Convegno di studi
L’ecclesiologia in
don Tonino Bello
Assisi 14-16 settembre 2004
I laici nella chiesa e nel
mondo nell’ecclesiologia di don
Tonino Bello
di Enrico Peyretti
(N. B. - Ho aggiunto il 19-10-04 la nota
11)
1. I laici e le laiche
2. Gli ultimi
3. Vescovo fratello
4. Etica laica
5. Vescovo della pace
nonviolenta
6 Conclusione
===============
Una
premessa metodologica mi sembra utile. Di una persona grandemente
significativa come don Tonino Bello, si può parlare su due registri:
il primo filologico, teso a raccogliere con precisione scrupolosa la
sua parola e testimonianza; il secondo “re/sponsabile”, cioè
consistente nel rispondere al suo stimolo accettando l’impegno che
ci trasmette. Il primo modo è quanto più possibile oggettivo, il
secondo è personale, implica scelte che non sono necessariamente
condivise da tutti, sebbene orientate agli stessi valori e
proponibili alla considerazione di tutti. L’ascoltatore o lettore
attento può distinguere i due generi di discorso, anche se non sono
materialmente separati.
1. I laici e le laiche
Il
significato corrente e prevalente di “laico” è: “non questo e
non quello”. Un terzo dei membri del Consiglio Superiore della
Magistratura sono detti “membri laici” perché, pur essendo
tecnici qualificati del diritto, non appartengono alla magistratura.
Istituzioni laiche sono quegli
spazi sociali in cui devono potere sentirsi a casa propria le persone
di ogni religione o di nessuna religione, cioè sono istituzioni non
confessionali.
Il vescovo Warduni, ausiliare
della chiesa caldea di Baghdad ha detto recentemente: «Nel mondo
arabo il termine "laico" non piace, desta sospetto» (dal
Comunic@to di Pax Christi, 24.08.04).
Nel linguaggio comune, laico
vuol dire non credente, o almeno non clericale. Nel linguaggio
interno alla chiesa vuol dire non appartenente al clero. Il termine
latino, di senso positivo, “christifideles”, non è certo di uso
corrente.
Il laico, fino a tempi
recenti, era visto come non impegnato nella vita evangelica quanto
monaci e preti. Il matrimonio non era uno “stato di perfezione”.
Il laico era quello che non aveva una “vocazione”. Con la
clericalizzazione del cristianesimo seguita all’abbraccio
soffocante di Costantino e Teodosio, nel IV secolo, gli appelli
evangelici alla nonviolenza, come l’obiezione alla guerra e
all’esercito – scrive Rodolfo Venditti citando Massimo Toschi -
«verranno gradualmente emarginati dalla vita di ogni giorno e
riservati al sacerdote e soprattutto al monaco», mentre «i laici
(…) rimarranno confinati a un gradino più basso, nel “mondo”,
dove la vita cristiana non potrà pretendersi perfetta, dove la
militia Christi
non sarà più incompatibile con la militia
saeculi, e dove la
originaria incompatibilità delle due militiae
verrà a stemperarsi nell’ambiguo compromesso del “servizio a un
imperatore cristiano”, a un imperatore “diritto divino”»1.
Insomma, il laico è – o
almeno è stato a lungo - un “non-non-non”! Se possiamo parlarne
qui, nell’ascolto di don Tonino Bello, è perché le cose stanno
cambiando, o almeno possono cambiare.
Ma
il problema rimane. Un comunicato del recente Sinodo della chiesa
valdese dice: «La Tavola valdese pone sul tappeto problemi molto
precisi quali la "crisi del ruolo dei laici", che
nell'ambito di una chiesa che vive il sacerdozio universale dei
credenti costituiscono una risorsa essenziale per "intervenire
nella vita sociale e politica". (…) Nella società in cui oggi
ci muoviamo il termine stesso di vocazione sta vivendo una vera e
propria eclisse».
Se una persona è senza
vocazione, è la persona dall’esistenza più tristemente povera.
Se il laico è stato, o in
qualche misura è ancora, senza vocazione, se è un “non” (che fa
una buffa rima con “don”), se si definisce in quanto escluso da
altre categorie, allora, tra i laici, la donna è una “super-non”,
è la più esclusa. Sebbene sacralizzata per altri versi, la donna è
quel tipo di cristiano laico che non può nemmeno assurgere alle
categorie “sacre”. L’esclusione assolutizzata, quasi
dogmatizzata2,
della donna dai maggiori ministeri ecclesiali è oggi assai discussa
nella chiesa cattolica, non è un elemento del sensus
fidei, né, quella
esclusione, risulta essere una esigenza pastorale del popolo di Dio,
ma è ripetuta dal cardinale Ratzinger con un rapido cenno, come per
tentare di eludere il problema, anche nella recente Lettera
ai vescovi della chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e
della donna nella chiesa e nel mondo (parte
IV). La donna è tradizionalmente limitata ai suoi ruoli specifici,
alcuni certamente naturali, ma altri in gran parte definiti da parte
maschile, e questo avviene anche proprio nella chiesa. Tutto ciò
rende la donna la più “laica-non” dei “laici-non”.
Il ruolo e i diritti della
donna sono un problema consistente nel necessario dialogo cristiano
con l’Islam: alcuni guardano questo problema senza speranza, perciò
chiudendo il dialogo su questo punto; altri con impegno e realistica
fiducia. L’errore di leggere antichi testi sacri senza distinguervi
la luce rivelata, permanente, dai dati di costume dell’epoca, non
permanenti, non è o non è stato errore soltanto musulmano.
Papa Giovanni, nella Pacem
in terris,
riconosceva con gioioso stupore l’ingresso con dignità della donna
nella vita pubblica come un buon segno dei tempi.
Nella misura in cui questo
diritto e questa dignità sono ancora incompiuti, nella società o
nella chiesa, la donna si trova, nella categoria dei “non”, in
uno scalino inferiore, insieme a quanti non vedono riconosciuto e
libero il loro diritto di espressione e partecipazione. Sono, questi,
i poveri, nel senso integrale, non solo economico, della parola.
Che ne dice don Tonino Bello,
di queste cose?
2. Gli ultimi
I poveri sono i più presenti,
in prima fila, nel cuore e nella parola di don Tonino, perché degli
ultimi, dalla Parola, è detto che saranno i primi. Sono la povera
gente, persone comunissime, cariche dei problemi della vita, anche di
errori e di colpe, gente sporca della polvere dei cammini più duri,
senza potere né giustizia, senza onore, senza affetti, senza questo
e senza quello. Sono i più “non” di tutti, i più laici di
tutti. Gli ultimi degli ultimi.
