Cristiani nonviolenti oggi (2005)
Relazione di Enrico Peyretti, Pinerolo 28 gennaio 2005
(pubblicato in Roghi della fede. Verso una riconciliazione delle memorie, pp. 129-149, volume a cura di Giuseppe Platone, Ed. Claudiana, Torino 2008, pp. 224, € 17,00; atti del convegno tenutosi a Pinerolo il 28 gennaio 2005, in occasione dell’inaugurazione del monumento dello scultore Gerald Brandstötter in memoria delle vittime della violenza e intolleranza religiosa e civile, eretto insieme dalla chiesa cattolica e valdese, in collaborazione tra la città di Pinerolo e la città austriaca di Steyr, sede di una strage di valdesi nel 1397; scritti di Giuseppe Platone, Paolo Ricca, Ermis Segatti, Carlo Papini, Grado Giovanni Merlo, Peter Segl, Daniel Heinz, Adriano Prosperi, Alberto Moshe Somekh, Rodolfo Venditti, Enrico Peyretti, Alberto Taccia, Comitato centrale del Consiglio ecumenico delle chiese, Hans-Ruedi Gerber, Paolo Ribet, Marcella Gay, Friedrich Rössler, Pier Giorgio Debernardi, Alberto Barbero, David Fortenlechner, Mario Marchiando Pacchiola, Hans-Jörg Kaiser, Markus Bader)
* * *
1
– Più che vantare una grande presenza nella nonviolenza (cultura e
azione nonviolente) i cristiani, noi cristiani, dobbiamo ancora
confessare una assenza, ed anzi storiche colpe di violenza.
2
– E persino oggi, nell’attualità più presente e pesante, ci
sono persone, centri di potere militare, economico, politico, che,
mentre esercitano una pluriforme violenza, che essi stessi
definiscono “infinita”, senza termine temporale e spaziale
visibile, la giustificano e, di più, la consacrano facendone
risalire al Dio di Gesù Cristo il riferimento, l’ispirazione
messianica e la funzione salvatrice.
3
– Ci sono anche altri cristiani, dagli ultimi papi a una quantità
di chiese, di movimenti e di persone, che sempre più chiaramente
individuano nella nonviolenza attiva la missione evangelica entro le
vicende storiche della famiglia umana, missione di annunciare e
praticare la pace e la giustizia nelle relazioni tanto tra le persone
quanto tra i grandi gruppi umani, come profezia della piena salvezza
finale.
4
– Sempre più chiaramente questi cristiani si persuadono che la
pace non è una stagione fortunata, non è la piatta assenza di
conflitti, differenze, tensioni, ma piuttosto la loro gestione
costruttiva e positiva anziché negativa e distruttiva. E si
persuadono che la nonviolenza non è solo l’astensione
dall’offendere, o l’elusione dei conflitti, o il loro
occultamento per amor di quiete, ma è lotta per la giustizia con i
soli mezzi della giustizia, proprio là dove la giustizia è offesa,
dentro i conflitti, contro le violenze. Abbiamo sottoscritto nel
2001, come chiese d’Europa, la Charta Oecumenica che nel n. 8 dice:
«Ci impegniamo per l’assoluta eguaglianza di valore di ogni essere
umano (…) e per un ordine pacifico fondato sulla soluzione
nonviolenta dei conflitti».
5
– La politica è pace1.
È l’arte del convivere nella differenza e nei conflitti naturali e
necessari, gestiti come conflitti vitali e mai mortali, nella
giustizia e mai nel dominio. La pace politica, e cosmopolitica, è la
nonviolenza attiva, positiva, politica, radicata nella spiritualità
che riconosce in ogni volto umano, anche nell’avversario e nel
nemico, una immagine di Dio, per quanto possa essere deformata, ma
rigenerabile. La politica, anche nelle istituzioni democratiche, che
ammette la guerra e le altre violenze fra i suoi mezzi d’azione,
nega il proprio senso umano.
6
– La nonviolenza è la forma laica, storica, dell’amore dei
nemici, che Gesù ha potuto chiederci e comandarci perché lo ha
praticato e ce lo ha reso possibile dandoci la forza del suo Spirito.
L’amore dei nemici è forse il più grande segno della presenza di
Dio nella storia umana, della vita che risorge contro le forze della
morte.
7
– Chi è nonviolento? Per usare i termini di Aldo Capitini, nessuno
è pienamente nonviolento, ma siamo persuasi, cercatori, amici della
nonviolenza. Io dico sempre di me: sono nonviolento, cercatore della
nonviolenza, perché so di essere violento. I nonviolenti, in questo
senso e in questo limite, cercano l’amore attivo per i nemici, il
ricupero alla comune nostra umanità di chi la nega con la violenza;
cercano in primo luogo non di vincere, ma di con-vincere, e solo in
secondo luogo oppongono la forza nonviolenta, che vuole rendere
all’avversario più costosa la violenza che il compromesso. Essi
cercano questo amore per i nemici anche quando non sono cristiani
(come lo stesso Capitini, “libero religioso”, non cristiano).
Pensiamo che lo spirito evangelico, l’amore operoso fino ai nemici,
sia diffuso sulla terra e effuso nei cuori ben al di là delle
chiese, cioè di quanti in gratitudine riconoscono nella persona di
Gesù la presenza piena e diretta di Dio tra noi.
8
– Ci sono nonviolenti che non sono cristiani, ma hanno uno spirito
evangelico; ci sono cristiani che sono nonviolenti, perché ricevono
da Gesù, prima che dalle lezioni della storia, il dovere e la
speranza di relazioni umane sempre meno violente e sempre più
giuste; e ci sono anche cristiani che sono violenti in nome di Dio.
9
– Movimenti cristiani nonviolenti – non solo genericamente
pacifisti – sono presenti su scala internazionale e nazionale.
Il
Mir, Movimento Internazionale della Riconciliazione (International
Fellowship of Reconciliation, IFOR), interconfessionale,
numericamente piccolo, ma con una grande tradizione che risale
all’incontro tra cristiani tedeschi e francesi durante la prima
guerra mondiale, per vincere quella inimicizia, conta otto premi
Nobel per la pace tra i suoi membri.
