiosa.
Sacerdozio comune
Ebbe il coraggio di aprire alla partecipazione attiva del popolo cristiano la liturgia fino ad allora supersacrale e riservata al monopolio del clero separato. Avviò la trasformazione della forma di Chiesa da piramidale papo-centrica assoluta, a popolare, comunitaria, sinodale (che significa “camminare insieme”). Il sacerdozio comune di tutti i seguaci di Cristo tornava a valere più di quello di un clero sacralizzato, con forme di vita strane e separate da quelle di tutti.
Altra immagine di Dio
La stessa immagine di Dio, rivelato come Padre da Gesù, mutò da Grande Padrone che esige adorazione, da Giudice cui nulla sfugge, a Padre anzitutto amoroso e misericordioso - «misericordia voglio, non sacrifici» - , e spirito che anima e scalda i cuori. Davvero cambiava la teologia, l'idea che avevamo di Dio, nientemeno, e faceva spaventare gli arcigni guardiani della sua concezione padronale.
Morale dell'amore
Le leggi morali, preoccupanti e incombenti, perciò spaventose, col ritorno alla lettura dei Vangeli si riassumevano nel «comandamento nuovo» di Gesù, l'amore che compie tutta la legge e la giustizia.
Fraternità col mondo
Il rapporto della Chiesa col mondo moderno passava dal corruccio maledicente alla fraternità rispettosa: affidandosi alla libertà e ai diritti di tutti, la Chiesa perdeva la fede nel potere temporale e relativizzava molto i concordati; si parlava di fine dell'era costantiniana, che non aveva crocifisso Gesù, ma, peggio, ne aveva fatto una gamba del trono imperiale; e di fine della cristianità, cioè della finzione e illusione che la società intera fosse evangelizzata con un battesimo a pioggia, e coincidesse con la Chiesa, che aveva parte nel governarla, collaborando coi potenti di turno.
Chiesa povera di potere
Chiesa dei poveri” in Concilio voleva dire Chiesa povera di potere, ricca solo della forza mite del Vangelo affidatole, vissuto e annunciato, in umiltà, con umili mezzi. Leggera e spoglia di potere, la Chiesa poteva riconoscere le vittime di tante violenze, e spendersi tutta per la giustizia e la pace.
Altre luci per la coscienza
Così, libera dalla pretesa di avere tutta la verità, su Dio e su tutto, la Chiesa stava imparando a rispettare altre luci per vivere, nelle altre religioni, nelle culture ad essa esterne, e in ogni cammino umano sincero, sicché giunse a capire che non ci sono diritti della verità sull'errore (anche diritti penali, fino al rogo purificatore), ma ci sono diritti della persona umana che cerca, cammina, un po' trovando, un po' errando, un po' donando e ricevendo nella «fecondazione reciproca» (Panikkar), che è la regola del crescere nella verità. Insomma, la Chiesa scopriva la libertà religiosa, facendo implicita penitenza della propria secolare occupazione coloniale dell'isola della verità, una roccaforte armata, una verità rocciosa, non un prato fiorente scaldato dalla luce viva, dai molti raggi.
Rivoluzione-conversione
Tutto ciò ed altro, è stata una rivoluzione. Nulla di meno. Strana rivoluzione, quella che non coltiva un progetto utopico, ma ritrova la genuinità attingendo di nuovo alla fonte originaria. La rivoluzione fu il lungo movimento, sfociato nel Concilio, di ritorno dal cristianesimo ecclesiastico alla fede biblica evangelica. Come rimuovere un pietrame che otturava la sorgente. L'antico nativo era il vero nuovo futuro. Naturale che ciò abbia terrorizzato i pavidi e allarmato i padroni custodi del sistema precedente, amante di se stesso, più che dell'umanità assetata. Naturale che, rispettando e omaggiando lo forme, questi abbiano cercato di svuotarne la viva novità. Il cardinale Siri profetizzò che sarebbero occorsi 40 anni per rimediare ai danni del Concilio. Ci siamo, e oltre. In buona parte si è rimediato, con una potente azione congelatrice.
Fuori dal congelatore
Ma il seme evangelico non è morto. Ora, dal congelatore monumentale portiamolo di nuovo a fecondare il terreno caldo e umido della vita quotidiana personale, delle piccole Chiese fraterne senza potere sociale. Il nostro disagio e lo scontento sano e impegnato che in questi anni, in tanti modi e in tante reti, ha preso liberamente la parola, esercitando la propria responsabile funzione nella intera Chiesa, hanno l'occasione, in questo cinquantennio, dal 2012 al 2015, di ri-accogliere il dono del Concilio, di raccontarlo ai giovani, di realizzarlo in tutti i luoghi della Chiesa “in stato di concilio” (come si diceva allora), di proseguire un riesame teso solo alla forma evangelica.
Questioni aperte
Anche perché ci sono questioni lasciate aperte dal Concilio di allora: i ministeri ecclesiali ancora sacrali e maschili, perciò ridotti senza motivo; i rapporti della Chiesa coi poteri sociali e politici, di convivenza più che di profezia; l'etica, fissata su alcuni punti certamente importanti del rispetto della vita, ma troppo poco annunciatrice e liberatrice sulle sistematiche offese delle potenze contro la vita, nel dominio economico e culturale, nelle guerre strumentali, nell'economia dell'ingiustizia, della fame e della rapina. La Chiesa parla e si impegna, a vari livelli, per correggere il costume banalizzante, nichilista, che corrode la solidarietà sociale e universale, ma è credibile solo dove si svincola, fisicamente e spiritualmente, dall'abbraccio interessato dei potenti. Il cappellano di corte, di palazzo, di banca e di caserma, predica un vangelo falso, tanto per i ricchi come per i poveri, se non riparte dal vangelo di giustizia del Battista e di Gesù. Non ci è facile dare questo avviso, perché sappiamo che riguarda anzitutto ciascuno di noi, in prima persona.
(da il foglio n. 393, giugno-luglio 2012; www.ilfoglio.info )