Don Tonino li cita e li chiama
per nome, come il vescovo Romero nominava, pubblicava e onorava le
vittime uccise dai violenti tra il suo popolo, santa litania di
crocifissi. Il vangelo delle omelie di don Tonino, come quelle di
Romero, è popolato di questi personaggi di oggi, in cui vediamo
quasi reincarnarsi le folle di poveretti, malati, peccatori,
dubbiosi, falliti, assetati, che Gesù incontrava, che imploravano,
interrogavano Gesù, e anche dei malevoli che lo insidiavano. Nei
volumi che raccolgono gli scritti di mons. Antonio Bello, troviamo
nell’indice, a volte più numerosi delle citazioni vescovili e
papali, molti di questi nomi senza cognome, donne e uomini delle
strade di Barletta. Sono gli ultimi, quelli di cui nemmeno si parla,
che non hanno nulla da dire, e che invece parlano nelle omelie di don
Tonino, attraverso le loro storie, dolori, appelli. Il vescovo Tonino
fa esistere quelli che non esistono, fa vedere gli invisibili, fa
contare quelli che non contano per chi conta, risuscita i morti della
società, dà valore a quelli che per l’economia sono gli
“esuberi”, li tiene tutti accanto a sé sulla cattedra, perché
da loro c’è da imparare.
Scrive una lettera «a
Massimo, ladro, ucciso a Molfetta la notte dell’8 gennaio 1985,
anno internazionale dei giovani». «Vedi, sei tanto povero che posso
chiamarti ladro tranquillamente, senza paura che qualcuno mi denunzi
per vilipendio o rivendichi per te il diritto al buon nome». «Il
ladro non sei solo tu. Siamo ladri anche noi perché, prima ancora
che della vita, ti abbiamo derubato della dignità di uomo» (Scritti
di monsignor Antonio Bello,
Molfetta, edit. Mezzina, 1993 e seguenti, vol. 5, p.275-277; d’ora
in avanti Scr. A.B.). Negli “auguri scomodi”, per il Natale
1984, scrive addirittura: «I poveri, i poveri veri, hanno sempre
ragione, anche quando hanno torto» (Scr. A.B., vol. 5, p. 290). E
scrive «a Giuseppe, avanzo di galera», nel 1986, «Siamo tutti
pezzi di galera. Ma prepariamoci a uscirne» (Scr. A.B., vol. 5, p.
292-294).
In un articolo del giugno
1983, dal titolo Sono
credibili le nostre Eucarestie?,
leggiamo: «Purtroppo, l’opulenza appariscente delle nostre città
ci fa scorgere facilmente il corpo di Cristo nell’Eucarestia dei
nostri altari. Ma ci impedisce di scorgere il corpo di Cristo nei
tabernacoli scomodi della miseria, del bisogno, della sofferenza,
della solitudine» (Scr. A.B., vol. 5, p. 236).
Nel Natale 1985 scrive su
Rocca
commentando quell’impegno «ripartire dagli ultimi» (che mi pare
fosse un programma della Cei): «Ripartire dagli ultimi (…) è
soprattutto un atto di fede nell’imprevedibilità del nostro Dio
che, per annunciare e realizzare le sue meraviglie, non utilizza
necessariamente truppe scelte, sfornate dall’accademia, ma si serve
degli straccioni, dei diseredati, della gente che non conta e che
viene disprezzata. Proprio questa gente, questa accozzaglia di
ultimi, ha il compito e il privilegio di annunciare ai primi che la
salvezza è vicina» (Scr. A.B., vol. 5, p. 26). E delinea ampiamente
una chiesa che «riparte dagli ultimi», terminando così: «Una
chiesa che lava i piedi al mondo senza chiedergli nulla in
contraccambio: neppure il prezzo di credere in Dio, o il pedaggio di
andare a messa la domenica, o la quota, da pagare senza sconti e
senza rateazioni, di una vita morale più in linea col Vangelo»
(ivi, p. 27).
Tutti gli otto Scritti
quaresimali del
1988 sono dedicati… ai piedi: di Pietro, di Giuda, di Giovanni, di
Bartolomeo, degli altri, del Risorto. Nulla di più basso e di più
fondamentale dei piedi. Riguardo a Pietro, don Tonino scrive: «A
furia di difendere la tesi del “primato” di Pietro, abbiamo perso
di vista che egli è il capostipite di quell’”ultimato” di
poveri verso cui Gesù ha sempre espresso un amore preferenziale».
«I piedi dei poveri sono il traguardo di ogni serio cammino
spirituale» (Scr. A.B., vol. 2, p. 346, 345). Gesù, e don Tonino,
onorano i piedi. I piedi degli ultimi, che Gesù ci ha chiesto di
lavare, con gesto sacramentale, sono la mèta dell’elevazione
spirituale. L’immagine alto-basso, il basso che è il vero alto, è
stata usata tante volte come metafora del raddrizzamento di qualcosa
che si trova capovolto. L’allusione è a tutte le gerarchie
mondane, sconvolte dall’Uomo mandato dall’Altissimo, abbassatosi
come un servo ai piedi dei suoi poveri deboli amici, calpestato sotto
i piedi della coalizione dei poteri religioso e politico, risorto ad
inaugurare da primogenito la posizione definitiva a cui ci chiama e
conduce, eretti in piedi, col cuore in alto.
3. Vescovo fratello
Don Tonino si fa chiamare e
firma “don”, come un prete qualunque. “Fratello vescovo” lo
chiama Claudio Ragaini nella biografia che ne ha scritto (Don
Tonino, fratello vescovo,
Paoline, Milano 1994, quinta edizione riveduta e aggiornata 2003). Il
vescovo della mia città dal 1965 al 1977, Michele Pellegrino, aveva
chiesto di chiamarlo “padre”, scartando i tradizionali
“eccellenza” e “eminenza” (che parevano in via di sparizione
dopo il Concilio, ma hanno resistito tenaci). Fratello è ancora più
evangelico di padre: «Non chiamate nessuno padre… tutti voi siete
fratelli» (Matteo 23,9 e 8). Don Tonino chiama sempre fratelli i
fedeli. Quando scrive alle confraternite di Ruvo su certe questioni
relative alle modalità dei funerali, dice: «Io non voglio
comandare, voglio solo persuadere» (Scr. A.B., vol. 5, p. 173).
Parlando di Oscar Romero (che
sembra spesso prendere a modello del proprio ministero) lo definisce
«vescovo fatto popolo», alludendo alla “conversione” di Romero,
fatto vescovo signorile e diventato vescovo popolare. Il popolo di
Dio è il laòs,
i laici, ma certamente è tutti i fedeli di Cristo, perché anche i
ministri nella chiesa sono questo popolo di fratelli. E nelle
invocazioni a Romero, vescovo martire, con cui conclude quell’omelia
del 23 marzo 1987, don Tonino dice: «Aiutaci a comprendere che i
poveri sono il luogo teologico dove Dio si manifesta e il roveto
ardente e inconsumabile da cui egli ci parla. Prega, vescovo Romero,
perché la chiesa di Cristo, per amore loro, non taccia». È il tema
della “parresia”, che sentiremo ancora. E prosegue: «Prega,
vescovo Romero, perché tutti i vescovi della terra si facciano
banditori della giustizia e operatori di pace, e assumano la
nonviolenza come criterio ermeneutico del loro impegno pastorale»
(Scr. A.B., vol. 2, pp. 157-164). È il grande tema della pace
qualificata dalla nonviolenza attiva.