Pax
Christi, movimento internazionale, cattolico, presieduto da un
vescovo (in Italia, tra gli altri, successivamente Luigi Bettazzi e
Tonino Bello), sviluppa attività educativa, informativa, con chiara
capacità di indipendente critica politica.
Inoltre,
una quantità di associazioni, gruppi più o meno stabili e
consistenti, ma sparsi dappertutto, che vanno dal piccolo gruppo
parrocchiale a collaborazioni ecumeniche e interreligiose, fino, per
esempio, alla Comunità Papa Giovanni, di Rimini, capace di
qualificate presenze personali di solidarietà e di pace anche nei
luoghi di più acuto conflitto, come la Palestina. Molti missionari,
a contatto diretto con la realtà umana dei popoli impoveriti e
violentati, si preparano e si impegnano nelle loro lotte nonviolente
per la giustizia, oltre che svolgere, assai meglio di tutti i media
più potenti e diffusi, un servizio di informazione veritiera su
quelle realtà di sofferenza.
10
– Nei movimenti nonviolenti laici, i cristiani sono molti, insieme
a non cristiani e non credenti.
Il
Movimento Nonviolento (sezione della War Resisters International) in
Italia non ha una ispirazione religiosa se non, per molti suoi
aderenti, ma non tutti, la “libera religione” del fondatore Aldo
Capitini: una spiritualità di grande e profondo valore, ma distinta
e anche polemica verso il cristianesimo storico e specialmente verso
il cattolicesimo italiano. Ci sono anche nonviolenti che si
professano atei. Diversi altri simpatizzano o aderiscono al
buddhismo2.
11
– I maggiori maestri della nonviolenza contemporanea sono cristiani
e non cristiani.
Non
è cristiano Gandhi, nello stesso tempo fedele alla sua tradizione
indù e intimamente aperto alla sostanza preziosa di tutte le
religioni; non è cristiano, ma è colui che più di tutti ha
suscitato, nelle tradizioni cristiane più numerose (altre,
minoritarie, sono rimaste nonviolente), la riscoperta recente, e
tardiva, della nonviolenza evangelica originaria, del Discorso della
Montagna, non solo spirituale e privata, ma anche politica e storica.
Un
cristiano singolare è Tolstoj: ribelle alla sua chiesa ortodossa
russa perché cedevole verso i poteri violenti e guerreschi, fino a
benedirli (come del resto tante altre chiese), perciò scomunicato,
cercatore di un cristianesimo nuovo, fu uno degli ispiratori di
Gandhi.
Indiscutibilmente
cristiano è Martin Luther King, che ha attinto dall’evangelo la
forza per animare masse di segregati a conquistare il loro diritto e
dignità senza fare alcuna violenza, e per denunciare con libertà
profetica la politica bellicosa del suo paese.
Badshah
Khan, detto “il Gandhi musulmano”, contemporaneo e collaboratore
di Gandhi, attinse proprio nell’islam, che i denigratori
interessati identificano con la violenza di alcuni musulmani,
l’energia spirituale per raccogliere tra i suoi Pathan della
Frontiera, popolazione montanara di tradizione violenta, un “esercito
nonviolento” di centomila “servi di Dio”, resistenti al dominio
inglese in quella regione particolarmente duro, con la sola forza
umana dell’unità e della dignità3.
Ci
sono maestri, studiosi, animatori, leaders di lotte nonviolente che
manifestano una ispirazione religiosa e altri che non ne manifestano
alcuna.
Gandhi
afferma che il satyagrahi (il lottatore nonviolento) «deve avere una
profonda fede in Dio, poiché Egli è il suo unico sostegno»4.
Ma Gandhi non pensa Dio solo secondo una determinata confessione
religiosa, per lui la Verità che ci trascende è Dio, l’unità
profonda e il valore di tutta la realtà, specialmente di tutti i
viventi, è Dio. Chi ama e rispetta e non fa violenza agli esseri
rispetta, ama e crede in Dio.
12
– Riprendendo l’osservazione iniziale, sulla nonviolenza i
cristiani sono divisi, nel passato e nel presente, almeno su tre
posizioni:
1)
Quelli (ministri nella loro chiesa, oppure laici) che leggono nei
testi sacri e nella tradizione l’immagine di un Dio giustiziere e
punitore, di cui pretendono e presumono di attuare il giudizio nella
storia, individuando e sradicando l’errore e il male con ogni
mezzo: l’autorità dottrinale, il potere politico e giudiziario, la
diplomazia, la pressione economica, la propaganda e, se occorre,
anche mediante una violenza bellica che ritengono, per questo motivo,
“giustificata” e anche meritoria, e osano addirittura rivestire
di valore messianico. Lo abbiamo visto ai nostri giorni, e non solo
nel passato. Ma scrive Jean-Marie Muller: «Quando la religione ha
benedetto la violenza, la violenza non è diventata sacra, ma la
religione è diventata sacrilega»5.
2)
Quelli che sentono nell’appello evangelico e nello Spirito di
Cristo la chiamata all’amore universale, da realizzare anche nella
storia, con la gestione positiva e costruttiva dei conflitti,
consapevoli della presenza del male, ma impegnati a contrapporvisi
non con mezzi uguali o simili, ma con spirito, mezzi e fini
profondamente alternativi e creativi.
3)
Quelli che rimangono incerti, e sono la massima parte dei cristiani:
da una parte non approvano la violenza, la condannano in linea di
principio; approvano e sostengono l’azione mite e giusta; ma,
dall’altra parte, poiché, per la loro sensibilità religiosa e
morale, hanno una consapevolezza dolorosa del male del mondo e lo
condannano, si rassegnano ad accettare che, nei conflitti acuti,
mezzi violenti siano da opporre ad azioni violente, e che ciò possa
e debba essere tristemente giustificato, a causa dell’imperfezione
del mondo, come inevitabile e necessario. Forse è qui il maggiore
problema nel rapporto tra cristiani e nonviolenza. A me pare di
vedervi una debolezza di giudizio e di azione, causata dal turbamento
del male, affrontato con una tiepidezza di spirito, né caldo
(appassionato, innovatore) né freddo (cinico, disperato)6.
