" LA SANTITA' COME
PASSIONE PER L'UOMO.
LA
FIGURA DI MONS. TONINO BELLO "
(14-15 fenbbraio
1996)
Relazione di Enrico Peyretti
nel
convegno "Modelli di santità oggi"
Facoltà
Teologica dell’Italia settentrionale, sezione di Padova, 14-15.2.96
Pubblicato nel volume "Modelli di santità oggi", a c. di Giuseppe Toffanello, Edizioni Messaggero Padova, 1997
Indice
1. «Regala una rosa al
primo passante». Significato di un invito di don Tonino.
-
l'eucarestia e la strada
-
passione come sentimento, passione come sofferenza
-
dono, bellezza, incontro
-
l'unità dei due comandamenti
2.
Passione per l'umanità?
-
merita l'umanità di sopravvivere?
-
l'amore ama chi non ama
-
la chiesa del grembiule
-
la carità tutto protegge, tutto sorregge
3.
Santi senza Dio?
-
la domanda di Albert Camus
-
etica laica e etica religiosa
-
qualche risposta: Norberto Bobbio, Armido Rizzi
-
la passione per l'umanità come santità
4.
La passione di don Tonino
-
scritti e vita, vita e scritti
-
l'impegno per la pace con l'appello alle coscienze
-
l'invasione dei «popoli alla deriva»
-
ingerenza umanitaria sì, ma nonviolenta
-
don Tonino e Romero
1.
« REGALA UNA ROSA AL PRIMO PASSANTE »
C'è
un pericolo in questo discorso. Il culto dei santi può
prendere
il posto della nostra personale risposta alla vocazione
alla
santità. E' più facile estasiarsi nell'ammirazione devota di
qualche
grande modello, che impegnarsi a realizzare verità e
bontà
nella nostra vita. I santi che incontriamo e dobbiamo
sapere
riconoscere, sono incoraggiamento e aiuto, non esempi da
ripetere
uguali, né proiezioni del nostro desiderio, come i divi
dello
spettacolo, cioè appunto "idoli", guardati da
lontano
("tele-visivi")
senza assumerci responsabilità. Questo è il
pericolo
dei santi dichiarati, ed anche "eroicizzati" per loro
"virtù
eroiche", mentre la santità diffusa dei "poveri cristiani"
e
della "povera gente" è fatta di doni soprannaturali nella
carne
del
comune quotidiano, nella fedeltà, cadute, riprese, assunzione
di
responsabilità (1). Con questa avvertenza, parliamo pure di
santità
e di Tonino Bello.
Nel
suo testamento spirituale don Tonino scrive, con la sua
arte
di estrarre significati dalle espressioni più usuali:
«Siate
soprattutto uomini. Fino in fondo. Anzi, fino in
cima.
Perché essere uomini fino in cima significa essere santi»
(2).
Ecco
una sua idea della santità: compimento della nostra
umanità.
Quel che va "mortificato" in noi è quel che abbiamo di
disumano,
non la nostra umanità. Da ciò, il desiderio
appassionato
di don Tonino che la vocazione e l'immagine umana si
realizzino
in tutti, anche e specialmente in chi ha le sue doti
represse,
oppresse, impedite dalla violenza e dalle miserie;
desiderio
di liberazione del disegno originario e singolare di
Dio
in ogni singola persona, per la felicità di questa, per la
gloria
di Dio, per l'armonia e bellezza del mondo.
Se
l'uomo e la donna sono immagine di Dio, allora il
compimento
della loro persona, dell'icona di Dio in loro, è la
loro
santità. Se Dio è il Santo e l'uomo è sua immagine,
realizzare
l'umanità è realizzare la santità. Dio, il santo, per
questo
ci ha creati, questo desidera appassionatamente, questo
opera
in noi. Ci sarà un compimento pieno e cosmico - spera chi
crede
nella sua parola - quando Cristo ritornerà. Ma intanto, da
ora,
ciò comincia veramente tanto quanto si va realizzando la
nostra
umanità. Nell'educazione religiosa dei più anziani tra noi
c'è
qualcosa da correggere: si parlava di valori "soltanto
umani",
estranei alla salvezza; si opponeva la "filantropia" alla
carità,
come uno sforzo vano; quasi che Dio avesse fatto un
mondo,
un'umanità, una storia inutili, da distruggere come un
castello
di carte, una volta superata la prova, per realizzare
poi
altrove il suo Regno.
Invece
Dio è appassionato per questa umanità. Somigliamo a
Dio
non solo, ovviamente, tendendo a Lui (la relazione di
Alessandro
Barban: "santità come passione per Dio"), ma
altrettanto
condividendo la sua "passione per l'umanità".
La
passione di Dio per l'umanità è tale nella duplice
valenza
della parola: forte sentimento, in cui qualcosa
dell'altro
ti prende; sofferenza condivisa, patita con chi è in
una
cattiva situazione.
Il
Dio di Israele e di Gesù non è l'Impassibile che non ha
passioni,
che non soffre. Tutte le scritture ebraiche e cristiane
lo
conoscono come appassionato, nell'immagine dell'innamorato
tenero
e tenace, e in quella del sofferente per solidarietà con
noi.
Condividere questa sua passione è partecipare alla sua
santità,
è un modo di realizzare la sua immagine in noi. I due
comandamenti
dell'amore di Dio e del prossimo si saldano: nel
cercare
Dio siamo rinviati al prossimo, nell'amare la vita piena
del
nostro prossimo ci troviamo ad imitare Dio, scopriamo che
stiamo
amando anche lui. La "passione per l'uomo" è imitazione di
Dio,
come rivelerà il giudizio finale (cfr Matteo 25) anche a chi
non
ci avrà mai pensato,
Don
Tonino dice, in una frase del suo Programma pastorale
1989-90:
«E' illusione tragica pensare che l'eccedenza di sacro
ci
riscatti dalla carestia di santità» (3). Cioè, cercare Dio
soltanto
nella sua eccellenza e separatezza dall'umanità non ci
farebbe
ricevere e vivere la sua santità, sarebbe appunto una
«carestia
di santità».
L'eucarestia
della rosa e della strada, cioè dell'amore che
va
incontro al prossimo, quasi un fioretto francescano nella vita
di
Tonino Bello, caratterizzante la sua santità lieta e poetica,
pur
se intimamente sofferta, è un episodio che ho sentito
raccontare,
in testimonianza diretta, da una ragazza impegnata
nella
Rete di Formazione alla Nonviolenza, quando, a Torino,
nell'ora
stessa del suo funerale a Molfetta, ci riunimmo in molti
per
ricordare, ascoltare, pregare con e per don Tonino. La
ragazza
era venuta all'incontro con una rosa in mano e raccontò:
«Una
volta don Tonino, al termine di un convegno internazio-
nale,
dato che conosco le lingue, mi invitò all'altare per
tradurre
la messa. Io mi schermivo, perché non sono assolutamente
pratica
di messe. Durante la celebrazione, ad un certo punto, lui
tirò
fuori da sotto l'altare un secchio di rose rosse, ne diede
una
ad ognuno dei presenti, dicendo: "Uscite per strada e
regalate
questa rosa al primo passante!". Lui intanto rimase ad
aspettare,
tutto felice. Anch'io uscii con la mia rosa, ma dopo
poco
rientrai con la rosa ancora in mano, e dissi a don Tonino:
"L'ho
tenuta, perché il passante che ho incontrato sono io». Lui
mi
abbracciò e mi disse con un gran sorriso: "Un'altra volta la
invito
a ballare, ma non a Molfetta, se no poi qualcuno fa delle
chiacchiere
sciocche!"» .
Quella
ragazza aveva incontrato se stessa, aveva consegnato
al
proprio cuore l'evangelo del fiore ricevuto, e don Tonino
esultava
per lei e con lei. Quel giorno del funerale, la ragazza
terminava
il suo racconto piangendo di rimpianto e di gioia, e io
pensavo:
ecco, tutto si adempie. L'ultima dei chiamati ci porta
qui
tutto lo stile e lo spirito di un cristiano povero e lieto,
pieno
di sogni diurni (quelli che si adempiono, come lui diceva,
quelli
su cui rifletteva da filosofo Italo Mancini, sulla scorta
di
Ernst Bloch), sogni di pace e fratellanza larga come il mondo,
libera
come il cielo (4).
«Regala
questa rosa al primo che incontri, al tuo prossimo».
Un'azione
poetica, profetica, liturgica, un gesto liberamente
inventato
nel mezzo dell'eucarestia, e del tutto confacente. Non
dice
forse il vangelo: «Se stai presentando la tua offerta
all'altare
e là ti ricordi che il tuo fratello ha qualche cosa
contro
di te, lascia la tua offerta lì davanti all'altare e va'
prima
a riconciliarti col tuo fratello: poi torna e presenta la
tua
offerta» (Matteo 5, 23-24)? Nessuna di queste parole è
superflua:
non si tratta di purificarti deponendo un tuo rancore
(questo
è ovvio), ma di andare incontro al rancore dell'altro con
l'offerta
della riconciliazione. Quanto rancore nelle nostre
strade.
Quanta freddezza, gelo e deserto di rapporti umani.
Fretta
e velocità trasformano la strada da luogo di incontro in
luogo
di solitudine, di contesa fra estranei, o di scontro.
Non
soltanto il simbolo forte che è nell'immagine della
strada,
ma la realtà odierna della strada, con tutta la sua
concretezza
e la sua dura macchinizzazione, è spessissimo
presente
nelle parole e negli scritti di Tonino Bello, intrisi
degli
odori, rumori, grigiori, pericoli e dolori della
quotidianità,
posta però sotto la luce rivelatrice dello Spirito.