In una omelia dell’8 giugno
1988, poi pubblicata su Avvenire, dice e intitola: «La Chiesa deve
giocare come serva del mondo», non (con allusione calcistica) come
riserva.
(Scr. A.B., vol. 2, p. 176). Servi
nella Chiesa per il mondo,
è il titolo di una riflessione pastorale del 1991, sulla fedeltà
all’uomo, in cui chiede: «L’adattamento al vocabolario del
mondo, l’attenzione alla sua sintassi, lo studio della sua temperie
culturale, l’omologazione del suo codice espressivo (…) li
interpretiamo sulla linea di quella fedeltà all’uomo che è
condizione ineludibile di ogni impegno missionario?» (Scr. A.B.,
vol. 5, p. 98). La fedeltà all’uomo, all’uomo senza aggettivi,
al popolo di tutti, al laicato universale, è condizione della
fedeltà al mandato missionario di Cristo. «In fondo, il senso
ultimo della missione è questo: fare compagnia al mondo come
cristiani veri» (ivi, pp. 76 e 100). «L’integrazione tra fede e
vita non può più limitarsi a contenere le prevaricazioni dei
comportamenti etici senza sporgersi audacemente dai balconi della
sacrestia» (ivi, p. 101). In una lettera ai «cari fratelli», che
sono i fedeli diocesani, esorta ad approfondire la Parola di Dio, da
cui «si scatenano i venti salutari dell’impegno nella storia» e a
«simpatizzare con la cronaca in modo che diventi storia di
salvezza». «Allenatevi al cambio. Custodite l’antico, ma non
chiudetevi all’inedito. Levate il capo per intuire i tempi che
arrivano. “L’estate è ormai vicina” (Luca 21,30)» (Scr. A.B.,
vol. 5, p. 244).
Al nuovo direttore del
settimanale diocesano (quando fa una nomina non emette un decreto, ma
scrive una calda lettera personale) pone il problema: «Le nostre
comunità cristiane non hanno interlocutori all’esterno perché la
linea telefonica con “gli altri” è caduta. (…) Si ha spesso
l’impressione che Chiesa e mondo abbiano attorno un cordone
sanitario con cui preservarsi da influenze reciproche. Non hanno più
nulla da dirsi» (Scr. A.B., vol. 5, p. 165).
I laici sono evidentemente,
per don Tonino, membri vivi e attivi della chiesa. Conferma nel 1986
i nuovi presidenti dell’Azione Cattolica, scelti dalla base, e
scrive loro, tra altri bellissimi consigli: «Il Signore vi dia il
gusto delle cose essenziali. Vi renda ministri della felicità della
gente» (Scr. A.B., vol. 5, p. 167). E un successivo presidente, che
nomina nel 1989, lo chiama «ministro di crescita ecclesiale» (Scr.
A.B., vol. 5, p. 189). Nel 1987, saluta Filomena e Mario, missionari
laici che partono per l’Argentina, con una lettera di sereni
consigli e riflessioni, e conclude: «Con tutta la forza che vi
deriva dal sacerdozio regale e profetico dei fedeli, vogliate
tracciare su di noi un largo benedicente segno di croce» (Scr. A.B.,
vol. 5, p. 179).
Gli ultimi sono i primi,
davvero, non a parole, nell’attenzione e nel cuore di don Tonino.
Al punto che abbozza e ripete molte volte quella sua famosa, curiosa,
divertente, e un po’ provocatoria, ma tanto vera, ecclesiologia del
grembiule, «l’unico paramento sacerdotale registrato dal Vangelo»,
l’abito sacro comune a Gesù, ai preti, ai laici (Scr. A.B., vol.
5, p. 40; da questa pagina, fino alla p. 49, troviamo una delle
esposizioni più ampie di questa immagine).
Gli piacciono molto le
immagini concrete, ma poetiche, tratte dalla vita quotidiana più
comune, casalinga, stradale, lavorativa, e questa è una laicità
della sua parola e scrittura, come laiche sono la parabole di Gesù.
Gli piacciono tanto che sente il bisogno, qualche volta, di
scusarsi: «A volte mi accorgo di abusare delle immagini» (Scr.
A.B., vol. 5, p. 278 e 188).
È un vescovo fratello, nella
chiesa ma non solo: è fratello del mondo.
Le
sue liturgie annunciano davvero il largo banchetto del Regno
esemplificato nelle parabole di Gesù: invita poveri, storpi, zoppi e
ciechi, nel corpo o nell’animo, insomma quelli che non possono
ricambiare e ti rendono beato, perché dai senza riavere (Luca 14,
12-14). A questo scopo, ha delle invenzioni liturgiche, che oggi
forse sarebbero rimproverate. Una, l’eucarestia della rosa e della
strada, riferitami direttamente da una ragazza, «poco pratica di
messe», che don Tonino aveva invitato a tradurre la messa in altre
lingue, in un convegno internazionale, e coinvolta profondamente in
questa liturgia, l’ho raccontata altrove: ad un certo punto della
messa, egli tirò fuori da sotto l’altare un secchio di rose, ne
diede una a ciascuno dei presenti perché andassero in strada a
regalarla al primo passante e rimase ad aspettare tutto contento e
sorridente. La ragazza esce, ma torna con la rosa: «Il primo
passante che ho incontrato, che ha bisogno della rosa, sono io». Don
Tonino l’abbraccia e le dice: «La prossima volta la invito a
ballare, ma non a Molfetta, se no la gente chissà cosa dice»3.
La
larghezza del banchetto del Regno, ma anche l’esigenza, che
stabilisce la precedenza della pace sul culto, secondo quella parola:
«Se stai per deporre sull’altare la tua offerta e là ti ricordi
che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta
davanti all’altare e vai prima a riconciliarti con tuo fratello,
dopo verrai ad offrire il tuo dono» (Matteo 5, 23-24). Don Tonino,
non per la necessità di riconciliarsi, ma per rispondere alla
chiamata improvvisa del vescovo Paolino, di Città di Castello, di
andare in un liceo a parlare della pace, cioè della riconciliazione,
depone i paramenti già indossati, lascia gli altri vescovi a
concelebrare e va in quel liceo a fare uno dei suoi discorsi più
organici sulla pace (Scr. A. B., vol 4, pp. 113-147). E in qualche
altra occasione, che non ho rintracciato nei cinque volumi, ravviva e
infiora la liturgia di gesti parlanti improvvisati, che propone alla
vivace partecipazione dei laici.