In realtà, davanti allo scandalo doloroso del male, la reazione
forte e positiva è proprio quella che troviamo nei maestri della
nonviolenza attiva, Gandhi, King, Capitini: né ottimismo ingenuo,
né, tanto meno, rassegnazione, e neppure imitazione dei mezzi per
opporvisi, ma costruttiva indignazione sofferta, che, come è stato
detto del grande spirito di di Etty Hillesum, «trasforma il dolore
in forza»7.
«La nonviolenza non è in Capitini uno sguardo che forza la realtà
ad essere buona, ma è la forza con cui il dolore del mondo viene
attraversato senza essere razionalizzato, per scoprire che proprio
l’impossibilità di spiegarlo ci dice che altrove sono le parole
con cui rintracciare la nostra origine»8.
13
– I cristiani del secondo tipo (se vale questo schema), cioè i
cristiani persuasi e impegnati nella nonviolenza attiva, che scelgono
i metodi di lotta politica nonviolenta, fanno questa scelta per
ragioni razionali e morali, per una più effettiva e reale giustizia
nei rapporti umani, per non collaborare ma ridurre la mole di
sofferenza che i metodi violenti scaricano addosso all’umanità più
povera. Ma fanno questa scelta anche per ragioni precisamente
cristiane, derivanti dalla fede cristiana. È stato detto bene: «Oggi
più che mai la chiesa gioca la sua fedeltà al Signore e misura la
capacità di testimoniare l’Evangelo e di rispondere ai drammi
della storia nella compagnia degli uomini, proprio sulla dottrina e
sulla prassi della pace. Questo significa che la pace è dono di Dio
e compito profetico dei cristiani nello stesso tempo»9.
14
- Sia Gandhi sia Capitini collegano religione e politica, senza paura
degli equivoci tipici della storia europea e italiana, derivanti dal
fatto che qui la religione appare principalmente come una istituzione
sociale, con una sua potenza, in competizione o collusione con
l'istituzione politica, lo stato. Ma se religione è persuasione e
movimento intimo, non intimistico, allora essa rifluisce in frutti di
dedizione al «tu-tutti» (Capitini) nella vita e nell'azione della
comunità politica, senza rivalità istituzionali.
Leggiamo
Gandhi: «Per vedere faccia a faccia l’universale e onnipresente
Spirito della Verità si deve essere in grado di amare il più infimo
degli esseri creati come se stessi. E un uomo che aspira a ciò non
può permettersi di estraniarsi da nessun campo di attività umane. È
per questo che la mia devozione alla Verità mi ha condotto alla
politica; e posso dire senza alcuna esitazione, anche se con assoluta
umiltà, che coloro che affermano che la religione non ha nulla a che
fare con la politica non sanno che cosa significa religione»10.
Leggiamo
Capitini: «Per essere veramente religiosi bisogna passare per la
vita pubblica. Si può anche essere stiliti o eremiti per riordinare
la propria vita interiore, ma poi bisogna fare vita pubblica, e solo
su questa sorge la vita religiosa che porta aperture e aggiunta»11.
Nella
concezione di Capitini la vita pubblica non è soltanto, e non è per
lui personalmente, politica nelle istituzioni del potere, bensì
partecipazione di tutti, dal basso, a costruire tutti insieme
l'orientamento generale, attraverso il "potere di tutti",
là dove i valori ideali e morali possono influire meglio nelle
scelte politiche. Si sa che l'opposizione di Capitini al fascismo fu
opposizione religiosa, come egli dichiara e ricorda più volte.
Commemorando a Torino il grande vescovo brasiliano Helder Camara,
morto il 28 agosto 1999, Ermis Segatti osservava che l'Europa ha
vissuto grandi istanze di libertà, ma senza coniugarle con
l'ispirazione religiosa, come invece è avvenuto nell'America Latina.
Ecco un altro sintomo, dal mondo extra-europeo (latino-americano
questo, asiatico in Gandhi), di un rapporto tra religione e politica
nel quale Capitini ha, tra noi, un ruolo originale.
15
– Alberto Melloni12
pone la questione della pace – di «una sintesi sulla pace» -
nella lista d’attesa di un futuro concilio. Egli osserva che, nel
Novecento, i papi e i cattolici sono passati dal neutralismo, senza
mettere in discussione la teoria della guerra giusta, alla mediazione
(fallimentare), ad una lettura teologica e profetica della pace, con
Papa Giovanni e la Pacem
in terris,
1963, più chiara di quella del Concilio Vaticano II, fino alla
«irruzione della nonviolenza come chiave di soluzione adottata a
livello di massa dai cattolici e non solo da loro» (e qui cita M. L.
King e Desmond Tutu). Sulle “nuove guerre” a cavallo del
millennio, il papa e molti capi di chiese hanno dimostrato che
«l’impegno cristiano per “sfilare” dai contrasti militari ogni
motivazione religiosa è stato inflessibile». Io aggiungerei che in
questo innegabile forte impegno ci sono state delle oscillazioni,
almeno nel papa e in alcune posizioni cattoliche,
nell’in-giustificare la guerra13.
Melloni osserva che la chiesa (cattolica, e non solo) ha resistito
bene al «tentativo osceno» di «usarla come collante di un’identità
occidentale», prevenendo, fino dal 1986, con la preghiera
interreligiosa di Assisi, la guerra di religione e di civiltà contro
l’Islam: «Se oggi la civiltà occidentale non è disposta a
entrare nella spirale suicidaria della sicurezza a costo della vita,
se non è disposta al sacrificio delle proprie libertà in cambio di
una pace che non c’è, lo deve anche alla chiesa». Il
cristianesimo «ha già salvato l’Occidente» col suo «essere più
mediterraneo e più mondiale di ogni altro segmento della cultura».
Per dimostrarsi oggi non solo pacifica e pacifista, ma anche
nonviolenta, la chiesa cattolica – continua Melloni – dovrebbe
non solo chiedere perdono (mea
culpa
del papa nella quaresima del 2000, anno giubilare, per le colpe di
«taluni figli della chiesa»), ma concedere perdono: «A chi guardi
e viva la vita cristiana oggi sembra evidente che la chiesa non
perdona». Da qui Melloni trae il titolo del suo libro: chiesa madre
e matrigna. «In una chiesa senza perdono l’immagine di Gesù tende
necessariamente a scivolare in una caricatura dolorista, a
puntellarsi col senso del magico». «Il Gesù del Vangelo (…) è
un Gesù che perdona. Perdona e cammina»14.