Nell'episodio
narrato, attraverso il simbolo della rosa -
bellezza,
gratuità, dono, grazia, delicatezza, tenerezza - don
Tonino
manda l'eucarestia nella strada, non con una processione
sacra
(che probabilmente sarebbe anche sentita da più d'uno come
una
pubblicità ecclesiastica in aggiunta alle tante altre che ci
rintronano),
ma per mano della ragazza «niente pratica di messe»!
Ogni
dono, anche il più modesto, è segno della grazia, del dono
massimo
che riceviamo. Chi non può credere alla grazia divina,
può
credere al dono fraterno. Chi crede alla grazia divina, è
spinto
a donare quello che può al fratello. Ecco il sacramento
quotidiano,
stradale, nelle mani di tutti, per tutti: donare
qualcosa
di sé, il proprio impegno, il lavoro volontario, i
frutti
del proprio talento, la propria gentilezza, compagnia,
ascolto;
tutto ciò che può suscitare, magari chissà quando, in
passanti
tristi e grigi un moto di "gratitudine" alla vita, cioè
di
"eucarestia". Infatti, è sacramento ogni cosa più
grande di
sé,
ogni gesto che dice più di quanto sappiamo.
Un
libretto che ha più di cento anni, di meditazione
sull'inno
alla carità di san Paolo (1a lettera ai Corinti,
cap.13),
vede nove rifrazioni di luce nello "spettro della
carità":
pazienza, benevolenza, generosità, umiltà, cortesia,
magnanimità,
altruismo, buon carattere, sincerità (5).
Nel
"fioretto" che ho preso ad emblema della carità di
Tonino
Bello, emerge la gentilezza, la cortesia, la finezza,
l'attenzione
al singolo "prossimo". Per ciascuno una rosa. «La
cortesia
si può definire carità nelle piccole cose» (6). E' vero,
specialmente
se credessimo di poter trascurare le "buone
maniere"
antiche, come qualcosa di superfluo o di formalista, se
trascurassimo
le "piccole cose" in nome di chissà quali
necessarie
grandi azioni.
Tonino
Bello aveva il dono di testimoniare la grande carità
nelle
umili cose quotidiane, anche con levità ed umorismo (7) e
con
fantasiosi impulsi di generosità, come quando, appena
nominato
vescovo, nella visita al Presidente della Repubblica,
regalò
a Pertini, senza pensarci due volte, la croce pettorale di
legno
di cui il Presidente aveva ammirato la semplicità (8).
Nell'episodio
della rosa il "primo passante" è il "prossimo"
della
legge fondamentale ebraica, cristiana e universale, della
"regola
d'oro" che è al centro delle etiche di tutte le sapienze
e
religioni. Il "prossimo" nel senso di vicino nel tempo e
nello
spazio:
tanto il primo che incontri, quanto la persona che hai
accanto
tutti i giorni. E dagli "una rosa": non soltanto qualcosa
di
necessario o di utile, ma qualcosa di bello, il tuo sorriso,
il
tuo coraggio, la tua speranza, la tua allegria. Scriveva
Giuseppe
Capograssi che i primi diritti della persona umana sono
sorriso,
amicizia, speranza. Ma dagli anche, se appena è in grado
di
non ferirsi gravemente, le tue spine: cioè, condividi il tuo
peso,
confessa le tue afflizioni e i dubbi pungenti. La rosa
significa
anche questo, cioè apertura, stima, fiducia, quindi
stimolo
ad un rapporto sincero, trasparente, di reciproco
sostegno.
Chiedere aiuto è già dare un aiuto. Non basta dare
servizi,
opere, fatiche, doveri, impegni. Bisogna dare cose
belle,
e cose autentiche. Ognuno sa fare o trovare qualcosa di
bello,
anche se non è un eccezionale artista. Ognuno ha
esperienze
vive, anche faticose o dolorose, e queste non sono
soltanto
né sempre da nascondere, perché sostanziano di verità il
rapporto
umano.
«Dio
è nell'incontro di due sguardi», ricorda spesso Michele
Do.
Tutto ciò che è autentico incontro di persone, che fa unità
profonda,
contemplativa e non possessiva, unità libera e
rispettosa,
non annessione, tutto ciò realizza la presenza del
Vivente.
Egli dà vita e la contempla e rispetta egli stesso come
libertà
sacra, fino a lasciarsi dimenticare e offendere pur di
non
inporsi. Questa venerazione di Dio per l'essere umano, che
impariamo
dalla storia biblica, che rivela Dio padre-non-padrone,
è
la rosa delicata che egli offre a noi frettolosi e distratti
passanti,
perché possiamo riconoscere lui e noi stessi, e quindi
venerarci
gli uni gli altri, con sacro rispetto e dedizione.
"Tutto-dato-a-Dio",
muslim, è il fedele musulmano. Hans Küng
chiede
ai musulmani «se non potrebbe significare qualcosa di
positivo
per il Corano e per la Shari'a il fatto che (...) venga
loro
applicato questo principio ermeneutico fondamentale:
adempimento
della volontà di Dio [che è al centro dell'Islàm,
n.d.r.]
mediante il servizio reso al prossimo. Il che
significherebbe
che il servizio reso all'uomo ha la priorità
sull'osservanza
della legge» (9).
Infatti,
per tutte le religioni abramitiche è rivelazione
divina
il racconto che vede in Adamo e in Eva l'immagine di Dio.
Noi
possiamo dire: il sacramento, il primo sacramento di Dio, è
la
persona umana come tale. Quello che fai all'uomo, lo fai a
Dio.
La passione sincera e generosa per gli esseri umani è, in
realtà,
al di là della nostra consapevolezza e delle pur
opportune
precisazioni, passione per Dio. L'amore umano e l'amore
per
Dio, più che su due linee divergenti o in direzioni opposte,
possono
essere visti come l'uno il prolungamento dell'altro,
presente
in questo dall'inizio, anche nascosto. Ciò che scrive
Gianfranco
Ravasi dell'amore sessuale, introducendo il Cantico
dei
cantici, vale per ogni forma autentica di amore tra noi
umani:
«In questo amore Dio stesso si insedia: questo amore
totale
umano diventa il simbolo reale, anche se spesso appannato,
dell'amore
totale ed infinito di Dio» (10). Amore che viene a noi
prima
che lo sappiamo, amore che torna a Dio se appena cominciamo
ad
amare qualcuno, anche se non ci pensiamo.
Per
questi motivi, personalmente penso che oggi il lavoro
per
la pace, nei suoi vari aspetti, sia la realizzazione più
attuale
dell'amore dell'umanità e quindi di Dio.
Note
(1)
Cfr Gabriella Zarri, Finzione e santità tra medioevo ed
età
moderna, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, p.15.
(2)
Dal testamento spirituale, in Tempi di fraternità,
n.5/1993,
p.4.
(3)
Scritti di Mons Antonio Bello (d'ora in poi Scr. A.B.),
Mezzina,
Molfetta 1993, vol. 1, p. 340.
(4)
Ho raccontato l'episodio in Rocca, 1 giugno 1993, p.49.
(5)
Enrico Drummond, La cosa più grande del mondo, con
prefazione
di p. Enrico di Rovasenda o.p., Soc. A.BE.T.E., Roma
1961,
p.28-29.
(6)
E. Drummond, op. cit, p.36.
(7)
Claudio Ragaini, Don Tonino, fratello vescovo, Edizioni
Paoline,
Milano 1994, p. 59.
(8)
C. Ragaini, op. cit., p.52-53.
(9)
Hans Küng, Cristianesimo e religioni universali,
Mondadori,
Milano 1986 (1984), p.85.
(10)
Gianfranco Ravasi, Cantico dei cantici, Ed. Paoline,
Cinisello
Balsamo 1986, p.12.
2. PASSIONE PER
L'UMANITA' ?
Ma
merita l'umanità di essere amata, di appassionarsi ad essa? Merita
una singola persona, reale e concreta, con tutti i suoi limiti,
difetti invincibili, errori e colpe, di essere amata con passione? E
se qualche giusto merita di essere salvato, tratto fuori
dall'accumulo di male storico, lo merita la massa dell'umanità?
Dio, nel racconto biblico antropomorfico, una volta se l'è chiesto,
ha risposto di no, non merita, anzi merita la morte, e si è fatto
col diluvio omicida, genocida.
Il
filosofo Norberto Bobbio, realista e pessimista sulla storia e il suo
senso, se lo chiede in questo nostro tempo: «Un'umanità corrotta
sino al punto da non arrestarsi di fronte alla grande ecatombe, anche
se sopravvivesse, sarebbe degna di sopravvivere?» (1). E lascia la
domanda sospesa. Uguale domanda, sotto un diverso profilo, Bobbio si
pone commentando quelle famose parole contenute in una intervista
postuma di Heidegger: «Ormai solo un Dio ci può salvare». Scrive
Bobbio: «Perché un Dio dovrebbe salvare il mondo? Perché?
Nell'universo degli infiniti mondi, chi siamo noi? Quali meriti
abbiamo? Siamo tanto intelligenti da capire il male, ma insieme tanto
stupidi da non riuscire a trovare da noi stessi il rimedio. Perchè
dovrebbe salvarci chi non è responsabile delle nostre sventure?»
(2).
La
sola ragione inclina a rispondere di no. Ma l'amore - lo sanno anche
i filosofi - ha ragioni che la ragione non comprende. Dopo il diluvio
Dio ha promesso: «Non lo farò più! Anche se l'uomo rimane
malvagio!» (cfr Genesi 8,21-22). Dio non è meritocratico, perché
l'amore non è dato al merito, non è un salario guadagnato, ma un
dono creativo.