4.
Etica laica
Il vescovo Tonino Bello ha
grande stima di una seria etica laica. Qui laica significa un’etica
di non credenti, un’etica non accompagnata dalla fede nella
presenza dello Spirito di Dio ad ispirare e sostenere la nostra vita
morale, ma, al massimo, ammiratrice della sapienza morale del
Vangelo.
Gaetano Salvemini (1873-1957)
era nativo di Molfetta. Nel 1988, anche il vescovo interviene nelle
Giornate Salveminiane, che si tengono in città, senza «nessuna
voglia di annessione culturale», perché – lo ricorda lui stesso -
«il grande storico molfettese» aveva scritto nel testamento:
«Intendo morire fuori della Chiesa cattolica, senza equivoci di
sorta». Poi dice: «Salvemini è stato e rimane un anticlericale
tutto d’un pezzo e senza cedimenti. Mai, però, volgare o sguaiato.
Anzi, così fine e, soprattutto, così nutrito di sofferte ragioni
etiche, che oggi perfino il vescovo della città che gli ha dato i
natali, un paio di anticlericali del genere, se li vorrebbe sempre a
ridosso. Se non altro, perché lo aiuterebbero a preservare il
messaggio di Cristo da contaminazioni mondane e da inquinamenti di
potere». Cita poi, tra altre, queste parole di Salvemini: «La
vecchierella che, pregando innanzi all’immagine della Madonna,
trova conforto al suo dolore e un raggio di speranza, è altrettanto
rispettabile quanto il filosofo che pesta l’acqua nel mortaio delle
sue astrazioni». Salvemini, dice il vescovo, «ha lasciato
trasparire unicamente una indomita passione per la libertà e il
rifiuto viscerale per le posizioni discriminanti di privilegio
accordate a chiese o gruppi o persone». E cita ancora dal testamento
di Salvemini: «Se ammirare e cercare di seguire gli insegnamenti
morali di Gesù Cristo, senza curarsi se Gesù sia stato figlio di
Dio o no, è essere cristiano, allora intendo morire da cristiano,
come cercai di vivere, senza purtroppo esserci riuscito». Termina
don Tonino queste pagine luminose per larghezza di cuore e di mente,
dicendo (in termini che si riferiscono a passaggi qui omessi): «C’è
da esser certi che il Signore, sensibile ai galantuomini increduli
non meno di quanto sia indulgente con le canaglie credenti, abbia
accolto ugualmente nella sua pace questo profeta laico del suo Regno»
(Scr. A.B., vol. 5 , p. 59-63).
Mi viene spontaneo accostare
questo ritratto di Salvemini fatto da Tonino Bello alla figura di
Norberto Bobbio, col quale ebbi, come tanti altri suoi allievi, un
intenso colloquio, tra consensi sinceri e aperti dissensi. Gli uomini
e le donne che hanno cercato, pensato, che si sono spesi per la
verità umana, per la giustizia pacifica tra uomini e popoli, per la
libertà e la dignità di tutti, li ritroveremo tra coloro che
chiedono al Signore: «Quando ti vedemmo affamato e assetato, profugo
e prigioniero?» (Cfr Matteo 25, 31-46). E speriamo che possa esser
data anche a noi la risposta che sarà data a loro. Un pensiero di
Bobbio citato volentieri dal cardinale Martini era questo: «La
differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma
tra chi pensa e chi non pensa seriamente ai grandi problemi della
vita»4.
Don Tonino, in una lettera del
1985 a chi opera nel volontariato, ringrazia varie categorie di
volontari, e alla fine dice: «Grazie, infine, a voi volontari non
credenti, che, pur non essendo sostenuti da speranze ultramondane, vi
prodigate per alleggerire la croce degli uomini. Voi non lo sapete,
ma quella è la croce di Dio» (Scr. A.B., vol. 5, p. 285).
5. Vescovo della pace
nonviolenta
Compito dei laici nel mondo è
principalmente la pace nonviolenta, in tutto il suo significato
positivo, attuazione nella storia di valori spirituali alti.
Scrive Enzo Bianchi: «Oggi
più che mai la chiesa gioca la sua fedeltà al Signore e misura la
capacità di testimoniare l’Evangelo e di rispondere ai drammi
della storia nella compagnia degli uomini, proprio sulla dottrina e
sulla prassi della pace. Questo significa però che la pace è nello
stesso tempo dono di Dio e compito profetico dei cristiani»5.
«La passione più
significativa e importante del cristiano è il cambiamento del mondo,
della vita. Ne va della sua identità», dice Nino Fasullo, direttore
della rivista Segno,
di Palermo, parlando di Chiesa e mafia (Ricerca,
mensile della Fuci, giugno 2004, p. 28-30).
Il vescovo Tonino Bello è
noto soprattutto come vescovo della pace, intesa come nonviolenza
attiva. Tutti i vescovi sono vescovi di pace, ma purtroppo ci
dobbiamo ricordare – caso estremo - che un vescovo militare,
nell’occasione della partecipazione italiana alla guerra della Nato
alla Serbia per il Kossovo, nel 1999, parlò del «dramma degli
uomini che guidano i bombardieri e sanno che la loro azione, fatta
per la pace, può uccidere vite umane. Nessuno pensi che questi
uomini fanno il loro dovere a cuor leggero. (…) La guerra è sempre
ingiusta, purtroppo, però, a volte è inevitabile» (dal comunic@to
di Pax Christi, 15 maggio 1999). Fu criticato dai confratelli, a
quanto ne so, meno di quanto lo fu don Tonino per le sue scelte di
pace, come documenta ampiamente Ragaini6.
Il Consiglio Nazionale di Pax Christi, nel citato comunic@to,
esprimeva «profondo sconcerto» di fronte a queste dichiarazioni
emesse durante il I Sinodo della “Chiesa Militare”, scrivendo:
«Ci sembra un tentativo impossibile di tenere il piede in due
staffe. Non possiamo accettare che la guerra sia definita “sempre
ingiusta” e poi ritenuta “inevitabile”. Se tutto questo ci
sembra così lontano da una logica umana, come è possibile
conciliarlo con la “profezia evangelica”?».
Come i vescovi, quasi tutti i
buoni cristiani sono per la pace, ma non tutti ne individuano la via
centrale nella nonviolenza attiva. Alex Zanotelli, voce di profeta in
questi amari anni, mostra bene come Gesù è l’inventore della
nonviolenza. Nella situazione di oppressione del suo popolo, sotto
l’impero romano, sente anche personalmente la tentazione della
violenza, ma inventa segni e azioni tipiche della lotta nonviolenta.