E
noi cristiani perdoniamo? Abbiamo parole e azioni evangeliche, ci
differenziamo abbastanza dalla vendetta bellica con cui questo mondo
ricco e “cristiano” decide di rispondere agli attacchi al proprio
dominio, esercitato con violenza sistematica dalle più forti
istituzioni economiche e politiche della nostra parte di umanità,
minoritaria e proprietaria, che vanta una superiore civiltà con
radici cristiane? Siamo capaci di costruire un dialogo nella
giustizia, di domandare perdono del dominio, di immaginare la
riconciliazione che non elude il male ma lo combatte sostituendolo
attivamente con il bene?
16
– L’impegno serio per la pace positiva – non solo assenza di
guerra e di violenza diretta, ma assenza anche di violenza
strutturale – non è il semplice pacifismo, ma la coerente
nonviolenza. Il pacifismo, quando davvero ripudia il metodo della
guerra, anche la propria e non solo quella altrui, è un ottimo
impegno. Ma la guerra è soltanto la più vistosa delle violenze, la
più facilmente ripugnante. Le violenze più profonde, più gravi,
più continue, più accettate o subite, più facilmente giustificate,
più radicate, sono le violenze strutturali, stabilite nelle
economie, nelle leggi e nelle tradizioni, e – ancor più – sono
le violenze culturali, insediate nelle culture, nelle filosofie,
anche nelle religioni. La nonviolenza è più seria e radicale del
pacifismo perché combatte, proponendosi come alternativa
antropologica, più ancora che la violenza della guerra, le violenze
strutturali e culturali, che sono radice e giustificazione della
violenza diretta.
La
nonviolenza è una politica, non solo una morale personale; ma, di
più, è una cultura e anche una filosofia, alternativa alle
filosofie violente, ed è una spiritualità. Come ha scritto Raimon
Panikkar, «Il compito della filosofia nel momento attuale (…) è
disarmare la ragione armata»15.
17
– Vedo questi passi progressivi da percorrere nel cammino per
entrare nella nonviolenza:
1)
A-himsa, cioè non nuocere, in-nocuità. È la conquista del
controllo e padronanza sui miei impulsi violenti, attraverso la
crescita della coscienza della inviolabilità della persona, del
volto, di ogni essere, di ogni bene della vita.
2)
In-dipendenza dalla violenza che vedo dispiegata: anzitutto che non
mi affascini morbosamente legandomi al suo servizio; poi che non mi
attiri nelle sue spire ipnotizzandomi e addormentandomi fino a
credere di potere e dovere contrastarla soltanto con altra violenza,
e così moltiplicarla; infine che non mi forzi a rassegnarmi
disperatamente alla sua presenza ineliminabile. Che l’indignazione
e la giusta collera non cada nel gioco imposto dalla violenza, ma
valga ad estrarre dal profondo dello spirito energia, volontà,
costanza, resistenza e inventiva.
Questa
in-dipendenza, emancipazione interiore e culturale dalla pressione
intossicante della violenza, è bene espressa dal termine tedesco per
dire nonviolenza: Gewaltfreiheit, libertà dalla violenza.
3)
Lotta: la nonviolenza è lotta, è l’opposto della purezza ipocrita
paga del tenersi fuori, fuggendo il rischio del conflitto. È ripudio
della mia violenza, ma è ripudio e contrasto attivo anche della
violenza altrui, e dei sistemi violenti.
Senza
giudizio totale sul mistero di ogni persona, è giudizio su azioni e
situazioni. L’arma della lotta nonviolenta è la non-collaborazione
al male e all’ingiustizia, con la disobbedienza civile organizzata,
accettandone le conseguenze fino alla sofferenza, che Gandhi, contro
le armi disumane, definisce da qualche parte «l’arma umana», e
della quale dice: «L’appello della ragione è rivolta al cervello,
ma il cuore si raggiunge solo attraverso la sofferenza»16.
È
lotta coi mezzi nonviolenti, coi mezzi giusti per un fine giusto,
mezzi e risultato legati tra loro da un vincolo indissolubile, come
il seme e l’albero17.
L’opposizione
alla violenza, se non ottiene di farla cessare con la resistenza e la
disobbedienza, passa alla costrizione nonviolenta, che non è una
contraddizione, ma consiste nel mettere l’avversario nella
condizione di trovare il compromesso meno costoso e più conveniente
del continuare nella sua pretesa di imporsi.
La
lotta nonviolenta richiede coraggio anche fisico, la capacità di
patire – non subire! – perciò ha bisogno di essere il più
possibile non eroismo solitario, ma azione concertata, perciò
politica. Può includere l’illegalità, e questa non è di per sé
violenza, come vorrebbe far apparire chi criminalizza la critica (le
armi della critica), posizione pari e contraria a quella di chi usa
il crimine come critica (la critica delle armi). Quando una legge o
un ordine non dà forza al debole ma sanziona il sopruso dei forti18,
devono essere cambiati, oppure disobbediti apertamente, per obbedire
alla coscienza, accettando le conseguenze.
L’obiezione
morale alla legge non inficia il metodo democratico – della legge
che nasce dalla maggioranza – ma ne evidenzia la perfettibilità e
congiunge il presente della legge, rispettata mentre è disobbedita
(come Socrate, Thomas More, Gandhi), con il futuro della profezia,
con la quale alcuni, per ora minoritari, anticipano nell’attualità
dell’oggi, a loro spese, valori non ancora generalmente diffusi19.
È il problema del diritto di resistenza, escluso dalla nostra
Costituzione, nell’ipotesi che la partecipazione democratica
permetta a tutti di contribuire a leggi giuste, problema accettabile
in dottrina, ma, secondo i padri costituenti, forse insolubile nel
diritto positivo20.
Ma «oggi il problema torna alla ribalta nel quadro della democrazia:
se essa si fonda su un insieme di valori (riassunti nei diritti
dell’uomo), ogni decisione che violi gravemente uno di tali valori,
anche se presa dalla maggioranza dei cittadini, deve essere
combattuta in nome della democrazia stessa»21.