Pericolo di guerra. Che fare? | Enrico Peyretti


L’opinione pubblica internazionale assiste impotente allo scivolamento verso scenari di guerra aperta, in assenza di una mobilitazione che ottenga per tempo dai governi saggi passi indietro. Non c’è solo il terrorismo nella “guerra mondiale a pezzi” da tempo in corso, che può condurre a esiti incontrollabili. Sentiamo questo allarme, che sollecita riflessioni, dibattiti, impegno. Ma è davvero immaginabile un confronto militare diretto tra Occidente e Russia? Cosa si può fare?
Non porta molto avanti l’analisi delle diverse responsabilità nella storia, sia prima sia dopo la fine della Guerra Fredda, nel 1989, seguita da nuove guerre di interessi, mascherate da “guerre di civiltà”, come confessava il Nuovo modello di difesa italiano del 1991. Non serve a molto accusare di più l’influenza o dominio geopolitico occidentale, o di più l’espansionismo rivendicativo della Russia umiliata (trattamento sempre pericoloso). Serve che i popoli ottengano che tutti abbassino le minacce e le contro-minacce.
Che fare? La grande mobilitazione mondiale del 15 gennaio 2003 e la campagna popolare delle bandiere non impedì la 2a guerra all’Iraq. Allora, siamo impotenti? Mail-bombing sui governi? Preghiere in piazza delle varie religioni? Digiuni pubblici, non come ricatti, ma assunzione del dolore su di sé per toccare le coscienze? Messaggi al “nemico” per indurlo al dialogo? Elezione di un “ministro della pace”, come chiedevano Aldo Capitini e, in Parlamento, Tullio Vinay (cfr. il mio La politica è pace, Ed. Cittadella 1998, pp. 46-49)? Una dichiarazione-richiesta di pace concordata al “nemico” dell’Occidente, Putin? Una uguale dichiarazione-richiesta all’alleato Usa?
Sappiamo già che nessun segno o manifestazione è visibile se non ha forza sui media! Inchinarsi alle regole dei media?
L’azione più profonda che può avvenire è l’evoluzione mentale-morale (ciascuno in se stesso perché cresca in tutti) dalla ideologia della fatalità della guerra alla capacità di trasformazione-soluzione nonviolenta dei conflitti. Non è utopia disperata perché la cultura corrente ha ancora da scoprire la storia del “sangue risparmiato” (Anna Bravo), occultata dal fracasso delle guerre e da chi le celebra. Ci sono storie consistenti di lotte nonviolente, mezzi giusti per la giustizia, poco conosciute e considerate.
In questo impegno sappiamo bene che la giustizia non è affermata nella storia se non come frammenti profetici, apparizioni e non installazioni vincenti, ma sempre come tensione-aspirazione insopprimibile, nerbo e orizzonte della storia pur oscillante, ubriacata da qualche follia.
Ma oltre i tempi profondi e lunghi, occorre agire e proporre decisioni sui tempi brevi, perché troppe vite soffrono e muoiono, offese e vilipese, la storia umana è deviata dal suo senso, l’umanità intera è minacciata. Perché possa avvenire questa evoluzione umana bisogna rimuovere la causa che blocca il riconoscimento reciproco e divide l’umanità: la causa è la volontà di potenza, il capitalizzare ricchezza anche a danno altrui, la conquista di ricchezze sottraendole ad altri, l’influenza sulle terre ricche di risorse sottratte a chi le abita, e tutto ciò nella sottoconsiderazione dell’umanità altrui. Francesco vescovo di Roma, sull’aereo per la Polonia, il 27 luglio 2016, ha detto: «C’è guerra di interessi, c’è guerra per i soldi, c’è guerra per le risorse della natura, c’è guerra per il dominio dei popoli: questa è la guerra. Qualcuno può pensare: “Sta parlando di guerra di religione”. No. Tutte le religioni vogliamo la pace. La guerra, la vogliono gli altri. Capito?». È un’accusa al capitalismo liberista, della libertà senza giustizia.