Lo
dice limpidamente Etty Hillesum, la giovane ebrea che per solidarietà
con gli altri non si è sottratta, come forse poteva, al destino di
Auschwitz: «Non esiste alcun nesso causale fra il comportamento
delle persone e l'amore che si prova per loro. Questo amore del
prossimo è come un ardore elementare che alimenta la vita. Il
prossimo in sé ha ben poco a che farci» (3).
L'amore non è un calcolo che quantifica il positivo e il negativo,
li soppesa, e fa il bilancio. Non è un giudice obiettivo, ma è
desiderio, passione, volontà, perciò è squilibrato a favore di ciò
che ama. L'amore è desiderio,non soltanto nel senso che vuole avere
con sé ciò che ama, ma soprattutto nel senso che sa vedere
nell'amato, che poco è, la pienezza compiuta del suo essere.
L'amore-desiderio vede perciò ogni cosa più bella e più buona di
ciò che è, senza ignorare come essa di fatto è. L'amore è
profezia e azione, è creazione, è promozione di libertà. Come i
genitori vedono nel loro bambino tutto da crescere, che deve ancora
tutto imparare, l'adulto che sarà, perfetto sotto ogni aspetto, così
fa ogni amore. Perciò l'amore è destinato a soffrire, perché ogni
realizzazione è inferiore, ma accetta di soffrire e continua a
credere e sperare, perché vede quel che non c'è ancora, un
compimento atteso al di là di ogni parziale realizzazione. L'amore è
l'intelligenza dell'utopia, non dell'irreale, ma del possibile
non-ancora-reale.
Nella scienza, che deve vedere e dire le cose come stanno, il
"pensiero desiderante" non ha una funzione propriamente
conoscitiva. Ma il pensiero dell'amore è il desiderio che l'amato
sia perfetto: un desiderio tale che non guarda più la mancanza, ma
la perfezione desiderata. Non quella perfezione imposta come un
dovere gravoso e opprimente, ma quell'orizzonte che è luce
trasfigurante la povertà umana. Perciò l'amore è azione creativa e
liberante. L'amore non opprime e non umilia. Non opprime come farebbe
se imponesse condizioni difficili. Non umilia come se ti concedesse
benevolenza sebbene tu sia un nulla. Ti ama perché vede il tuo
valore che gli occhi non vedono. Ti promuove perché ti mostra quanto
puoi crescere e te lo chiede. L'amato, per il fatto di essere amato,
arriva a meritare l'amore.
Questo fa Dio che crea e santifica, con passione miseri/ cordiosa,
cioè con cuore che si mette nella miseria dell'amato, senza
ripugnanza, vedendo e attendendo per lui la pienezza realizzata di
ogni suo valore. Questo fa il santo, nel quale opera Dio. L'amore ama
le cose da poco, perché vede il valore di quel poco, e perché ha
fede in loro, come se fossero già un valore pieno. E lo sono, per
opera dell'amore. L'amore dà valore, perché vede valore
anche dove la fredda osservazione non ne trova. L'amore nutre più
del cibo, come dimostra la psicologia e l'esperienza fondamentale
della vita infantile.
L'umanità, che disperde e sconcia il proprio valore, forse non
merita di essere amata, ma l'amore la ama. Il Santo ama questa
umanità, così com'è; la nostra santità è partecipare a questa
passione di Dio per l'umanità (il genere umano, la nostra personale
umanità e quella degli altri, del nostro prossimo concreto),
nonostante la sua miseria, per il suo valore.
Un
idealismo senza amore ci porterebbe a quella «misantropia sublime»
di cui parla Kant, nel sogno evasivo di una umanità perfetta e nel
disprezzo di questa reale. Invece, come ha detto Alex Zanotelli a
Torino il 26 gennaio scorso, «Dio ama i poveri non perché sono
buoni, ma perché nessuno li ama». Chi ama i brutti e i cattivi? Dio
li ama, altrimenti la scintilla di valore che è anche nel peggiore o
nel più sfortunato tra noi, andrebbe spenta e perduta.
Si
può ascoltare il paradosso vero di questi versi inediti di Luca
Sassetti: «Il cane di Hitler / lo amava. / Eva Braun / amava Hitler.
/ Ogni madre / ama il figlio assassino. / E non perché malvagio / ma
perché è lui. / Dio non fa di meglio. / Di meglio non si può
fare».
Santità è cominciare a comprendere e vivere questa passione di Dio
per la miseria e grandezza umana. Infatti, le persone reali e
concrete che abitano e affollano la parola di Tonino Bello, e dunque
il suo cuore, non sono personaggi belli, buoni, puri. Sono esseri
umani nella tempesta della vita, ma lui sa vedere di ciascuno la luce
nascosta, e la onora, mentre si spende per accoglierla, salvarla,
liberarla. E quando questo, come spesso accade, non è subito
possibile, le rende tutto il rispetto, la venerazione, che la eleva
sopra ogni giudizio sociale o morale. La "povera gente"
(come diceva Primo Mazzolari), nei personaggi reali della sua
impolverata quotidianità stradale, è al centro della parola di
Tonino Bello, al centro della sua chiesa, nel posto d'onore, nel
primato degli ultimi, che diventa possibile solo con l'"ultimato"
dei primi. Scrive don Tonino nella lettera quaresimale del 19.2.1989
su I piedi di Pietro: «A furia di difendere la tesi del
"primato" di Pietro, abbiamo perso di vista che egli è il
capostipite di quell'"ultimato" di poveri verso cui Gesù
ha sempre espresso un amore preferenziale» (4). «I piedi dei poveri
sono il traguardo di ogni serio cammino spirituale» (5).
La
circostanza liturgica di queste parole, la memoria di Gesù che lava
i piedi a Pietro, ci porta a ricevere di nuovo da Tonino Bello quella
famosa figura della chiesa, che egli amava vivere e presentare: la
"chiesa del grembiule". E' una bella immagine
laico-diaconale, più che sacro-sacerdotale, che risulta emblematica
del servizio e della dedizione di don Tonino, un vescovo per niente
clericale.
Egli dice che quando la Chiesa passa dalla Parola annunciata alla
Parola celebrata e «finalmente alla Parola da tradurre in
testimonianza vissuta», sembra che la sua pressione interna scenda.
«Sembra proprio che la fotografia della Chiesa meglio riuscita sia
quella che la ritrae col lezionario in mano o con la casula addosso.
Quella che la riprende col grembiule ai fianchi è giudicata un
tantino osée, scattata forse in momenti di intimità e di abbandono
e che, comunque, non è bene far circolare troppo nei salotti perché
la gente non faccia commenti. E' proprio vero: la Chiesa del
grembiule non totalizza indici altissimi di consenso» (6).
La
Chiesa del grembiule non sceglie piedi puliti, degni, profumati.
Sappiamo bene che questo servizio da schiavo, che Gesù compie per
amore - e durante la Cena (dice Giovanni 13,2), non prima
e non dopo - tiene, nel vangelo di Giovanni, il posto che
l'eucarestia ha nei sinottici, persino nell'uso di alcuni termini:
«... anche voi dovete lavarvi i piedi l'un l'altro. ... Vi ho dato
un esempio, affinché, come vi ho fatto io, facciate anche voi»;
parole che suonano analoghe al «fate questo in memoria di me» (Luca
22,19; 1a Corinti 11, 24 e 25) (7).
Il
grembiule, dunque, non è un abito feriale e secondario della Chiesa,
ma l'ornamento del momento culminante e sorgivo (8) della sua vita.
Così ornato, Tonino Bello ha celebrato la sua vita, in servizio
umile e festoso, sulla via di Gesù Cristo.
Perché, dunque, l'umanità maleodorante e colpevole merita di essere
amata? Perché è amata! L'umanità è degna di sopravvivere,
risponde Tonino Bello "persuaso" a Bobbio "perplesso"
(9), anche se non lo merita. L'amore è amore perché ama chi non
ama, chi non ricambia l'amore, perché dà senza attendere
restituzione (cfr Luca 6,35).
Credo che sia questo il motivo più profondo dell'impegno di Tonino
Bello per la pace: non accettare che l'umanità stoltasi distrugga,
volere che ognuno e tutti vivano, che la politica cessi assolutamente
di usare la morte come un mezzo di azione, e che invece le arti e
l'intelligenza del bene rispondano alle arti e all'intelligenza del
male. Non si limitava ad auspicare che nessuno facesse guerra, né ad
esortare alla pace, né al solo pregare. Sosteneva la conoscenza e la
progettazione della difesa popolare nonviolenta (DPN) come
possibilità non bellica, non distruttiva, di difendere i giusti
diritti da ingiuste aggressioni e di risolvere i conflitti tra
diverse ragioni. Considerava realisticamente l'eventuale necessità
della difesa, ma senza la guerra (10). Nella relazione di Torino
(cfr nota 10), tra le altre cose, don Tonino vede la nonviolenza
attiva come la forma storica odierna dell'evangelico amore dei nemici
nei conflitti politici, ovviamente senza rinuncia alla difesa della
giustizia. Questo amore fino ai nemici appare come il motivo profondo
del suo impegno per la pace.