In
uno scritto di grande interesse di Andrea Cozzo sulla lotta
nonviolenta alla mafia, nel suo riferimento al giudice Falcone, che
trattava e interrogava i collaboratori di giustizia con pieno
rispetto della loro coscienza personale e la valorizzazione degli
elementi positivi della loro cultura, trovo questa considerazione:
«Proprio il senso dell'onore può essere importante per permettere
una riformulazione del principio, che non è nonviolento, della
legalità in quello, che è nonviolento, della responsabilità, la
quale riformulazione evita la trappola del concetto di obbedienza
all'autorità - legale o mafiosa, dal punto di vista della
maturazione critica e spirituale non e' molto differente - per
sancire il diritto alla disubbidienza civile»22.
Sia
che la legislazione positiva punisca, sia che legalizzi (come era per
i chiamati al servizio militare obbligatorio, come è per i sanitari
nell’interruzione della gravidanza) l’eccezione della coscienza
alla legge, essa riconosce, per contrasto o per compromesso, il fatto
e diritto della coscienza come primo e ultimo criterio morale, pur
attraverso la “reciprocità” (Bernhard Haering), la comunicazione
e il dialogo delle singole coscienze. L’animo cristiano, che crede
nello Spirito effuso nei cuori e nella «luce che illumina ogni uomo»
(Giovanni 1,9), non può non essere grandemente sensibile a questa
feconda dialettica.
4)
Testimonianza è il quarto passo o gradino del cammino. L’azione
nonviolenta può riuscire o fallire. Gandhi dice che non fallisce
mai. Come può dir questo? Anche nel fallimento pratico immediato,
l’azione giusta nei mezzi e nel fine ottiene infallibilmente due
risultati positivi, immancabili:
a)
non aggiunge male al male, dolore a dolore, offesa ad offesa,
violenza a violenza;
b)
lascia una testimonianza. Testimone è colui che in un dibattito, in
un processo per accertare i fatti, porta notizia di un fatto finora
ignoto. La lotta per una maggiore giustizia coi soli mezzi giusti
introduce la visione di un obiettivo e di un metodo che, anche se non
si stabiliscono oggi nella realtà effettiva, si annunciano davanti
ad essa come possibili, desiderabili, necessari, validi. La u-topia è
il non-ancora-reale. Persino quando il lottatore nonviolento è
ucciso, anche quando è martire nel senso corrente – sconfitto,
eliminato in quanto profeta disarmato – egli è martire nel senso
originario, cioè testimone, apportatore di novità, creatore di
attiva speranza, apritore di cammini. Infatti, egli resta nel tempo
più presente e operante di chi lo elimina: Gesù è più presente e
operante di Pilato e di Caifa, Martin Luther King è oggi più attivo
del suo assassino, Gandhi guida un movimento mondiale mentre il
fanatico che lo uccise è immobile e dimenticato. «La testa di
Giovanni Battista grida più forte tagliata, sul piatto, che sul suo
collo» (Primo Mazzolari).
È
vero che la nonviolenza, l’azione per la giustizia, non è mai
sufficiente ed è sempre in ritardo, ma nello stesso momento è vero
che non è mai inutile, che non fallisce mai nel tempo ampio, ma si
afferma contro e più della stessa forza che, temporaneamente, la
stronca. Se i cristiani, che affidano la vita e ripongono la speranza
nel Grande Sconfitto, non vedessero questo e non agissero nella
storia con questa fiducia, ma dovessero confidare nei metodi
sbrigativi ed eliminatori della violenza, che vuol bruciare i tempi,
strappare i successi, e far crescere la pianta estirpandola, la loro
fede sarebbe vana perché abbandonerebbe la vicenda umana al male
della violenza senza speranza.
18
– Dunque, la nonviolenza è conversione personale dalla propria
violenza, dalla durezza alla mitezza; è indipendenza, libertà
dall’idolo23
della violenza; è lotta alla violenza altrui e dei sistemi, con una
forza che non fa violenza; è confidenza in forze così profonde e
reali della verità umana e del bene, che non sono veramente
sconfitte da nessuna sconfitta, ma testimoniano in ogni caso una
possibilità migliore. La nonviolenza è un impegno e una lotta
libera dall’ossessione e dall’ideologia della vittoria24.
La quale è consustanziale all’ideologia della violenza, perché
dovere e volere vincere ad ogni costo trascina a fare violenza.
Questo
far conto sulla efficacia della nonviolenza, che sempre testimonia la
pace, anche quando è sconfitta (ma ha pure i suoi successi, e più
di quanti sono comunemente noti!25),
non è «fondamentalismo pacifista», non è «esaltazione a basso
costo del martirio», né «l’esporsi masochisticamente al danno
della guerra» da parte di «esaltatori del martirio» (secondo il
giudizio di un autore citato da Melloni26,
che può forse avere ragione in qualche caso estremo, di cui però
non vedo esempi, quando invece figure di un simile autolesionismo
sacrificale sono tipiche della mitologia militare violenta, in tutta
la storia, fino alla figura tristemente attuale dell’attentatore
sui-omicida). Nella nonviolenza si tratta soltanto della forza – il
satyagraha gandhiano, la forza che viene dall’attenersi alla
verità, senza ingannare l’avversario - data dal sapere che la via
della giustizia come mezzo per la giustizia, la pace come via alla
pace, può venire ostruita temporaneamente, ma non cancellata. La
giustizia, anche quando è colpita, testimonia il permanente valore
della giustizia. Come la scintilla sprizza dalla pietra sotto lo
scalpello, così il diritto risalta sotto l’offesa, non è
cancellato ma evidenziato. L’opera della pace e della giustizia è
affidata alla sapienza del tempo: «Uno semina, un altro miete»27.
19
– Tra poco, il 24 marzo 2005, saranno venticinque anni dal martirio
di Oscar Romero per la giustizia pacifica. Il 9 aprile saranno
sessant’anni dal martirio di Dietrich Bonhoeffer. Questo testimone
di pensiero e di azione cristiana, che si prese la responsabilità in
coscienza, davanti a Dio, di collaborare all’attentato violento
contro la vita del tiranno violento, potrebbe essere portato come
obiezione al necessario forte odierno impegno nonviolento dei
cristiani.