Il problema della guerra – che è solo la più vistosa e ripugnante delle tre forme della violenza (diretta, strutturale, culturale) – è problema antropologico: quale relazione tra gli umani? Soci (socialismo non imposto) o rivali (competizionismo sfrenato)?
Ed è perciò problema politico: della “polis”, della città, dei “molti insieme”, del “mio” che non è contro il “tuo” perché sono entrambi il “nostro”. L’obbligo reciproco è originario (Simone Weil), prima del contratto sociale, perciò prima di rapporti politici imposti dal più forte. Nella politica umana la libertà è indivisibile: io non sono libero se non lo sei anche tu, e anche lui. Ed è la giustizia – assicurare ad ognuno la sua dignità, la possibilità di vita umana – che regola la libertà, che rende liberi. Non è la libertà di “libere volpi fra libere galline”, cioè il “lasciar fare” tra forti e deboli, che possa produrre giustizia, e dunque pace giusta.
Il problema della pace nei rapporti politici è passare dal “potere su” al “potere di”, riconosciuto a tutti. Trasformare gli uomini da rivali a soci, è opera immane di maestri, di cultura, etica, mistica, spiritualità. È opera di tutto ciò, e anche della analisi critica dei fatti e dei movimenti sociali, purché vedano le dimensioni profonde della evoluzione che deve salvare l’umanità dall’autodistruzione. In questa linea propositiva, uno scritto di Nanni Salio del novembre 2015, quasi suo testamento morale-politico, presenta le alternative nonviolente ai «due terrorismi», quello di stato, quello ribelle, con proposte per il medio periodo e per il medio-lungo.
Salio conclude: «Tutte queste misure possono essere ampliate e perfezionate ulteriormente. Per far ciò “non basta la vita” di una singola persona, per quanto geniale, creativa, amorevole come quella dei grandi maestri che ci hanno preceduto, da Gandhi a Martin Luther King, da Danilo Dolci ad Aldo Capitini, da Buddha a Gesu’. E’ un compito collettivo dell’intera umanità, possibile, doveroso, entusiasmante, per mettere fine alla violenza nella storia e far compiere un salto evolutivo alla natura umana.»
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PierGiorgioVisintin's avatar
PierGiorgioVisintin · 60 settimane fa
Da aggiungere alle altre citazioni : Da “UTOPIA” lib. II° Thomas MORE (1478-1535) (Trovata in “L’Africa dentro di me” di don Piero Gallo)
“Quando considero tutti questi nostri Stati oggi vigenti e ci rimugino sopra, la sola cosa – Iddio mi guardi – che mi viene in mente è che si tratti di una conventicola di ricchi, che sotto il nome e pretesto di stato, pensano a farsi gli affari loro; così almanaccano ed escogitano tutti i modi e le sottigliezze che consentono anzitutto, di conservare, senza rischio di perderlo, tutto ciò che si sono accaparrati con mezzi disonesti, poi di assicurarsi col minimo esborso la possibilità di abusare del lavoro e delle fatiche di tutti i poveri.
Queste macchinazioni, una volta che i ricchi hanno stabilito di metterle in atto con pubblico decreto (perciò anche a nome dei poveri) assumono forza di leggi.”
Mi pare di una modernità e attualità sconcertante!!
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PiergiorgioVisintin's avatar
PiergiorgioVisintin · 60 settimane fa
aggiungo ancora questa: da Lao Tse "il suo crdo antistorico" , p72