Vorrei concludere questa parte tornando all'inno alla carità di san
Paolo con una notazione linguistica che aiuta a vedere questa
gratuità dell'amore che cura e incoraggia ogni essere, ogni vita,
prima di ogni merito. Le parole greche di Paolo solitamente tradotte
«La carità ... tutto scusa (o più equivocamente: tutto
copre) ... tutto soffre (o: sopporta)» (1a
Corinti 13,7), mi pare che contengano rispettivamente l'idea di
protezione (con la stessa radice della parole tetto) e
di sostegno. Sicché potremmo intendere «La carità tutto
protegge ... tutto sorregge». Da sopra e da sotto,
come due mani delicate, la carità circonda, cura, ripara, scalda,
valorizza ciò che ama, affinché sia e viva. Questo amore per gli
ultimi, i deboli, le vittime, è l'impegno di Tonino Bello per la
pace, tutto all'opposto della giustificazione della violenza e
dell'omicidio come mezzi necessari o inevitabili per difendere il
diritto.
Note
(1)
Norberto Bobbio, I
chierici e il terrore,
in La Stampa
3.9.1981, ora in Il
terzo assente,
Sonda, Torino 1989, p.203.
(2) N. Bobbio, Elogio
della mitezza e altri scritti morali,
Linea d'ombra, Milano 1994, p.193.
(3) Etty
Hillesum, Lettere
1942-1943,
Adelphi, Milano 1990, p.114-115.
(4)
Scr.
A.B.,
cit., vol. 2, p. 346.
(5)
ivi, p. 345.
(6) Scr.
A.B.,
vol. 1, pp. 201-202. L'immagine
sarà poi sviluppata nell'articolo Stola
e grembiule sulla
rivista Presbyteri,
sulla Rivista
eccelesiale nel
1987, e da Ed. Insieme, Terlizzi, 1993. Il passo centrale è
riportato in C. Ragaini, op. cit., p. 71.
(7) Cfr Enrico Peyretti, Il
sacramento del lavare i piedi,
in il foglio
n.90, giugno 1981. In questo articolo attribuivo per errore a Paolo
Ricca un commento di Ernesto Balducci.
(8) Così il Concilio Vaticano
II dice della liturgia; cfr Costituzione sulla Sacra Liturgia, n. 10.
(9) Cfr le ultime emblematiche
righe della bellissima Introduzione
di N. Bobbio ad Aldo Capitini, Il
potere di tutti, La
Nuova Italia, Firenze 1969, p. 39; ora anche in N. Bobbio, Maestri
e compagni, Ed.
Passigli, Firenze 1984, 1994, pp. 261- 299.
(10) Si veda, su questo tema:
1) «La DPN non è un tenero sentimento per novizie, ma è diventata
una scienza, articolata e complessa» (da un articolo di Tonino Bello
sul settimanale diocesano Luce
e vita, durante la
Guerra del Golfo, citato in C. Ragaini, op. cit., p. 124). 2) Il
discorso nel teatro al buio di Sarajevo il 12 dicembre 1992, in Scr.
A. B., vol 1, pp.
123-126. 3) L'articolo L'ultima
radice, in
Nigrizia,
settembre 1991. 4) La relazione tenuta a Torino, il 2 novembre 1990,
nel pieno della crisi del Golfo, nel 2° Convegno internazionale di
Ricerca sulla Difesa Popolare Nonviolenta, sul tema Fondamenti
etici della DPN.
Questa relazione di Tonino Bello non mi risulta finora pubblicata (lo
sarà, secondo le informazioni avute, nel 4° volume di Scr.
A.B., cit.). Ne ho
stesa una sintesi, ricavata dai miei appunti nell'ascolto, che non
ricordo se ho già pubblicato da qualche parte.
3
- SANTI SENZA DIO ?
Albert
Camus, in un grande romanzo, emblematico della
condizione
umana, La Peste, del 1947, fa vivere un personaggio,
Tarrou,
che, ad un certo momento, ha un lungo colloquio col
medico
Rieux, impegnato a curare gli ammalati nella città
appestata
di Orano, in Algeria (1). Dice Tarrou: «Io soffrivo
della
peste molto prima di conoscere questa città e questa
malattia
(...). Io ho sempre voluto uscirne». Era figlio di un
magistrato,
pubblico accusatore. Quando aveva 17 anni, il padre
lo
invitò ad assistere ad un processo importante in Corte
d'Assise,
in cui chiese la condanna a morte dell'imputato, un
uomo
sui 30 anni, capelli rossi, povero. «Aveva l'aria di un gufo
sbalordito
da una luce troppo viva (...). Era un uomo vivo». Il
giovane
Tarrou sentì «con quello sciagurato un'intimità ben più
vertiginosa
di quella che mai ebbi con mio padre». Quando capisce
che
il padre ogni tanto si alza prestissimo per andare ad
assistere
alle esecuzioni, fugge da casa. Gli interessa la
condanna
a morte, vuole regolare il conto col "gufo rosso". Fa
della
politica, combatte la società fondata sulla condanna a
morte,
partecipa a tutte le lotte in Europa. Ma anche i suoi
compagni
pronunciano condanne. Gli dicono che quei pochi morti
sono
necessari per arrivare a un mondo in cui non si sarebbe
ucciso
più nessuno. Fino a quando, un giorno, assiste ad una
fucilazione,
«e la stessa vertigine che aveva colto il ragazzo
che
io ero oscurò i miei occhi di uomo. (...) Ho capito allora
che
io, almeno, non avevo finito di essere un appestato (...). Ho
saputo
di avere indirettamente firmato la morte di migliaia di
uomini».
I compagni di lotta non ne sembravano urtati, ma Tarrou
discuteva
con loro e pensava che «se si cedeva una volta, non
c'era
ragione di fermarsi. Mi sembra che la storia mi abbia dato
ragione,
oggi si fa a chi uccide di più». Tarrou si era rifiutato
di
dare mai una sola ragione all'uccidere: «Ho scelto questo
acciecamento
ostinato in attesa di vederci più chiaro. (...) Ho
capito
questo, che tutti eravamo nella peste; e ho perduto la
pace.
Ancora oggi la cerco, tentando di capirli tutti e di non
essere
il nemico mortale di nessuno. (...) Dal momento che ho
rinunciato
ad uccidere mi sono condannato a un definitivo esilio.
Saranno
gli altri a fare la storia. (...) Ci sono sulla terra
flagelli
e vittime e bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi
di
essere col flagello. (...) Bisognerebbe che ci fosse una terza
categoria,
quella dei veri medici, ma è difficile. Per questo ho
deciso
di mettermi dalla parte delle vittime, in ogni occasione,
per
limitare il male. In mezzo a loro posso almeno cercare come
si
giunge alla terza categoria, ossia alla pace».
A
questo punto Rieux, il medico, chiede a Tarrou se ha
un'idea
sulla strada per arrivare alla pace. «Sì, la simpatia»,
risponde
Tarrou, e prosegue con semplicità - siamo qui al culmine
del
colloquio - «quello che mi interessa è sapere come si diventa
un
santo». «Ma lei non crede in Dio», gli dice il dottore.
«Appunto:
se si può essere un santo senza Dio, è il solo problema
concreto
che io oggi conosca», conclude Tarrou.
Vediamo
sette elementi di queste pagine: 1) un «istinto
formidabile
come un'onda» porta il ragazzo Tarrou a fianco del
condannato
a morte; 2) egli combatte la società violenta; 3) si
accroge
che la rivoluzione violenta è altrettanto appestata, e
lui
stesso lo è; 4) per questo ha perduto la pace, e ora la cerca
col
rifiuto assoluto di uccidere; 5) questo lo pone, così gli
sembra,
fuori dalla storia; 6) la via della pace è la simpatia;
7)
l'unico problema concreto è sapere se si può essere santi
senza
Dio, come è Tarrou.
Nei
nostri termini di oggi, diciamo che quest'uomo ha
rifiutato
la violenza per una potente passione interiore a favore
delle
vittime; non vede e non conosce possibilità di rivoluzione
nonviolenta
della società omicida; preferisce patire il male
piuttosto
che commetterlo; sa che la via alla pace, fuori dalla
tenaglia
carnefici-vittime, è la simpatia - che noi abbiamo
chiamato
qui passione per l'uomo; e infine si interroga sulla
santità.
Intuisce che la guarigione dalla peste è la santità:
salvezza,
sanità, vita, in/nocenza. Ma entrambi gli interlocutori
non
credenti, nominata la santità, nominano Dio, il Santo, per
porsi
la domanda concreta, «l'unica concreta»: se l'uomo possa
diventare
santo da solo, se possa guarire dalla peste della
violenza
da solo, se possa diventare giusto senza un contatto
vitale
con uno che sia il Giusto. In Camus la domanda rimane
sospesa,
ma è posta. E, comunque, la santità è in relazione alla
simpatia
(sun/pàtheia), alla com/passione per l'altro essere
umano.
E' il nostro tema. C'è in Tarrou la passione per l'uomo e
non
c'è Dio conosciuto. E' santità quella passione per l'uomo?
La
questione della santità senza Dio è la stessa questione
dell'etica
laica e dell'etica religiosa, di cui oggi nuovamente
si
discute, p. es. tra il cardinale Martini e Umberto Eco sulla
rivista
Liberal (febbraio 1996). Chiedersi se è possibile la vita
etica,
la vita giusta e buona, senza credere in Dio, è lo stesso
che
chiedersi se è possibile un'etica laica senza fondamento
religioso.
Il
termine santità, nella tradizione filosofica, ha un
significato
oggettivo: «un valore che va in ogni caso
riconosciuto
o salvaguardato», e uno soggettivo: «il grado
eccellente
e superiore della virtù o della religione come virtù»
(2).