Proprio quelle azioni paradossali suggerite da Gesù nel Discorso
della montagna, che per secoli sono state intese come atti di
rassegnazione e sottomissione, oggi sono finalmente capite e
spiegate, in quel contesto storico concreto, come azioni di
ribellione, indipendenza, dignità, con la forza sana e giusta della
nonviolenza. Walter Wink, nel libro Rigenerare
i poteri. Discernimento e resistenza in un mondo di dominio,
edizioni Emi, mostra bene che presentare la guancia sinistra, dare
anche la tunica a chi ti sequestra il mantello, restando nudo, fare
un miglio in più di quello a cui ti costringe l’occupante, erano
azioni di mite provocazione, che mettevano il prepotente in
difficoltà, che ristabilivano la dignità offesa, che liberavano
l’oppresso dalla soggezione, che indicavano possibile la
liberazione nonviolenta. Ho riassunto queste pagine in un articolo,
intitolato Gesù non
era scemo (il
foglio, n. 313,
giugno 2004, p. 5; www.ilfoglio.org).
Zanotelli ricorda che, come
sappiamo, soltanto piccole minoranze cristiane, emarginate come
eretiche, restarono fedeli alla nonviolenza attiva di Gesù, fino a
quando Tolstoj la riscoprì, scomunicato dalla sua chiesa, e Gandhi
la imparò da Tolstoj, anche se la ritrovò pure nella sua tradizione
indù, e Capitini, religioso fuori dal cattolicesimo, introdusse
Gandhi in Italia, e Gandhi la insegnò ovunque nel mondo ai cristiani
e ai musulmani, i quali entrambi – anche i musulmani7
- poterono riscoprirla entro le proprie sacre scritture. Nel
cattolicesimo italiano, Tonino Bello è in prima linea in questa
riscoperta.
Tuttavia, la nonviolenza, in
tutta la cultura della nostra società, e dunque anche nella cultura
cattolica, è ancora poco conosciuta o mal conosciuta, o addirittura
scientemente avversata, da chi ha fede o interesse alla violenza,
come se fosse una resa alla violenza. Un sintomo è che molti
continuano a scrivere il termine in due parole staccate, che
significano: non compiere violenza. Cioè, la nonviolenza è pensata
come una buona negazione: non fare il male. Ma essa è ben di più di
questo passo, necessario ma non sufficiente. Essa è una forza attiva
per la soluzione costruttiva, e non distruttiva, dei conflitti. La
forza è una qualità umana, diversa e contraria rispetto alla
violenza. Forza e violenza sono confuse nel linguaggio, anche
volutamente, ma sono l’una l’opposto dell’altra. La forza
costruisce, la violenza distrugge. Se oggi la cultura nonviolenta
progredisce nelle chiese italiane è anche per merito di don Tonino
Bello.
La nonviolenza è assai più
del pacifismo. Questo si oppone alla guerra ricercando alternative
alla violenza bellica nella soluzione dei conflitti. La nonviolenza è
ricerca di superamento di tutte le violenze: non solo quella diretta,
fisica, bellica, ma – ancora di più – le violenze meno visibili,
meno ripugnanti, perciò più sopportate e persino giustificate, che
sono le violenze strutturali e le violenze culturali. Cioè, le
strutture giuridiche ed economiche che stabiliscono e mantengono
rapporti di ingiustizia, quindi di violenza statica; e le idee che
accettano, giustificano e persino esaltano le discriminazioni, il
disprezzo, il dominio: cioè le idee razzistiche, oppure la gerarchia
di valore tra civiltà superiori e inferiori. L’ingiustizia e il
dominio sono anche più gravi della guerra, perché uccidono e
offendono persone umane in quantità e continuità molto maggiori, e
sono meno visibili e appaiono spesso qualcosa di inevitabile e
persino naturale. Abbiamo persino chiamato questi peccati strutturali
“volontà di Dio”, con cui Dio ci punisce e ci corregge, quindi
da accettare dalle sue mani, con rassegnazione. Abbiamo generalmente
insegnato, come chiesa, ad obbedire alle autorità politiche, senza
giudicare in coscienza - “presuntuosamente”, si diceva - se le
loro decisioni e comandi, anche di guerra, erano giusti o violenti.
Chiediamo a Ernesto Balducci e a Lorenzo Milani se le voci ufficiali
della Chiesa sono state con loro o contro di loro nel difendere la
coscienza di pace dei primi obiettori laici, credenti o non credenti,
pagata col carcere dello Stato e con l’abbandono morale da parte
della Chiesa. Chiediamo a Franz Jägerstätter (un anno fa abbiamo
fatto un pellegrinaggio a St. Radegund, nell’alta Austria, alla sua
tomba umile e luminosa, nel 60° del martirio per decapitazione;
c’era con noi il vescovo Bettazzi), chiediamogli se la chiesa, che
oggi ne promuove la beatificazione, lo capì e lo sostenne nel suo
solitario rifiuto della guerra nazista, confortato solamente dalla
moglie Franziska, o se lo lasciò abbandonato e disapprovato.
In quel tempo e in questi
casi, la Chiesa faceva violenza culturale, per ignoranza, leggerezza,
paura dei potenti, e dimenticava le azioni di Gesù per ridare
dignità agli ebrei oppressi dai romani. Primo Mazzolari dovette
pubblicare anonima la prima edizione del suo altissimo Tu
non uccidere,
perché nel clima della guerra fredda, con la Chiesa incorporata
(embedded) nell’Occidente, parlare di pace, anche nella Chiesa, era
considerato fare da quinta colonna al nemico comunista8.
Nel mondo religioso oggi cala,
grazie a Dio, la rassegnazione alla guerra, ma non cala altrettanto
la rassegnazione ad altre violenze più sottili e insidiose: il
violento dominio dei popoli ricchi sui poveri; la violenza economica
a cui noi tutti – confessiamolo come peccato collettivo - prendiamo
parte con vantaggi che non siamo disposti a perdere, come è
necessario; la violenza di una cultura possessiva, per la quale –
lo denuncia Naomi Klein -«l’avidità è una cosa positiva»
(Internazionale,
3 settembre 204, p. 30), e non cresce altrettanto l’indignazione,
la parola franca e la lotta nonviolenta per superarle. Se un prete
dice queste cose nell’omelia sembra a tanti buoni cristiani che
“faccia politica”. Zanotelli che le dice non trova con sé tutti
i cattolici.
L’impegno del vescovo Tonino
Bello per la pace non è soltanto la condanna della guerra
direttamente omicida, ma è anche l’opera strenua di accoglienza
dei poveri che migrano in cerca di libertà e di vita migliore; è
anche il giudizio di condanna sull’apparato militar-industriale,
che deve inventare le guerre per realizzare profitti di morte; è
anche la sua partecipazione attiva, persino a pochi mesi dalla morte,
ad una esemplare azione di intervento di pace dentro l’inferno
della guerra jugoslava; è la sollecitazione a vedere la violenza
della dominante economia omicida e disumana. Ed è, il suo impegno
per la pace, una frequente e sempre più chiara riflessione, anche
spirituale e teorica, sulla nonviolenza attiva, sulla obiezione di
coscienza all'organizzazione della guerra, e sulla positiva strategia
di pace.