Tutti
coloro che meglio pensano e vivono l’impegno nonviolento, a
cominciare da Gandhi, esplicito su questo28,
sanno che, nelle strette della storia, non si può farne un assoluto.
Nel conflitto fra doveri – la nonviolenza da un lato, la
liberazione dalla violenza in atto per salvarne le vittime,
dall’altro lato – non sempre è possibile, oppure non sempre
riusciamo a vedere la possibilità, di una integrale nonviolenza. In
breve, senza sviluppare ora di più l’analisi di questo problema29,
credo di poter dire che l’importante è capovolgere la logica
tuttora dominante anche nella filosofia politica, che fa della
violenza la regola ultima dell’azione storica nei conflitti acuti e
dello stesso concetto di stato (secondo la definizione di Max Weber
comunemente accettata), e vede nella nonviolenza una possibilità
rara, eccezionale, fortunata.
L’opzione
morale e politica della nonviolenza non è proponibile come assoluta,
in tutti i casi che si possono presentare, ma può e deve essere
decisa come regola, salvo drammatiche eccezioni di necessità. La
nonviolenza è quindi una regola con eccezioni, e non un’eccezione
alla regola30.
Questa impostazione è responsabile e realistica, più della
realpolitik, perché risparmia tanti più errori e dolori, e tanto di
più difende le vite e i diritti31.
Ma
non voglio, col dir questo, essere inteso come se riconoscessi uno
spazio di legittimità alla guerra e un suo ruolo moralmente
tollerabile nelle relazioni umane e politiche. Non voglio concedere
un sollievo al pensiero che legittima o tollera una funzione della
violenza. La guerra, esclusivamente di stretta difesa, può essere
una necessità, ma resta sempre una più che triste necessità, una
caduta nell’impotenza, un fallimento anche quando ha successo nel
respingere un’aggressione, mai una gloria, mai un vanto, mai un
diritto. La guerra non è altro che uccidere, un’uccisione di
massa, e, anche se imposta dall’avversario, anche se vinta con
effetto liberante, è una sconfitta e una vergogna32.
La politica, per essere politica, costruzione e non distruzione del
vivere insieme, deve ripudiare la guerra sistematicamente, in linea
di principio e nelle conseguenze legislative, pratiche, operative,
strumentali. Anche la guerra di difesa deve essere superata: la
difesa armata omicida è uno stadio barbaro e feroce dell’azione
che rivendica il diritto aggredito. Difende e non aggredisce, ma
uccide come chi aggredisce. Uccidere può essere una tragica
necessità, se non si è predisposto altro mezzo di difesa, ma non è
mai un dovere, mai un diritto, mai un successo33.
La difesa armata omicida è ancora più vendetta che difesa, più
ritorsione che riparo. La difesa civile, sociale, non armata – in
Italia denominata meglio Difesa Popolare Nonviolenta – è
possibile, se c’è la volontà di conoscere e attuare un modello
umano, non omicida, di difesa che resiste, frustra e respinge la
violenza; è programmabile, se se ne volessero conoscere le
esperienze storiche e le molte tecniche sperimentate. Gli apparati
statali in generale dicono impraticabile quello che non hanno mai
neppure tentato di conoscere davvero e non hanno mai minimamente
organizzato, finanziato, strutturato in una misura almeno centesimale
rispetto a ciò che profondono in spese e risorse umane e materiali
nella struttura militare omicida: «Una cosa è dire: bisogna
ricorrere alla violenza il meno possibile; altra cosa è dire:
bisogna ricorrere alla nonviolenza il più possibile»34.
Gli stati si comportano così perché sono tradizionalmente e
strutturalmente legati all’apparato militar-industriale35,
spesso anche con vincoli di interessi personali di dirigenti statali
nella grande industria militare, attivamente interessata a provocare
guerre utili a consumare con profitto cruento e ad aggiornare i suoi
strumenti omicidi.
Il
fatto che noi non possiamo ancora, oggi, adottare come regola
assoluta la nonviolenza nei conflitti su vasta scala sociale, come la
adottiamo nei rapporti interpersonali, dove l’omicidio non è mai
ammesso ma sempre punito36,
non dipende da un limite del principio del non uccidere, ma dipende,
per un verso, dalla complessità non tutta prevedibile delle
situazioni che possono verificarsi e dal conflitto di doveri opposti,
e, per un altro verso più determinante ancora, dalla debolezza
dell’opzione morale e culturale di ripudio della violenza nella
politica. Come è finora prevalentemente concepita, vincolata alla
ristretta antropologia machiavellica e hobbesiana, la politica è
intrisa fino al midollo, anche nelle democrazie formali, di un uso
cinico del potere degli uni sugli altri. La concezione che abbiamo di
noi stessi e delle nostre possibilità di convivere costruttivamente,
è così bassa e disperata, così succube delle vicende negative,
così priva di fede incoraggiante e stimolante del miglioramento
umano, così ignara delle possibilità di quello che Ernesto
Balducci, sulla scorta di Ernst Bloch, chiamava «l’uomo inedito»37,
dentro l’uomo edito che noi siamo, quella concezione – dicevo - è
tale che ci fa credere necessario, per non ucciderci tra noi, che il
potere statale abbia su di noi un minaccioso diritto, che è in
realtà un diritto di vita e di morte, anche dove non c’è la pena
capitale, ma c’è la possibilità della guerra38.
Questo falso diritto bisogna arrivare a negare. Noi siamo nella
preistoria della politica umana. Noi dobbiamo umanizzare questa
nostra storia. Sappiamo inventare mille trovate tecnologiche e non
sappiamo ancora inventare forme politiche del tutto libere
dall’uccidere. La democrazia è un parziale inizio di nonviolenza
(contare le teste invece di tagliarle), ma assolutamente
insufficiente, perché non abolisce la guerra, non è determinata a
realizzare universalmente il diritto alla vita che vuole affermare
all’interno, perché usa ancora pene violente. I cristiani hanno un
compito primario, in questo. All’inizio degli anni ottanta, nel
tempo del terrificante dispiegamento bilaterale dei missili nucleari,
ricordo che Norberto Bobbio diceva: «I cristiani hanno il “non
uccidere”, ma temo che non saranno all’altezza della loro
responsabilità».