Se aggiungiamo che santità, in senso cristiano, è
somiglianza
con Dio, per la vita in noi del suo Spirito effuso
nei
nostri cuori, nella ricerca di rendere sempre meglio fedeli
ad
esso le nostre intenzioni e i nostri atti (3); e se intendiamo
l'etica
non come precettistica, ma come ispirazione fondamentale
che
motiva la coscienza; allora vediamo che si possono avvicinare
la
questione della santità, in senso generale, e quella della
vita
etica: essere santi è vivere la vita etica, cioè sentire e
voler
seguire sempre meglio la voce della coscienza che chiama e
guida
al bene. In qual modo influisce su questa vita credere o
non
credere in Dio?
Per
Norberto Bobbio, nella morale «il vero problema è
l'osservanza».
«La ragione profonda dell'allacciamento della
morale
a una visione religiosa non sta tanto nell'esigenza di
fondare
la morale, quanto nell'esigenza, praticamente ben più
importante,
di favorirne l'osservanza». «L'appello a Dio è più
rivolto
a Dio come giudice (infallibile) ed esecutore severo
della
trasgressione, che non a Dio come legislatore». «Uno degli
argomenti
principali per indurre gli uomini a obbedire alle leggi
morali
è il timore di Dio, non importa se questo argomento sia
addotto
con intenzioni pure dalle chiese (...) o se invece venga
utilizzato
dallo stato (...) per ottenere facile obbedienza ai
suoi
comandi, anche quelli ingiusti». «Per ottenere l'osservanza
dei
principali precetti morali occorre ben altro che la loro
giustificazione
razionale. (...) Occorre minacciare pene tali da
non
rendere vantaggiosa la violazione delle norme stabilite». E'
ciò
che fa il diritto coattivo. Lo stesso risultato ottiene «a
maggior
ragione il timor di Dio che è sempre stato considerato
una
forma d'intimidazione non meno intensa, e in alcune epoche
più
intensa, di quella giuridica». «Da questo punto di vista, ma
solo
da questo punto di vista, si può presumere che in una
società
secolarizzata le leggi morali siano meno osservate che in
una
società religiosa» (4).
In
un seminario su "Laicità e religione di fronte alla
Guerra
del Golfo", nel 1991, Bobbio ricapitolava questi
argomenti,
ma aggiungeva:
«C'è
una ragione più forte per la superiorità dell'etica
religiosa.
La società sconsacrata è moralmente peggiore della
società
cristiana. La sconsacrazione, forse, cambia il concetto e
il
valore dell'uomo. Quelle parole di Dostoevskij «Se Dio non
c'è
tutto è permesso», possono voler dire anche: «Se Dio non c'è
l'uomo
è più vulnerabile, più indifeso, più assoggettabile».
Oppure:
«...è abbandonato a se stesso, non distingue bene da
male,
è indifferente o cieco di fronte ai valori». E' necessario
pensare
che l'uomo ha natura divina ancorché decaduta? Una
società
in cui Dio è morto è destinata a precipitare nella vio-
lenza,
nello stordimento, nell'effimero, nel volgare, nel diver-
tissement,
senza più nulla di eterno?».
Su
queste domande, Bobbio si soffermava perplesso e dava una
risposta
interlocutoria da laico. Ammetteva che «dopo Auschwitz
e
i gulag (opera di regimi scristianizzati), la domanda sembra
dire
il vero». Ma ricordava che «altri delitti immani furono
commessi
in epoca cristiana, e benedetti: persecuzioni religiose,
genocidio
degli indios, tratta degli schiavi. Chi ha sconfitto
Hitler
e Stalin? Una concezione laica e liberale. Quando mai si è
parlato
di diritti dell'uomo nei secoli cristiani?» (5).
A
Bobbio osservai in quella occasione che Dio può essere
pensato
non solo giuridicamente come legislatore o come giudice,
ma
anche, in una visione personalistica e dialogica, come
ispiratore
e sostenitore intimo della vita morale propria
dell'uomo,
quindi come animatore di una morale dello spirito e
non
della legge solamente, perciò più autonoma che eteronoma, più
libera
che costretta, così come un buon educatore non impone
nulla
all'educando, ma promuove in lui le sue qualità migliori.
Si
può ancora ascoltare, a questo proposito, una pagina di
Pasternak,
nel Dottor Zivago: «Penso che se la belva che dorme
nell'uomo
si potesse fermare con una minaccia di pena (...)
l'emblema
supremo dell'umanità sarebbe un domatore da circo col
frustino,
e non un profeta che ha sacrificato se stesso. (...)
Per
secoli, non il bastone, ma una musica ha posto l'uomo al di
sopra
della bestia e l'ha portato in alto: una musica, l'irresi-
stibile
forza della verità disarmata, il potere d'attrazione
dell'esempio».
Ma
la verità di quello che afferma Bobbio (Dio giudice
perfettamente
efficace, più che legislatore) è detta anche da
Armido
Rizzi, filosofo e teologo, quando esprime ciò che Kant
vide
nel terzo postulato della ragion pratica, con queste parole:
«Soltanto
Dio può garantire infallibilmente l'unione di dovere e
felicità,
al di là della storia che li vede spesso sconnessi»
(6).
Proprio
il libro di Armido Rizzi appena citato è un'altra
voce
sul problema "etica laica-etica religiosa" (7).
Dopo
aver sostenuto una «reciprocità di etica e religione»,
Rizzi
conclude che «fondamento necessario della morale è Dio, non
la
religione», perché «se Dio è l'ipostatizzazione del principio
morale,
questo non può esistere al di fuori di lui, ma può
manifestarsi
senza il riconoscimento di quell'ipostatizzazione.
Più
che di morale atea, si dovrebbe parlare di morale
religiosamente
agnostica [e tale mi pare quella di Bobbio,
n.d.r.],
più che di morale senza Dio, si dovrebbe dire di una
morale
senza l'idea di Dio» (8).
Sulla
base di una fenomenologia della coscienza come facoltà
che
comprende e si apre al "è giusto", "è bene", ed
è esperienza
immediata
di questa trascendenza (9), Armido Rizzi constata «la
sua
[della coscienza morale] autonomia non soltanto da
presupposti
religiosi, ma anche da presupposti razionali».
«Questa
lettura fenomenologica della coscienza non è né
teologica
né secolare: non fonda il bene né sull'idea di Dio né
sull'idea
di uomo, ma lo delinea nella sua posizione
inconfondibile
di autofondazione. Perciò essa ci mette in grado
di
ridefinire la posizione sia della religione che della ragione
nei
confronti dell'etica. Dell'evento etico né l'una né l'altra
possono
essere momento fondativo; esse ne sono il momento
interpretativo,
ne sono le ermeneutiche. Abbiamo un'ermeneutica
religiosa
della coscienza, la quale ci dirà che essa è la voce di
Dio
(...). Ma abbiamo anche un'ermeneutica per la quale la
coscienza
è l'espressione più profonda della natura umana (...).
Nel
caso che due individui divergano nell'interpretare la
coscienza
morale, dicendo il primo che essa è parola di Dio (...)
e
dicendo invece l'altro che essa è la dimensione profonda di me
stesso
o della storia, la divergenza non porterà nessuno dei due
a
negare il nucleo di verità della coscienza dell'altro. Ben
diversamente
sarebbe se si trattasse di due fondazioni. Infatti
la
fondazione è necessaria all'evento stesso della coscienza,
alla
sua validità, mentre l'interpretazione (...) è come un
commento
al testo originario che è "la voce della coscienza"»
(10).
In
più luoghi dei suoi scritti e delle sue lezioni, Armido
Rizzi
esamina la parabola del buon samaritano (in Luca 10, 25-37)
come
narrazione emblematica dell'evento etico. Il contesto e la
cornice
del fatto narrato sono religiosi («Maestro, che cosa devo
fare
per avere la vita eterna?», v. 25), ma il fatto è totalmente
laico,
umano, anzi la parabola è polemica verso una religiosità
(quella
del sacerdote e del levita) che antepone il culto divino
alla
compassione attiva per la vittima dei violenti. Il
significato
salvifico che Gesù dà all'atto esemplare del
samaritano
(«Fà così e vivrai», v. 28; «Fà anche tu lo stesso»,
v.
37) non determina l'atto, non ne è il motivo.
Quell'uomo
buono, anche se eretico per gli ebrei, non scansa
il
ferito come hanno fatto gli altri, ne sente compassione, gli
si
avvicina, lo cura, lo prende a suo carico. Questa sequenza di
azioni
risponde alla domanda posta a Gesù: «E chi è il mio
prossimo?»
(v. 29). La risposta, se interpretiamo la parabola nel
suo
contesto e nella sua novità, penso che possiamo così
formularla:
«Il tuo prossimo è chi ti è lontano, chi non
appartiene
al tuo gruppo, famiglia, nazione, religione, ed ha
bisogno
di te, ti chiede di approssimarti a lui. Nel suo bisogno
ti
è prossimo. Tu, dunque, fatti prossimo a chi ha bisogno».
Gesù,
scrive Rizzi, «risponde negando il presupposto, e cioè che
la
legge etica sia l'amore al prossimo» nel senso di vicino, co-
appartenente,
conosciuto. «L'amore non è legame con il prossimo,
ma
è "farsi prossimo" a colui con il quale non ci sono
legami»
(11).
Non ci sono altri legami, potremmo aggiungere, che la
comune
natura umana bisognosa, la quale unisce attraverso tutte
le
separazioni, anche l'inimicizia. L'amore è vivere e attuare
questa
unità.