Egli scrive il 6 febbraio 1992
su il manifesto:
«Il diritto a difendersi non l’ha mai contestato nessuno. (…)
Rassegnarsi al sopruso appartiene al genere della vigliaccheria, non
all’esercizio della virtù cristiana. (…) Ma difendersi come? (…)
Oggi, dopo il lampo di Hiroshima, non è più possibile difendersi
con la guerra. L’esplosione atomica, spartiacque nella storia della
specie umana, ha posto fine per sempre alle regole del vecchio
realismo politico (…). Da quel tragico fungo nucleare, è finita
l’epoca della guerra giusta. Nulla può essere più come prima.
Ogni guerra è diventata iniqua. La difesa armata, perciò, risponde
a una logica preatomica che tutto può partorire fuorché pace e
giustizia». Si tratta dell’idea centrale nella Pacem
in terris di
Giovanni XXIII, che parlò, nel 1963, più chiaramente del Concilio:
«Nell’era atomica, è “alienum a ratione”, cioè è pazzesco,
pensare che la guerra possa essere strumento di giustizia».
E don Tonino continua: «Ed
ecco l’alternativa della difesa nonviolenta. Che non è un tenero
sentimento per novizie. Ma che oggi è diventata una scienza
articolata e complessa che si avvale di grandi maestri e di una ormai
incontenibile produzione bibliografica. (…) Che ha già una storia
di successi alle spalle» (Scr. A. B., vol 4, p. 294 e 243)9.
Quella di Tonino Bello è
l’azione e l’insegnamento di un vescovo, che si confonde tra i
laici nella spedizione a Sarajevo come in tanti convegni e incontri
per la pace. È un richiamo e un aiuto a vedere e vivere la
fondamentale vocazione laica alla costruzione giusta e pacifica del
mondo e della storia umana. Quando Pietro scrive a comuni cristiani:
«Voi siete un sacerdozio regale» (1 Pietro 2, 9), afferma quel
positivo compito e carisma dei laici, che il Concilio è tornato a
riconoscere e valorizzare, di gestire il mondo con quella
responsabilità che era nell’immagine ideale dei re biblici, cioè
la responsabilità di esercitare la giustizia e costruire la pace,
difendendo gli ultimi, risarcendo le vittime, tagliando le unghie
agli avidi, togliendo ogni forma di violenza, ristabilendo
l’uguaglianza violata dalla possessività. Per questo siamo re,
siamo tutti re. È questo il compito proprio di ogni cittadino
attivo, è il compito speciale di chi assume impegni politici,
compito che il laico cristiano sente in sé, non certo in una
posizione di qualche superiorità rispetto agli altri, ma certo con
una particolare coscienza e speranza, sospinto e animato dall’appello
e dal carisma della regalità responsabile che Dio affida agli uomini
nel mondo.
Nessuno potrà mai accusare
Tonino Bello di silenzio o di inerzia davanti alle violenze
sistematiche dei potenti, nei suoi anni.
«I cannoni non tuonano mai
amore di patria, ma sillabano sempre in lettere di piombo la suprema
ragione dell’oro». (Scr A.B., vol. 4, p. 315). Così scrive don
Tonino, con verità profetica, in uno dei tanti articoli in difesa
dell’azione dei pacifisti, rispondendo al ritornello dei tanti
“realisti”, che davanti ad una strage di guerra chiedono: «Dove
sono i pacifisti?», come se ad essi toccasse fermare le guerre che i
“realisti” accettano.
L’11 gennaio 1992, Tonino
Bello scrive su Avvenire:
i pacifisti «non hanno smesso di gridare che la guerra è sempre
sporca e non c’è aspersorio, laico o clericale, che possa
purificarla, che le armi sono fisiologicamente inadatte a partorire
la pace, che non ci sono mai cause di forza maggiore che possano
legittimare l’uccisione di una sola vita umana, che la distruzione
di tutte le chiese [ciò che stava avvenendo in Jugoslavia] è un
delitto che non pareggia la gravità dell’annientamento di un uomo
soltanto; che vanno incoraggiate tutte le madri che, in Serbia o in
Croazia, implorano i figli a deporre le armi» (Scr. A.B., vol. 1, p.
115). Dunque, la vita di una qualunque persona vale più di una
chiesa, come afferma anche la tradizione islamica riguardo alla
moschea della Mecca. E le madri che invitano i figli a disertare la
guerra sono da lodare.
Sono talmente tanti i testi
del nostro vescovo sulla pace e sulla nonviolenza, cui è dedicato un
intero volume, il 4°, della raccolta dei suoi scritti, che ho scelto
di prendere come riferimento principale, per esporre soltanto
qualcosa del suo pensiero, le idee che trovo in un suo discorso con
dibattito, sulla pace, l’obiezione di coscienza, la società,
tenuto nel liceo classico di Città di Castello il 25 ottobre 1998
(Scr. A.B., vol. 4, p. 113-147).
Più volte il vescovo della
pace denuncia il «mito della difesa armata» (Scr. A.B., vol. 4, p.
117; 140-141): si tratta di quella «ideologia della violenza»
smascherata dai filosofi della pace (cfr Jean-Marie Muller, Il
principio nonviolenza. Una filosofia della pace,
Pisa, Ed. Plus 2004), per la quale contro la violenza non c’è
altro mezzo efficace che altra violenza, necessariamente maggiore,
con l’effetto di stabilire e legittimare la violenza come regina
della storia, catena senza fine. Di questa ideologia, di questo mito,
sono ancora prigioniere quasi tutte le politiche, di destra come di
sinistra, sebbene alcuni segni iniziali ma preziosi di ripensamento e
di dibattito emergano anche in alcuni settori del ceto politico, e
non solo nella cultura nuova di base10.
Don Tonino sa bene che la
difesa dei giusti diritti aggrediti non è solo un diritto, ma un
dovere, però crede e pensa nella direzione della difesa nonviolenta,
sostenuta dalla popolazione. Non possiamo ora addentrarci più di
tanto in questa cultura di lotta, in questa strategia di pace nei
conflitti, che è un ampio campo di lavoro della cultura di pace, una
ricerca che non parte da zero, che ha una storia per lo più ignorata
e anche occultata (vedi la bibliografia storica appena citata), che
ha delle possibilità che la politica di pace deve conoscere e
sviluppare. Don Tonino fa la sua parte incoraggiando a cercare in
questa direzione.
