Il terrorista (per discutere)
di Enrico Peyretti
venerdì 21 aprile 2017
Per discutere. E’ inutile terrorizzare il terrorista. Il vantaggio
ce l’ha lui. Né leggi, né controlli, né armi, lo fermano. O
inventi altro, o vince sempre lui. Lui ha nemici assoluti, più
assoluti di quanto lui è nemico tuo. Lui ti fa paura, ma lui non ha
paura. Per uccidere i suoi nemici (anche tutti noi, potenzialmente)
ha l’arma invincibile dell’uccidersi con loro. Non teme nessun
danno, perché ha già messo nel conto il danno totale. Tu, davanti a
lui, sei disarmato. Noi siamo disarmati. Ma forse no.
L’unico modo di fermarlo è
levargli il motivo, la sua vera arma. La lotta al terrorismo non si
fa con le armi, tutte spuntate davanti alla sua, ma con la parola, il
colloquio, la cultura, la convivenza, il riconoscimento, la fine dei
ghetti, l’uguaglianza, la sconfessione delle violenze del passato.
Il terrorista terrorizza perché è
terrorizzato (anche a torto) dalla sua condizione, reale o presunta,
o ideologica. Vuole infliggere agli altri ciò che sente in sé. Se
viviamo una vita apprezzabile non vogliamo metterla a rischio per
sopprimere vite altrui. Alla peggio, facciamo la guerra da posizioni
sicure, per esempio coi droni. E’ sempre ammazzare, è sempre
terrore, ma non è la morte che cammina in città, accanto a noi, la
città della morte Chi vuole uccidere senza morire, lo fa in
altri modi sicuri, non facendosi bomba o bersaglio lui stesso. Se fa
questo, ragiona diversamente. Se vuole morire non è èer le vergini
del paradiso – via! – ma perché la sua vita è brutta, si sente
brutta, offesa, obbligata alla vendetta.
Terrore chiama terrore. La sera
stessa di ogni attentato i governi promettono di rafforzare la
vigilanza. Lo hanno già promesso subito dopo il precedente
attentato. Non hanno terrorizzato il successivo terrorista.
La causa che arma l’attentatore
non è solo sociale-culturale. La malvagità esiste, potenziale in
tutti. In alcuni si scatena per le circostanze, remote o prossime.
Impossibile sradicare, anche in noi stessi, tutta la malvagità.
Opporle umanità, il ritorno alla parola reciproca, espressione e
ascolto, empatia, sentire come mio il sentire tuo.
Non serve fare paura a chi ha già
paura di subire torti, di essere disconosciuto, e perciò ha volontà
di vendicare i torti. Non serve. Solo aumenta la paura, che può
diventare violenta.
Occorrono colloqui pubblici in tv
con chi sostiene o comprende le ragioni della jihad. Come in tutti i
conflitti, piccoli o grandi, solo la ragione e la parola reciproca
superano la consegna della decisione, come in una macabra lotteria,
alle armi, o all’offesa. Occorre, in ogni cuore, come in ogni
collettività e istituzione, l’ “avvocato dell’avversario”, o
del nemico, per conoscere le sue motivazioni, anche le più
sgradevoli, ingiuste, pericolose. (cfr Avvocato dell’avversario,
ministro della pace, nel mio La politica è pace,
Cittadella 1998, pp. 46-49). Nei tribunali ecclesiastici c’era (c’è
ancora?) l’avvocato del diavolo, cioè il portatore delle cattive
ragioni, per conoscerle, capirle, eventualmente superarle. Così nei
conflitti sociali e culturali. Specialmente in questi. Può darsi che
non sia tutta cattiva una ragione che porta ad azioni cattive. Oppure
può darsi che sia originariamente cattiva. Bisogna conoscerla,
ascoltarla, per renderla meno violenta, o per coglierne il valore
senza prezzo di sangue.
Bisogna che il prossimo terrorista
sappia che può parlare, e che noi lo ascoltiamo, che lui sarà
ascoltato e ci potrà ascoltare. Se sa che gli spariamo, noi siamo
già perduti. Il vantaggio ce l’ha lui. Vogliamo lasciarglielo?
Il terrorismo italiano degli anni
di piombo non fu vinto dalle armi, ma dai contatti umani.
e. p.
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