Questa
unità, movimento di allargamento della prossimità,
identificazione
con l'altro in quanto tale, è l'evento etico
originario;
non secondario, come in esecuzione di un comando o di
un
ragionamento (il che non esclude l'utilità pratica di
precetti,
esempi, pensieri che ci ricordino e ci conducano a
trovare
o ritrovare in noi stessi la sorgente dell'evento etico,
perché
la coscienza morale può essere addormentata o risvegliata,
perduta
oppure educata e sviluppata).
Il
samaritano sente scaturire in se stesso la com/passione,
la
passione insieme a quell'uomo sconosciuto, un intralcio sul
suo
cammino, ma mezzo morto, colpito dal male. Nel ferito, è la
propria
umanità che lo chiama vicino e lo impegna. Nel
samaritano,
il bene risponde al male. L'atto etico trascende l'io
di
quell'uomo, i suoi programmi, i limiti della sua appartenenza.
Il
samaritano obbedisce ad un assoluto "è giusto", non lo
elude
come
i due che camminarono sull'altro lato della strada. Si
lascia
colpire e deviare dalla pietà, passando accanto ad una
presenza
che tacitamente invoca, chiama.
In
questo appello, in questo superamento di sé, che, per
avvenire,
non richiede né una fede né una interpretazione
teologica,
appare tuttavia, nella lettura di fede dell'evento
etico
umano, l'appello di Dio, sicché la risposta attiva è
salvezza.
Il samaritano soccorre il ferito non per andare in
paradiso
(chissà se ci crede?), ma perché un assoluto in lui,
precedente
ad ogni denominazione e interpretazione, lo esige, in
risposta
all'appello assoluto che è il bisogno e il diritto alla
vita
dell'altro, chiunque esso sia. E' l'originaria "passione per
l'uomo".
La
quale - va però precisato (11 bis) - non è un sentimento,
un
gusto, che c'è o non c'è, ma una qualità umana essenziale che
può
essere sostenuta e sviluppata dall'educazione oppure
trascurata
e smarrita, fino ad isterilirsi, cadere in letargo,
nell'a-moralismo.
In tal caso l'umanità si oscura e si nega in
noi,
ma io credo senza mai poter essere uccisa del tutto, in
nessun
uomo, in nessun caso.
In
questa "passione" assoluta che conduce oltre a sé, anche
a
rischio di sé, la fede riconosce la presenza nell'uomo, in cui
tutto
è relativo e limitato, di un principio di vita superiore
che
lo solleva oltre le sue misure, i suoi limiti naturali.
Riconosce
lo spirito di Dio nell'uomo, il soffio immesso
nell'argilla
di Adamo, che l'uomo lo sappia o no, che ci pensi o
no.
«Dio è l'istanza suprema che chiama nel povero lungo la
strada
(...), amarlo con tutto il cuore e con tutte le forze è
servire
quel povero al di là di ogni umana prossimità. Se l'atto
del
samaritano è per la salvezza, è perché qui accade quell'amare
Dio
senza riserva che della salvezza è la condizione» (12).
Rizzi
osserva che il verbo che esprime la "compassione" del
samaritano,
nel punto centrale del racconto, è lo stesso verbo
che
esprime, poche pagine prima, nel vangelo di Luca, la reazione
di
Gesù di fronte al figlio morto della vedova di Nain; e che,
poche
pagine dopo, descriverà, nella parabola cosiddetta del
"figliol
prodigo", la reazione di Dio al ritorno del peccatore.
«L'evangelista
vuole insinuare che ciò che spinge il samaritano a
farsi
prossimo è la partecipazione dell'amore stesso di Dio
(...).
Così Dio non è soltanto colui che, presente nel povero,
sollecita
l'amore comandandolo; è ancora colui che, presente in
chi
vede il povero, comunica l'amore come principio del libero
gesto
di prossimità» (13).
Così,
la "passione per l'uomo" è santità, perché la santità
di
Dio è passione per l'uomo, e Dio anima e opera in chi
liberamente
ama l'altro uomo. L'atto buono non ha bisogno della
conoscenza
di Dio, della fede. Basta che sia fedele al nucleo
profondo
e alla dinamica aperta della nostra umanità, che ci
richiama
a diventare umani, nel riconoscimento e nella
compassione
reciproca e attiva.
Chi
ci comanda e ci ispira la compassione non è solo la
parola
esplicita di Dio, ma anzitutto e per tutti il "volto di
Altri"
(Levinas), quell'obbligo originario (Simone Weil) che
precede
ogni contratto sociale, ogni convenzione morale, ogni
formulazione
della morale in precetti. Ma l'atto buono rivela Dio
e
la sua santità nell'uomo. Chi conosce questa rivelazione ha
anche
questo motivo per impegnarsi, sperare, e giudicarsi sulla
via
del bene. Chi non la conosce ora, la riceverà nel giorno in
cui
chiederà al giudice: «Signore, quando mai ti vedemmo
affamato,
assetato, pellegrino, nudo, malato, carcerato e ti
demmo
soccorso?» (Matteo 25, 37-39), e gli sarà risposto: «Ogni
volta
che avete fatto queste cose a uno dei più piccoli di questi
miei
fratelli, l'avete fatto a me» (Matteo 25, 40).
L'atto
buono è "santo", non occorre che sia "religioso".
Perciò,
l'atto buono, nella misura della sua genuinità e
generosità,
testimonia la presenza della santità nel mondo. Non è
propagandista
di questa o quella religione, ma della santità che
può
vivere anche nell'uomo che non segue una determinata
religione
istituita.
Dunque,
santi senza Dio? chiedeva il Tarrou di Camus. Noi
che
crediamo in Dio mentre lo preghiamo di guarire la nostra
incredulità
(Marco 9,23), possiamo dire che dove c'è un po' di
santità,
dove c'è un po' di amore, là c'è Dio, anche nascosto e
ignorato.
Anzi, poiché la santità c'è, Dio c'è, il mondo non
è
abbandonato.
La
santità c'è, perché essa non è la vetta inaccessibile
degli
eroi, ma il seme nascosto nella terra e il lievito nella
pasta,
e noi, nonostante la tristezza (che a volte ci schiaccia
mortalmente)
per il male nostro e del mondo, tristezza che non ci
deve
dominare, possiamo pregare così: «Noi crediamo in te, perché
in
mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna
persiste
la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce» (14).
Aggiungiamo:
perché in mezzo alla malvagità persiste la bontà. Se
c'è
un argomento persuasivo - non "dimostrativo" -
dell'esistenza
e
in/sistenza di Dio, a me pare questo.
Note
(1)
Albert Camus, La Peste, Bompiani 1960, pp. 232-245.
(2)
Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Utet, Torino
1971.
Altre utili precisazioni in Dizionario critico di
filosofia,
a cura di André Lalande, Isedi, Milano 1971.
(3)
V. p. es. Concilio
Vaticano II, Costituzione dogmatica
sulla
Chiesa, n. 48.
(4)
N. Bobbio, Elogio della mitezza, cit, p. 181, 182, 171,
183,
184.
(5)
AA.VV. Voci laiche della ricerca morale, in Servitium,
Coscienza
e incoscienza dei diritti umani, n. 82, luglio-agosto
1992,
p.19.
(6)
Armido Rizzi, Crisi e ricostruzione della morale, Sei,
Torino
1992, p. 104.
(7)
A. Rizzi, op. cit., parte seconda, cap. 2, L'etica tra
religione
e laicità, pp.99-117.
(8)
A. Rizzi, op. cit., p. 105.
(9)
op. cit., p. 43-46. V. anche p. 54.
(10)
op. cit., p. 108, 109-110.
(11)
op. cit., p. 69.
(11
bis) Questa precisazione è molto chiara nel famoso testo
del
saggio confuciano Mencio (II,A,6), seconda metà del IV secolo
av.
C., che si può leggere in Pier Cesare Bori e Saverio
Marchignoli,
Per un percorso etico tra culturae, La Nuova Italia
Scientifica,
Roma 1996, pp. 55-56.
(12)
A. Rizzi, L'Europa e l'altro. Abbozzo di una teologia
europea
della liberazione, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991,
p.
82. Si vedano le pp. 77-85.
(13)
A. Rizzi, Crisi e ricostruzione della morale, cit., p.
83.
(14)Da
un libro di preghiera adottato in passato nella Comunità
monastica di Bose (Magnano, Vercelli). Preghiera originariamente di
Gandhi, in Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, 1965, p.
100.
4.
LA PASSIONE DI DON TONINO
Per
tratteggiare qualcosa della "passione per l'umanità" di
don
Tonino (passione-amore e passione-sofferenza), qualcosa che
ricordi
il suo spirito a chi meglio di me lo conosce, e lo
presenti
a chi, se c'è, lo conosce meno, sono stato in imbarazzo
se
attingere di più dalla vita o dagli scritti. Non c'è molta
differenza:
la sua vita è pubblica, è per il popolo, davanti al
popolo,
offerta al popolo; i suoi scritti sono pieni, palpitanti
della
sua vita: le sue righe sono vene vive in cui batte il suo
cuore,
con tutte le vive presenze di umanità e le vicende umane
personali
e generali che in esso prendono posto. Sceglierò quindi
qualcosa
dalla vita (guidato dalla biografia di Claudio Ragaini)
e
qualcosa dagli scritti (che nella raccolta critica e ordinata
in
corso di pubblicazione a Molfetta prendono nuova forza e
chiarezza).
Nel
1988, celebrandosi un anniversario (1) di Gaetano
Salvemini,
nativo di Molfetta, ne parla come di un «profeta
laico»,
sottolinea il rigore morale e gli impulsi religiosi della
sua
coscienza, dicendo: «Anche la cultura laica ha l'elenco
degnissimo
dei suoi santi» (2).