Egli è uno dei pochi
personaggi in vista nella società, capace di cogliere che la difesa
popolare nonviolenta ha il valore pratico di emancipazione dalla
guerra, di sostituto all’uso delle armi omicide. La indica spesso
come la direzione di ricerca e la prassi da percorrere, per un
effettivo e non declamatorio impegno di pace. Questa ricerca ha un
momento negativo, le obiezioni di coscienza, e uno positivo, le
azioni nonviolente.
Il momento “negativo”,
nella costruzione di un modello di difesa non militare e non omicida,
è l’obiezione di coscienza all’addestramento militare, al lavoro
di costruzione delle armi e al loro commercio, alle alte spese
militari dello Stato, obiezioni di cui il vescovo parla spesso;
l’obiezione alle spese militari la pratica lui stesso, come qualche
altro vescovo. Quando ne fa la propaganda, è consapevole, con una
battuta, di compiere una piccola illegalità: «Questo non lo posso
dire in pubblico, perciò è come se non l’avessi detto» (Scr.
A.B., vol. 4, p. 130). Infatti, per un certo periodo, chi proponeva
questa obiezione – che non era sottrarre denaro dovuto al fisco, ma
dirottarlo su opere di pace, con l’effetto, alla fine, di pagare il
doppio nell’esazione forzata – veniva incriminato per istigazione
a disobbedire alle leggi, ma nei processi gli accusati vennero tutti
assolti.
Il momento “positivo”, per
Tonino Bello, consiste nella preparazione e disponibilità ad azioni
e presenze personali organizzate, in zone di conflitto, per la
prevenzione, la mediazione, la riconciliazione, prima, durante e dopo
i conflitti acuti, a rischio di degenerazione o già degenerati in
violenza. L’esperienza iniziale, già avviata in numerosi casi,
della difesa popolare nonviolenta, ha visto lui stesso partecipare,
già gravemente malato, deciso ad andare «anche con le flebo
addosso» alla marcia di pace a Sarajevo, nel dicembre 1992, dove
espresse tutta la sua profezia.
Torniamo indietro: 1991,
Guerra del Golfo. Le speranze dell'89, anno delle più grandi
rivoluzioni nonviolente della storia (si veda il libro più
documentato su questo punto: Giovanni Salio, Il
potere della nonviolenza,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995), sono spente dalla ostinazione
dei "vincitori" della guerra fredda a volere rilegittimare
la guerra, come criterio e metodo di soluzione dei conflitti. Una
guerra, si badi bene, non a difesa del diritto internazionale e dei
popoli, spesso e largamente violato da molti altri senza alcuna
risposta bellica, quanto del primato e degli interessi materiali dei
potenti del mondo, come essi stessi affermeranno di lì a poco nei
"nuovi modelli di difesa" che dichiarano a chiare lettere
tali fini e prendono esplicitamente a modello la Guerra del Golfo11.
Tonino Bello è in prima fila,
con enorme pena interiore, con mille instancabili iniziative,
nell'impegno totale per la pace, che fa onore in quel momento alla
Chiesa, ma c’è una cosa che lo distingue: in una lettera ai
parlamentari dell'inizio di gennaio 1991 prospetta come extrema
ratio ciò che
nessuna autorità morale - salvo Oscar Romero, nell’ultimo suo
appello ai militari a disobbedire agli ordini di morte - ha detto, né
allora né poi: la possibilità di «dover esortare direttamente i
soldati, nel caso deprecabile di guerra, a riconsiderare secondo la
propria coscienza l'enorme gravità morale dell'uso delle armi»
(Scr. A.B., vol. 4, p. 223). Lo leggiamo anche nel Vangelo: «Come
mai non sapete capire questo tempo? Perché non giudicate da voi
stessi ciò che è giusto?» (Luca 12,56-57).
È vero che poi, scoppiata la
guerra, Tonino Bello non rivolse questo appello alle coscienze dei
soldati che la combattevano. Ma quel suo avvertimento resta
indicativo di quello che sarebbe il modo più proprio al magistero
morale della chiesa, se la chiesa è una fraternità di coscienze, di
opporsi alla guerra e indicare la pace12.
Solitamente l'appello morale
pratico contro la guerra da parte di vescovi e papi è rivolto alla
buona volontà dei responsabili politici, dei governanti, non alle
coscienze dei cittadini e dei soldati chiamati ad eseguire le
politiche di guerra. Perché? Timore di interferire coi poteri
economici e politici? Non c'è però un uguale timore di entrare
d'autorità nella vita intima e spesso difficile delle persone, con
l'imporre alle coscienze obblighi di etica sessuale dettagliatamente
definiti in tutto il loro peso. Sembra, davanti a questo fatto, che
il magistero morale della chiesa cattolica sia più delicato coi
poteri forti che con le persone deboli e alle prese con difficoltà a
volte drammatiche, che pesano per lo più sulle donne.
Tonino Bello, dunque, poneva
nel 1991 il problema della guerra e della pace a quell'istanza
suprema che è la coscienza personale, certo non isolata ma
responsabilmente decisiva. Questo è eversivo. Craxi e il "Giornale"
di Montanelli rispondono con l'irrisione e l'insulto. Il deputato
repubblicano Gaetano Gorgoni, conterraneo di don Tonino, cita il
Qohelet per dargli del pazzo. Ma Tonino Bello ripete, ancora più
chiaramente, in una intervista televisiva, che se un pilota non può,
in coscienza, bombardare i civili, deve avere il coraggio di
disertare. Dell'ammiraglio Buracchia, privato del comando della
spedizione navale italiana nel Golfo perché ha dichiarato che «la
guerra si poteva evitare», dice con ammirazione: «Ha dato voce e
libertà alla sua coscienza» (C. Ragaini, op.
cit., p. 118, 119,
122, 123).
Ma il consiglio permanente
della Cei, per bocca di Ruini, prende le distanze: «Le scelte
politiche non ci competono». Come se la guerra fosse una scelta
politica, e non invece l’uccisione, oltre che di vite umane, anche
della politica umana. Così altri vescovi, come Biffi e Saldarini,
dicono in sostanza: pace si', pacifismo no. Questa posizione, oltre
che una facile scappatoia verbale, appare vittima dell'errore di
pensare il pacifismo unicamente come rinuncia per viltà alla lotta
giusta, ma questo senso della parola è superato dalla attuale
cultura della pace e dalla realtà dei movimenti seri per la pace,
ispirati largamente alla nonviolenza attiva, più profonda e ampia di
un limitato pacifismo.
Anche nell'episcopato pugliese
Tonino Bello incontra posizioni differenti dalle sue. La maggiore
amarezza gli viene dagli ambienti ufficiali della città, dalla
Democrazia Cristiana, da alcuni settori del suo clero, anche da una
parte del consiglio pastorale, che non capiscono né condividono le
sue posizioni radicali contro la guerra e l'intervento italiano (C.