Più armi affilate ci saranno
più ottenebrata sarà tutta la terra.
Più abili artigiani ci sono
più saranno inventati pericolosi congegni.
Più leggi saranno promulgate
più ladri e banditi ci saranno.
Tendi l'arco al massimo
e desidererai di esserti fermato in tempo.

venerdì 2 giugno 2017

Siamo fortunati. Possiamo assistere ad un fenomeno storico, in realtà non raro, ma sempre sorprendente: il re pazzo. Abbiamo inventato un sistema di cui andiamo orgogliosi, pronti a difenderlo coi denti e con le bombe che distruggono tutto (anche il sistema): è la democrazia. Cioè tutto il popolo insieme sceglie i migliori, i più capaci e adatti per governarci. E' vero: non c'è un sistema migliore. Ed ecco che il sistema migliore elegge un peggiore: un maschio rozzo, ignorante, grintoso e ridanciano, drogato di soldi, che scambia il suo paese per il mondo intero, e comunque col diritto di essere primo, first, e gli altri si arrangino. Per creare lavoro, fabbrica armi, quelle cose che ammazzano chi lavora e chi non lavora, e le vende a chi le usa largamente, ammazzando largamente. Gli dimostrano tutti che stiamo guastando l'aria di casa, e distruggendo il pavimento della vita, e che dobbiamo tutti, molto in fretta, rimediare insieme, se è ancora possibile, e lui dice: "Io faccio da me. Inquino se mi serve inquinare". La democrazia dovrebbe servire a buttar giù subito, quando si è sbagliato a mandar su. Cosa manca alla nostra democrazia?
e. p. (29 maggio 2017)

The President

Se nel palazzo reale nasceva dal re (forse) e dalla regina un bimbetto strano che da grande si rivelava pazzo o scemo, quello era il re, niente da fare. Ma se un popolo (con un sistema strampalato per il quale non conta la somma dei voti personali, ma la somma dei delegati per collegio o stato) elegge un riccone pazzo a cui non presteresti la bicicletta, e tanto meno il telefono, tutto bene, è la democrazia, dolcezza!