Nel
1986, sulle riserve ecclesiastiche e attacchi politici
al
primo appello "Beati i costruttori di pace", si
inserisce
Indro
Montanelli, allora direttore de Il Giornale, con un attacco
sciocco
e per di più basato su una circostanza inesistente,
contro
il vescovo Bettazzi, che aveva difeso l'obiezione di
coscienza
alle spese militari. Tonino Bello, da poco presidente
di
Pax Christi, difende il vescovo di Ivrea e il suo «magistero
che
affonda le sue radici sulle piaghe dei poveri». Montanelli
non
pubblica la lettera e gli risponde con un telegramma
sprezzante:
«Nostro giornale non est quaresimale» (3).
Il
crescente impegno di don Tonino per la pace, contro la
cultura
di guerra - che, insieme alla politica e all'industria di
guerra,
è l'effetto e il moltiplicatore di tutti i mali e i
dolori
umani - incontra sofferenze e consolazioni.
Dopo
una lettera di Pax Christi a Craxi presidente del
consiglio,
per criticare la politica militare e di riarmo, riceve
un
richiamo da Poletti, cardinale presidente della Cei (4). Dopo
la
cacciata di Alex Zanotelli da Nigrizia (maggio 1987), Tonino
Bello,
che ha da mesi su quella rivista una rubrica fissa, si
trova
isolato nella Cei: «I suoi rari interventi alle assemblee
plenarie
venivano accolti con sorrisi di compiacenza e mormorii
di
dissenso». Più di una volta è convocato in Vaticano (5).
Ma
gli scrive una lettera ardente un altro che brucia di
passione
per l'umanità e per i poveri, David Maria Turoldo
(6):
«Mi dicono che sei stato richiamato (...), che non è bene
parlare
troppo contro le armi (...). Ebbene: non solo ti sono
vicino,
ma oso perfino darti un consiglio: a maggior ragione
intervieni,
intervieni sempre di più; e insieme dì che sei stato
richiamato,
dillo pubblicamente, perché di questo hanno paura.
Sono
anche vili, come sappiamo (...). Per amore dei poveri e
della
verità; e cioè per amore della Chiesa e della pace, non
scoraggiarti,
caro fratello vescovo! Ti voglio dire una mia
intenzione
che rinnovo spesso nella preghiera: è questa, di
pregare
per i santi, perché non si scoraggino; perché almeno loro
riescano!
Se noi non ce la facciamo. David Maria Turoldo» (7).
Il
corsivo è mio, per sottolineare che padre Turoldo
riconosceva
un segno di santità nella passione del vescovo Tonino
Bello
per la pace.
Nell'Arena
di Verona, autunno 1989, diecimila convocati da
"Beati
i costruttori di pace" ascoltano don Tonino: «Sono interni
alla
nostra fede i discorsi sul disarmo, sulla smilitarizzazione
del
territorio, sulla lotta per il cambiamento dei modelli di
sviluppo
che provocano dipendenza, fame e miseria nel Sud del
mondo
e distruzione dell'ambiente naturale» (8). Quel momento di
"Arena
89" è preceduto e seguito, nelle chiese cristiane,
dall'assemblea
ecumenica di Basilea e da quella di Seul su "Pace,
giustizia,
salvaguardia del creato". Tonino Bello afferma che
questi
impegni per l'umanità e per il mondo sono interni alla
vita
di fede e perciò alla santità cristiana.
1990,
crisi del Golfo; 1991, Guerra del Golfo. Le speranze
dell'89,
anno delle più grandi rivoluzioni nonviolente della
storia
(9), sono spente dalla ostinazione dei "vincitori" della
Guerra
Fredda a rilegittimare la guerra, come criterio e metodo
di
soluzione dei conflitti, a difesa non tanto del diritto
internazionale
e dei popoli, spesso e largamente violato da molti
senza
risposta bellica, quanto del primato e degli interessi
materiali
dei potenti del mondo, come essi stessi affermeranno di
lì
a poco nei "nuovi modelli di difesa" che dichiarano a
chiare
lettere
tali fini e prendono esplicitamente a modello la Guerra
del
Golfo (10).
Tonino
Bello è in prima fila, con pena interiore, con mille
instancabili
iniziative, nell'impegno totale per la pace che fa
onore
il quel momento alla Chiesa, ma una cosa lo distingue: in
una
lettera ai parlamentari dell'inizio di gennaio 1991 prospetta
come
extrema ratio ciò che nessuna autorità morale, salvo Oscar
Romero,
ha detto, né allora né poi: la possibilità di «dover
esortare
direttamente i soldati, nel caso deprecabile di guerra,
a
riconsiderare secondo la propria coscienza l'enorme gravità
morale
dell'uso delle armi» (11).
Solitamente
e normalmente l'appello morale alla pace è
rivolto
alla buona volontà dei responsabili politici, dei
governanti,
non alle coscienze dei cittadini e dei soldati
chiamati
ad eseguire le politiche di guerra. Timore di
interferire
coi poteri economici e politici? Non c'è un uguale
timore
di entrare d'autorità nella vita intima e spesso difficile
delle
persone, con l'imporre obblighi di etica sessuale
dettagliatamente
definiti in tutto il loro peso. Sembra proprio
che
il magistero morale della chiesa sia più delicato coi poteri
forti
che con le persone deboli e alle prese con difficoltà a
volte
drammatiche, che pesano per lo più sulle donne.
Tonino
Bello pone il problema della guerra e della pace a
quell'istanza
suprema che è la coscienza personale, certo non
isolata
ma responsabilmente decisiva. Questo è eversivo. Craxi e
il
Giornale di Montanelli rispondono con l'irrisione e l'insulto.
Il
deputato repubblicano Gaetano Gorgoni, conterraneo di don
Tonino,
cita il Qohelet per dargli del pazzo. Ma Tonino Bello
ripete
in una intervista televisiva che se un pilota non può, in
coscienza,
bombardare i civili, deve avere il coraggio di
disertare.
Dell'ammiraglio Buracchia, privato del comando della
spedizione
navale italiana nel Golfo perché ha dichiarato che «la
guerra
si poteva evitare», dice con ammirazione: «Ha dato voce e
libertà
alla sua coscienza» (12).
Ma
il consiglio permanente della Cei, per bocca di Ruini,
prende
le distanze: «Le scelte politiche non ci competono». Così
altri
vescovi, come Biffi e Saldarini, dicono in sostanza: pace
sì,
pacifismo no. Questa posizione, oltre che una facile
scappatoia,
sembra vittima dell'errore di pensare il pacifismo
nell'unico
significato di rinuncia alla lotta giusta per viltà,
ma
questo senso della parola è superato dalla realtà dei
movimenti
per la pace attiva e giusta.
Anche
nell'episcopato pugliese Tonino Bello incontra
posizioni
differenti dalle sue. La maggiore amarezza gli viene
dagli
ambienti ufficiali della città, dalla Democrazia Cristiana,
da
alcuni settori del suo clero, da una parte del consiglio
pastorale,
che non capiscono né condividono le sue posizioni
radicali
contro la guerra e l'intervento italiano (13). «La cosa
che
più mi fa soffrire - commenta il vescovo Tonino - è di
vedermi
delegittimato nella mia funzione di pastore. Se un
vescovo
non può appellarsi alla coscienza, cosa gli resta?
Decidere
dei colori dei paramenti?» (14).
Un
documento di Pax Christi, intanto, ribadisce che le
obiezioni
«non sono disprezzo verso lo Stato e le sue
istituzioni,
ma espressione di un amore più grande e di un
servizio
fatto per l'uomo, specialmente per quelli che le
"patrie"
dimenticano» (15). Ecco interpretata la "passione" di
don
Tonino e di tanti: chi obietta alle soluzioni violente,
patisce
l'urto coi potenti per amore degli ultimi.
Intanto
compare la malattia, il cancro che frenerà e fermerà
infine
l'azione appassionata di Tonino Bello, almeno su questo
versante
della realtà, dove siamo noi ora. Viene la drammatica
immigrazione
degli albanesi, don Tonino si mobilita, con tutte le
associazioni
della diocesi organizza l'accoglienza di centinaia
di
profughi. Dopo l'ondata di agosto 1991 corre allo stadio di
Bari,
tra gli albanesi, dichiara e scrive la sua vergogna e
indignazione
per il trattamento usato: «Le persone non possono
essere
trattate come bestie. Prive di assistenza, lasciate nel
tanfo
delle feci che il profumo del mare non riusciva a
mascherare.
Mantenute a dieta con i panini lanciati a distanza,
come
si fa allo zoo (...). No, l'uomo, chiunque esso sia, quali
che
siano le sue colpe, merita ben altro rispetto» (16).
Ha
parole severe per la brutta "operazione Sardegna" con cui
lo
stato, con mezzi militari e con l'inganno, rastrella in tutta
Italia
e rimpatria con la forza questi profughi di «popoli alla
detriva».
Anche il sindaco di Bari critica l'operato del governo,
ma
il presidente Cossiga lo definisce «irresponsabile e cretino».
Il
ministro democristiano degli affari interni, Scotti, ritiene
di
potere scherzare e dice: «A peste, fame et Bello libera nos
Domine»
(antica preghiera che significa: Liberaci, Signore, dalla
peste,
dalla fame, dalla guerra) (17).
Il
6 febbraio del 1992 muore padre Turoldo, di cancro anche
lui,
e il 25 aprile padre Balducci, vittima di un incidente
stradale.
Il 23 maggio a Sarajevo, nella "strage del pane", 23
persone
sono uccise da una granata. Grandi dolori per tutti.