20
– Questo convegno avviene attorno ad una memoria di violenze e
all’omaggio penitente a quelle vittime, memoria convertita, per
grazia di Dio, in fraterna riflessione e colloquio per la
riconciliazione delle memorie. Noi abbiamo ricevuto quella parola:
«Se dunque tu sei per deporre sull’altare la tua offerta e là ti
ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua
offerta davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti col tuo
fratello; dopo verrai a offrire il tuo dono» (Matteo 5, 23-24).
Ecco
la memoria di una separazione, di una relazione fraterna ferita,
anche se fosse soltanto nell’animo del fratello per un malinteso,
anche se non ci fosse un mio malanimo, né un fatto oggettivo; quanto
più, allora, se ci sono state violenze nella storia come quelle che
abbiamo di nuovo qui sentito rievocare. Ecco, il solo presentarmi
davanti a Dio per pregare risveglia in me questa memoria che turba la
mia preghiera e la mia relazione con Dio, perché è turbata la
relazione col fratello. Dio è là dove è il fratello: se il cammino
è interrotto, Dio è introvabile. Dio è difensore del fratello
offeso: non lo incontro se non reincontro il fratello.
L’esigenza
della riparazione è più urgente del culto, perché è condizione di
un culto sincero. La pace è più urgente del culto, perché è un
elemento necessario al culto. Dio ci attende insieme e non vuole
preghiere separate: «Va’ prima
a riconciliarti. Dopo
verrai». Tra cristiani di confessioni diverse, separate e avverse
nella storia, anche con violenza, oggi costruiamo fraternità e
amicizia, ma abbiamo bisogno e diritto, poiché ci stiamo
riconciliando, anche di pregare insieme. Conservando la varietà dei
riti, che è ricchezza, dovremmo realizzare l’intercomunione. Le
differenze di strutture e discipline ecclesiali, e le differenze
dottrinali secondarie, non dovrebbero impedire l’unità nel momento
principale della preghiera, del rendimento di grazie (eucarestia).
Le
memorie avvelenate, per un’offesa subita, o compiuta; la memoria di
guerre e violenze varie che ci siamo fatti impugnando verità armate
gli uni contro gli altri, queste memorie ci hanno impedito a lungo di
pregare insieme, e di pregare sinceramente, separati ciascuno nella
sua chiesa. È necessario ricordare le violenze, non è sano
rimuoverle dalla memoria, perché la riconciliazione che ha futuro è
quella, come ci insegna l’esemplare vicenda sudafricana (nella
quale lo spirito cristiano è stato energia portante), basata sulla
verità, su tutta la verità anche più brutta e dolorosa39.
La
riconciliazione non è soltanto ritrovare una precedente situazione
pacifica, conciliata, ma, di più, è un nuovo trovare una relazione
nuova, umilmente e sapientemente addolorata per le fratture di ieri,
istruita dalla colpa, libera da superbie ecclesiastiche o teologiche,
esperta del dolore inflitto-patito, convertita alla pace. Non solo
una pace-patto-contratto, ma un passo più avanti, una nuova
conciliazione, un concilio degli animi, dei cuori, delle menti, dei
cammini, aperto ad accogliere, a riformarsi, a ricomporre, anche ad
aprire dialettiche nuove senza giudicare né escludere, sapendo
essere diversi e amici, e fratelli, perché la pace nella chiesa come
nel mondo non è l’omologazione, tanto meno imperiale, d’autorità,
ma la «convivialità delle differenze»40,
secondo la splendida definizione prediletta da Tonino Bello, vescovo
di pace.
** ** **
1
Con questo titolo ho pubblicato una raccolta di scritti presso
Cittadella Editrice, Assisi 1998.
2
Gli atti di un interessante convegno su questa problematica sono
contenuti in Convertirsi alla nonviolenza?, Credenti e non
credenti si interrogano su laicità, religione, nonviolenza, a
cura di Matteo Soccio, Il Segno dei Gabrielli editori, S. Pietro in
Cariano (Verona), 2003.
3
Eknath Easwaran, Badshah Khan, il Gandhi musulmano, Edizioni
Sonda, Torino, 1990.
4
Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino,
1996, pp. 57-58 e 155.
5
Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della
pace, prefazione di Roberto Mancini, traduzione di Enrico
Peyretti; Pisa University Press, 2004, p. 170.
6
Cfr Apocalisse 3, 15-16.
7
Nadia Neri, Un’estrema compassione. Etty Hillesum testimone e
vittima del lager, Edizioni Bruno Mondadori, Milano, 1999, pp.
5, 124, 142 e passim.
8
Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo
Capitini, Cittadella editrice, Assisi, 2004, pp. 9-10.
9
Enzo Bianchi, in AA. VV. La pace, dono e profezia, Edizioni
Qiqaion, Magnano, 1991, p. 5.
10
Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, citato, p. 31.
11
Aldo Capitini, Il
potere di tutti,
La Nuova Italia 1969, p. 385, cit. da Rocco Altieri, Aldo
Capitini e la nonviolenza nell'incontro tra religioni orientali e
occidentali,
in Nonviolenza
e giustizia nei testi sacri delle religioni orientali,
Atti del convegno della Facoltà di Lettere dell'Università di
Pisa, 24-26 maggio 1995, a cura di Caterina Conio e Donatella
Dolcini, ed. Giardini, Pisa 1999, pp. 303-312.
12
Alberto Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna. Un discorso
storico sul cristianesimo che cambia, Einaudi, Torino, 2004
13
Si vedano: Giuseppe Mattai, Bruno Marra, Dalla guerra
all’ingerenza umanitaria, Sei, Torino, 1994; Massimo Toschi,
L’angelo della pace. Il Vangelo nel tempo della guerra,
Quaderni di Missione oggi, info@saveriani.bs.it (articoli dal
1993 al 2002).
14
Le citazioni dal libro indicato di Melloni sono tratte dalle pagine
135 (le prime due), 137, 139, 140, 141, 143.
15
Raimon Panikkar, La torre di Babele. Pace e pluralismo,
Edizioni Cultura della Pace, Fiesole, 1990, p. 47.
16
Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, citato, p. 6.
17
Gandhi, opera citata, p. 44.