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(15 gennaio 2017)

Il terrorista (per discutere)

di Enrico Peyretti

venerdì 21 aprile 2017
Per discutere. E’ inutile terrorizzare il terrorista. Il vantaggio ce l’ha lui. Né leggi, né controlli, né armi, lo fermano. O inventi altro, o vince sempre lui. Lui ha nemici assoluti, più assoluti di quanto lui è nemico tuo. Lui ti fa paura, ma lui non ha paura. Per uccidere i suoi nemici (anche tutti noi, potenzialmente) ha l’arma invincibile dell’uccidersi con loro. Non teme nessun danno, perché ha già messo nel conto il danno totale. Tu, davanti a lui, sei disarmato. Noi siamo disarmati. Ma forse no.
L’unico modo di fermarlo è levargli il motivo, la sua vera arma. La lotta al terrorismo non si fa con le armi, tutte spuntate davanti alla sua, ma con la parola, il colloquio, la cultura, la convivenza, il riconoscimento, la fine dei ghetti, l’uguaglianza, la sconfessione delle violenze del passato.
Il terrorista terrorizza perché è terrorizzato (anche a torto) dalla sua condizione, reale o presunta, o ideologica. Vuole infliggere agli altri ciò che sente in sé. Se viviamo una vita apprezzabile non vogliamo metterla a rischio per sopprimere vite altrui. Alla peggio, facciamo la guerra da posizioni sicure, per esempio coi droni. E’ sempre ammazzare, è sempre terrore, ma non è la morte che cammina in città, accanto a noi, la città della morte  Chi vuole uccidere senza morire, lo fa in altri modi sicuri, non facendosi bomba o bersaglio lui stesso. Se fa questo, ragiona diversamente. Se vuole morire non è èer le vergini del paradiso – via! – ma perché la sua vita è brutta, si sente brutta, offesa, obbligata alla vendetta.
Terrore chiama terrore. La sera stessa di ogni attentato i governi promettono di rafforzare la vigilanza. Lo hanno già promesso subito dopo il precedente attentato. Non hanno terrorizzato il successivo terrorista.
La causa che arma l’attentatore non è solo sociale-culturale. La malvagità esiste, potenziale in tutti. In alcuni si scatena per le circostanze, remote o prossime. Impossibile sradicare, anche in noi stessi, tutta la malvagità. Opporle umanità, il ritorno alla parola reciproca, espressione e ascolto, empatia, sentire come mio il sentire tuo.
Non serve fare paura a chi ha già paura di subire torti, di essere disconosciuto, e perciò ha volontà di vendicare i torti. Non serve. Solo aumenta la paura, che può diventare violenta.
Occorrono colloqui pubblici in tv con chi sostiene o comprende le ragioni della jihad. Come in tutti i conflitti, piccoli o grandi, solo la ragione e la parola reciproca superano la consegna della decisione, come in una macabra lotteria, alle armi, o all’offesa. Occorre, in ogni cuore, come in ogni collettività e istituzione, l’ “avvocato dell’avversario”, o del nemico, per conoscere le sue motivazioni, anche le più sgradevoli, ingiuste, pericolose. (cfr Avvocato dell’avversario, ministro della pace, nel mio La politica è pace, Cittadella 1998, pp. 46-49). Nei tribunali ecclesiastici c’era (c’è ancora?) l’avvocato del diavolo, cioè il portatore delle cattive ragioni, per conoscerle, capirle, eventualmente superarle. Così nei conflitti sociali e culturali. Specialmente in questi. Può darsi che non sia tutta cattiva una ragione che porta ad azioni cattive. Oppure può darsi che sia originariamente cattiva. Bisogna conoscerla, ascoltarla, per renderla meno violenta, o per coglierne il valore senza prezzo di sangue.
Bisogna che il prossimo terrorista sappia che può parlare, e che noi lo ascoltiamo, che lui sarà ascoltato e ci potrà ascoltare. Se sa che gli spariamo, noi siamo già perduti. Il vantaggio ce l’ha lui. Vogliamo lasciarglielo?
Il terrorismo italiano degli anni di piombo non fu vinto dalle armi, ma dai contatti umani.
e. p.