Turoldo
aveva scritto la prefazione al libro di don Tonino
Alla
finestra la speranza (18), con la forza abituale delle
verità
paradossali, quelle cioè che prendono di petto le opinioni
correnti:
«Non inoltrarti troppo su queste strade di poveri», gli
dice
con dolente ironia; gli parla della «tua passione di voler
essere
uomo e cristiano»; gli riconosce «il merito di avere
proclamato
che la comunione di Cristo col mondo dei poveri è
l'unico
spazio umano, lo spazio dove avviene la sua unica vera
incarnazione»
(19).
Nell'estate
del 1992 si accalora, per passione di giustizia,
nella
difesa dei pacifisti derisi, accusati, e insultati da
grossi
giornalisti: Miriam Mafai, Enzo Bettiza, Walter Veltroni,
Angelo
Panebianco (20). Dimostra la loro azione quotidiana, nella
formazione,
nelle analisi, nell'educazione alla nonviolenza
attiva,
non nei cortei o nelle televisioni, l'unica cosa che
certa
informazione sa vedere. E' in questa occasione, replicando
a
quei giornalisti, che Tonino Bello ci dà una delle più esatte e
vere
sentenze sulla guerra, su ogni guerra, quando afferma che «i
cannoni
non tuonano mai amore di patria, ma sillabano sempre in
lettere
di piombo la suprema ragione dell'oro» (21). Lavora
freneticamente,
viaggia per l'Italia, si affatica utilizzando
spesso
le ore della notte per ridurre le assenze da Molfetta.
Interpellato
da Sandro Magister de L'Espresso sull'apparente
contraddizione
di papa Wojtyla, pacifista nel '91 ed ora
propugnatore
della "ingerenza umanitaria" nella tragedia
jugoslava,
Tonino Bello non esita ad affermare che il diritto-
dovere
dell'ingerenza umanitaria si può praticare in diverse
modalità,
ad esempio quella nonviolenta (22). E lancia l'idea di
un
«cuscinetto umano», una interposizione nonviolenta di
centinaia
di migliaia di obiettori e volontari di pace. Albino
Bizzotto,
di "Beati i costruttori di pace", raccoglie l'idea, che
si
realizzerà poi nel dicembre 1992 in misura molto minore, ma
ugualmente
di grande significato per il futuro, insieme ad altre
analoghe
precedenti azioni di pace, ancora troppo ignorate dalla
cultura
storica (23).
Don
Tonino era malato, quando a dicembre i 500 andarono a
Sarajevo.
«Ci andrò, anche con le flebo addosso», disse al suo
medico
(24). E così fece. A Kiseljak e a Sarajevo dice parole,
raccolte
anche nelle videoregistrazioni fatte da alcuni presenti,
che
sono tra le sue più alte, più illuminate, più sofferte, ed
anche,
sì, più piene di gioia. Al ritorno, profetizza la
scomparsa
della guerra dalla storia (25), con la fede di chi vede
oltre
la durezza e l'oscurità delle cose.
Ormai
si prepara a morire. Un mese prima, confida a Claudio
Ragaini,
l'autore della biografia: «Io non faccio altro che
partecipare
alle sofferenze di Cristo, ma anche alle sofferenze
della
gente» (26). Ecco: santità come passione per l'uomo.
Volevo
raccogliere altre parole sue dagli scritti,
specialmente
dalle lettere quaresimali, ma sono già stato troppo
lungo.
Osserverò soltanto, in sintesi, che le sue omelie e le sue
lettere
al popolo somigliano a quelle di Oscar Arnulfo Romero,
che
il martirio e il popolo dei poveri hanno subito dichiarato
santo.
Ogni lettera di don Tonino presenta a noi una persona tra
le
più umili e sofferenti, una presenza viva, intera, con tutto
il
suo carico, con il suo nome proprio; una santa litania di
crocifissi
che egli abbraccia ed onora, che "eleva sugli altari",
direi,
perché in essi riconosce e indica il Signore.
Le
persone singole e i problemi di tutti. Nella lettera
pasquale
del 1987 parla anche del megapoligono di tiro che i
piani
militari vogliono piazzare «sulle nostre Murge». E avverte:
«Non
fate lo sbaglio di dire che il vostro vescovo sta facendo
politica»
(27): è la passione per il suo popolo, che è poi la
vera
e giusta politica, e sono anche, senza alcun integralismo,
«discorsi
interni alla nostra fede», come abbiamo sentito.
I
problemi di tutti e le persone singole. «Coraggio! Il
cristianesimo
è la religione dei nomi propri, non delle essenze.
Dei
volti concreti, non degli ectoplasmi. Del prossimo in carne
ed
ossa con cui confrontarsi, e non delle astrazioni
volontaristiche
con cui crogiolarsi» (28). Come Romero, le cui
omelie
erano la memoria nominativa, davanti a Dio, delle vittime
quotidiane
del suo popolo.
Tonino
Bello ricorda Romero in una grande omelia,
pronunciata
nella basilica dei Santi Apostoli, a Roma, il 23
marzo
1987, che termina con una lunga preghiera al santo vescovo
dei
poveri. Involontariamente, parlando di Romero, ci dà un
ritratto
del proprio spirito di servizio. Come Romero, don Tonino
è
«vescovo fatto popolo». Cita parole di Romero, che sono anche
pensiero
suo, come abbiamo già sentito: «I poveri sono quelli che
ci
dicono che cos'è la polis, la città, e che cosa significa per
la
chiesa vivere realmente nel mondo. Tutto questo non solo non
ci
allontana dalla nostra fede, ma ci rimanda al mondo dei poveri
come
al nostro vero posto!». Prega Romero che gli dia una mano
«perché
possiamo coraggiosamente incarnare [la parola di Dio]
nella
cronaca, nella nostra piccola cronaca personale e
comunitaria,
e produca così storia di salvezza» (29).
+
--- +
All'inizio
di questa relazione ha parlato la ragazza della
rosa.
Alla fine deve parlare il barbiere di don Tonino: «Io ero
abituato,
col vescovo precedente, che mi chiamava il segretario
in
curia per il mio servizio. Lui invece arrivava in negozio come
uno
qualunque. I clienti si alzavano in piedi, volevano che
passasse
avanti. No, no, non c'era verso, aspettava il suo turno
e
nel frattempo il mio negozio si riempiva di gente, lui aveva
una
parola per tutti» (30).
Anche
per noi, qui, oggi ha avuto una parola, io credo.
Note
(1)
Non il 15° anniversario, come scrive Ragaini, essendo
Salvemini
morto nel 1957.
(2)
Claudio Ragaini, Don Tonino, fratello vescovo, Ed.
Paoline,
Milano 1994, p. 80.
(3)
C. Ragaini, op. cit., p. 94-95.
(4)
C. Ragaini, op. cit., p. 99-100.
(5)
C. Ragaini, op. cit., p. 103.
(6)
Ho provato a descrivere la passione di Turoldo, da lui
stesso
in mille toni cantata e gridata, in Rocca 1.3.1992.
(7)
C. Ragaini, op. cit., p. 104.
(8)
C. Ragaini, op. cit., p. 114.
(9)
Si veda il libro più documentato su questo punto:
Giovanni
Salio, Il potere della nonviolenza, Ed. Gruppo Abele,
Torino
1995.
(10)
Per la critica dei "nuovi modelli di difesa"
statunitense,
tedesco e italiano mi limito qui ad indicare il
libro,
pensato da Ernesto Balducci, di U. Allegretti, M. Dinucci,
D.
Gallo, La strategia dell'impero, Ed. Cultura della Pace,
Fiesole
1992, e il più breve degli articoli da me scritti
aull'argomento,
Difendere che cosa? e come?, in Rocca, 1.12.1994,
p.
47.
(11)
C. Ragaini, op. cit., p. 116.
(12)
C. Ragaini, op. cit., pp. 116, 117, 120, 121.
(13)
C. Ragaini, op. cit., p. 122, 123, 124, 125.
(14)
C. Ragaini, op. cit., p. 126.
(15)
C. Ragaini, op. cit., p. 122-123.
(16)
C. Ragaini, op. cit., p. 131, 132.
(17)
C. Ragaini, op. cit., p. 133-134.
(18)
A. Bello, Alla finestra la speranza, Ed. San Paolo,
Cinisello
Balsamo 1988.
(19)
A. Bello, op. cit., Prefazione di David Maria Turoldo,
pp.
8, 9,10.
(20)
C. Ragaini, op. cit., p. 144, 147.
(21)
C. Ragaini, op. cit., p. 146.
(22)
Sull'attenzione e informazione di Tonino Bello riguardo
alla
cultura, metodi, esperienze di difesa nonviolenta, si veda
la
nota 10 alla seconda parte di questa relazione.
(23)
Per una bibliografia, ancora parziale e in continuo
aggiornamento,
dei casi storici di difesa senza guerra, posso
indicare
il paragrafo 14 del mio saggio Possibilità del
pacifismo,
apparso su Testimonianze, n. 376, giugno-luglio 1995,
pp.
7-26.
(24)
C. Ragaini, op. cit., p. 148.
(25)
C. Ragaini, op. cit., p. 169.
(26)
C. Ragaini, op. cit., p. 176.
(27)
Scritti di Mons. Antonio Bello (d'ora in poi Scr.
A.B.),
Mezzina, Molfetta 1993, vol 2, p. 310 e 305.
(28)
Scr. A.B., cit. p. 301.
(29)
Scr. A.B., cit. p. 162. V. tutta l'omelia alle pp. 157-
164.
(30)
Gianni Amaini, Un addio a don Tonino, in Avvenire,
29.4.1993,
p. 20.
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