18
«Non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo di amare la legge
è di obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in
tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste
(cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che
non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi
dovranno battersi perché siano cambiate. La leva ufficiale per
cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la
leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è
influire con la parola e con l'esempio sugli altri votanti e
scioperanti. E quando è l'ora non c'è scuola più grande che
pagare di persona un'obiezione di coscienza. Cioè violare la legge
di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa
prevede. (…) Chi paga di persona testimonia che vuole la legge
migliore, cioè che ama la legge più degli altri. Non capisco come
qualcuno possa confonderlo con l'anarchico. Preghiamo Dio che ci
mandi molti giovani capaci di tanto» (Don Lorenzo Milani,
L'obbedienza
non è più una virtù.
Lettera ai giudici, del 18 ottobre 1965, Libreria Editrice
Fiorentina, senza data, pp. 37-38).
19
Cfr Rinaldo Bertolino, citato da Rodolfo Venditti, L’obiezione
di coscienza al servizio militare, 3ª edizione, Giuffré,
Milano, 1999, pp. 13-14.
20
Cfr La Costituzione della Repubblica Italiana illustrata con i
lavori preparatori, a cura di V. Falzone, F. Palermo, F.
Cosentino, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1979, p. 173.
21
Erich Fuchs, Resistenza, in Serge Molla, Violenza,
Claudiana, Torino, 2004, p. 65.
22
Andrea Cozzo, Elementi per un approccio nonviolento al
superamento del sistema mafioso, in La nonviolenza è in
cammino, foglio telematico quotidiano di approfondimento
proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo,
nbawac@tin.it;
n. 853 del 27 febbraio 2005.
23
Alberto Melloni, opera citata, p. 134.
24
Cfr il mio Dov’è la vittoria? Piccola antologia aperta sulla
miseria e fallacia del vincere, Il Segno dei Gabrielli editori,
S. Pietro in Cariano (Verona), 2005
25
Si può vedere la mia bibliografia dei casi storici di lotte
nonviolente Difesa senza guerra, pubblicata più volte in
successivi aggiornamenti, reperibile in internet:
http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_2668.html
; http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti
26
Alberto Melloni, opera citata, p. 135-136.
27
Giovanni 4,37, che cita la bella immagine del salmo 126, 5-6.
28
Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, citato, pp. 18 e
ss., 69 e ss. Anche Gandhi si è trovato, ovviamente, a dover
decidere in un serio conflitto fra doveri diversi: opera citata,
p. 103
29
Giuliano Pontara precisa con chiarezza che la nonviolenza non è un
principio assoluto e fanatico, e risponde così alla critica
frequente per cui essa mancherebbe al dovere di impedire
efficacemente una precedente violenza. Proprio in base all’etica
della responsabilità (cioè degli effetti dell’atto) e non dei
principi o delle intenzioni, Pontara sostiene «la tesi per cui è
desiderabile che, a livello pratico, di morale positiva, gli
individui interiorizzino una norma che proibisce l’uso della
violenza» (La personalità nonviolenta, Edizioni Gruppo
Abele, Torino, 1996, pp. 46-47, ma vedi da p. 42 a p. 48). Questa
interiorizzazione pratica, anche se non teoricamente assoluta, del
rifiuto della violenza è la via più efficace, perciò più
responsabile, per ridurre globalmente la violenza e per inventare
alternative ad essa nei conflitti. Lo stesso problema Pontara tocca
altrove (Antigone e Creonte. Etica e politica nell’era atomica,
Editori Riuniti, Roma, 1990) concludendo: «Parrebbe necessario che
in pratica il nonviolento debba accettare quella norma che
proibisce assolutamente l’uso della violenza che in teoria,
come ho accennato sopra, non parrebbe sostenibile» (pp. XII-XIV
della Introduzione).
30
Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della
pace, citato, pp. 229, 274-275.
31
Jean-Marie Muller, opera citata, p. 294, 302.
32
Vedi ampiamente il mio libro succitato Dov’è la vittoria?
33
Mentre per Gandhi uccidere può essere addirittura, in certe
circostanze, un dovere, un imperativo della nonviolenza (Teoria e
pratica della nonviolenza, citato, pp. 69 e ss, ma anche p. 22 e
344), per Jean-Marie Muller «la giustificazione della violenza con
la necessità è la prova che la violenza non ha una giustificazione
umana» (opera citata, p. 69), e «la necessità di uccidere
non sopprime affatto il comandamento di non uccidere» (ivi,
p. 78); lo stato di necessità non permette di rendere dovere o
diritto la violenza dell’uccidere (v. ancora la pp. 80, 275, 289,
292).
34
Jean-Marie Muller, opera citata, p. 296; vedi anche p. 209.
35
Giuliano Pontara lo definisce più completamente «complesso
militare-industriale-accademico-burocratico», in Guerre,
disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele,
Torino, 1996, p. 10
36
Il principio della legittima difesa personale, che può scusare
penalmente anche chi uccide per non essere ucciso, si basa sul
giudizio insostituibile, entro la situazione immediata, della
coscienza personale dell’aggredito. Ma nessuno può ordinare ad un
altro di uccidere. Ogni esercito, invece, è basato su questo
comando, rafforzato da dura disciplina spersonalizzante. Non si può
evitare una considerazione che sembra condurre a negare ogni
possibilità morale di un esercito.
37
Vedi principalmente Ernesto Balducci, La terra del tramonto.
Saggi sulla transizione, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole,
1992, passim e, in particolare, p. 12 e pp. 49 e ss.
38
Anche Norberto Bobbio nel libro Il terzo assente. Saggi e
discorsi sulla pace e la guerra (Edizioni Sonda, Torino, 1989),
paga il suo tributo all’idea che la pace può soltanto venire
imposta, e che, pur necessaria, non è possibile perché manca il
“terzo” più potente degli antagonisti. Bobbio, tuttavia, dopo
la fine della guerra fredda senza guerra calda, ammise in una
corrispondenza epistolare inedita che la saggia paura della “mutua
distruzione assicurata” aveva funzionato da “terzo”.
39
Serge Molla, Violenza, citato, pp. 53-56.
40
Antonio Bello, Scritti, vol. 4°, Scritti di pace,
Editore Mezzina, Molfetta, 1997, pp. 66-67, 99, 110, 161, 175, 176,
178, 263, 279, 336, 341, 347.
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