Ragaini, op. cit.,
p. 124-127). «La cosa che più mi fa soffrire - commenta il vescovo
Tonino - è di vedermi delegittimato nella mia funzione di pastore.
Se un vescovo non può appellarsi alla coscienza, cosa gli resta?
Decidere dei colori dei paramenti?" (Cfr Ragaini, op.
cit, p. 128).
Appellarsi alla coscienza è il compito primo del vescovo, per don
Tonino Bello. Il quale, nella sofferenza, sa sollevare il proprio
animo con una battuta.
Prima della guerra oggi in
corso in Iraq, la più ingiustificabile e illegale delle guerre, se
mai alcune si potessero giustificare, una suora clarissa – siamo
qui, vicini a santa Chiara - da un convento di clausura italiano,
fece circolare sulla posta elettronica un appello al Papa, che stava
parlando con energia profetica contro la guerra, perché, appunto,
facesse un passo di più, si rivolgesse alle coscienze di chi la
guerra la fa, non solo di chi la decide, esortandoli, con rispetto
della loro libertà e responsabilità, a considerare il dovere di
negare collaborazione al male, obiettando, disobbedendo civilmente,
cioè accettando di pagarne le conseguenze. Ci fu nella rete un’ampia
circolazione e molte adesioni a questo appello. Siamo quasi certi che
l’appello arrivò “in alto”, come si suol dire, ma non ci fu
alcun segno di risposta o di considerazione. Avranno avuto le loro
ragioni. Ma quella piccola clarissa intraprendente non ha più
scritto in rete. Recentemente ho saputo da altri che è stata assai
rimproverata, “tartassata” per i suoi interventi, da diverse
parti, anche parecchio in su. Don Tonino la conforterebbe. Cercherò
di farlo io che so dove trovarla.
Molti altri temi potrebbero
essere raccolti nel pensiero di Tonino Bello sulla pace nonviolenta:
la parresia (il coraggio di dire tutto); il punto di vista degli
oppressi; la spiritualità di pace; la cultura di pace; la strategia
e il progetto concreto, perché i princìpi non bastano; il valore
dell’utopia; il valore politico del perdono, che corrisponde, dice
don Tonino, al disarmo unilaterale (Scr. A.B., vol. 4, p. 141), cioè
all’iniziativa unilaterale nel disarmo (come fece Gorbaciov);
eccetera.
Un tema solo ricorderò
ancora: la tentazione cattolica del “Prodigio”. Don Tonino
interpreta le tre tentazioni di Gesù nel deserto, come le tentazioni
del Profitto, del Potere, del Prodigio. «Nel mondo dei credenti
molte volte diciamo: “Tanto la pace viene da Dio; noi possiamo fare
ben poco, così è stato sempre; piuttosto mettiamoci in ginocchio,
imploriamo la pace; il Signore farà un prodigio!”. La tentazione
del Prodigio è una tentazione frequente. Si vuol togliere un po’
dalle nostre mani, dal nostro impegno, questa forza» (Scr. A.B.,
vol. 4, p. 116-119). Si vuole neutralizzare la forza della preghiera,
spingendola dove non incontra la forza di Dio.
Effettivamente, avviene spesso
così. Bisogna capire: è tale la mostruosità delle potenze
violente, è tale la difficoltà di capire le arti del male, che per
tanti, spesso per tutti, sembra che non resti altro che pregare:
piangere e pregare. Eppure, Dio ha già risposto alla nostra
preghiera: «Vi ho dato la coscienza, vi ho dato l’intelligenza, vi
ho dato la politica, che è la forza di agire insieme. Usate questi
miei doni. Il prodigio è questo. Il mondo è nelle vostre mani,
questa è la laicità. Io sono con voi, come dissi a Mosè quando lo
mandai a sfidare il Faraone». Chiedere di più a Dio per fare e
rischiare noi di meno, è una tentazione suggerita dal diavolo,
avversario di Dio e degli uomini. Ma appare come una buona
tentazione, una pia tentazione. Don Tonino ci avverte in più
occasioni. Pregare dà un’anima all’azione, ma non basta se non
spinge all’azione, fuori dalle coperture, assumendo responsabilità
e rischi, ognuno come può. Anche la vecchina che non può uscire di
casa, ma mette la bandiera della pace alla finestra, fa la sua
politica di pace.
Tante persone buone, se non
sono aiutate, cadono in quella tentazione religiosa, che Gesù
respinse. Tanti pensano: se cerchiamo di essere buoni nella vita
privata, nei rapporti personali, facciamo tutto il possibile per la
pace. Non è vero. Se anche diventassimo tutti molto molto buoni, un
grande passo sarebbe fatto, ma non verrebbe ancora la pace. Persone
buone in strutture cattive fanno cose cattive. Persone buone su un
treno che schiaccia vittime, se appena lo sanno, e non legano il
macchinista e non fermano il treno, tutte insieme, non sono più
buone, sono complici passive della violenza. Il fatto è che la
guerra, ogni violenza, non è solo opera di persone malvagie, è
anche effetto di culture e di strutture, di feroci interessi
mascherati da valori. È necessario che io sia buono, ma non è
sufficiente. Se non operiamo, ognuno come può, a modificare le
culture, a rompere le strutture violente, a smascherare i falsi
valori, la nostra preghiera per la pace non è sincera e
responsabile. Pregherò ancora di più e meglio, e poi boicotterò
certa televisione e certi prodotti commerciali, mi informerò in un
modo invece che in un altro, starò in contatto con altri, nelle
associazioni e nei movimenti per la giustizia e la pace, non starò
più tranquillo, non avrò schifo della politica, ma sarò un
cittadino attivo – ognuno come può – per una politica umana. Non
sarò in pace se non c’è pace. La religione, la carità si traduce
in politica come servizio, non certo come potere proprio: è un
pensiero centrale in Gandhi, in Capitini, ed anche in Tonino Bello.
Don Tonino racconta la
parabola del Samaritano moderno: l’industriale che regala
l’ambulanza per soccorrere le vittime dell’inquinamento prodotto
dalla sua fabbrica, è come il sacerdote e il levita che passano
oltre; il Samaritano è il volontario che muove un’azione di popolo
per eliminare quell’inquinamento (Scr. A.B., vol 4, p. 126-128).
Il 19 settembre del 1987,
Tonino Bello parla a Padova, ai medici impegnati per il Terzo Mondo,
sulla nonviolenza in una società violenta. E ricorda che pochi
giorni dopo, il 4 ottobre, i vescovi della Puglia sarebbero venuti
qui, ad Assisi, ad accendere la lampada della pace sulla tomba di
Francesco. Legge alcune righe di un suo articolo che non era stato
pubblicato – ma per bontà non dice da quale giornale – nelle
quali righe traspare il suo dolore per il fatto che la reazione dei
movimenti cristiani nonviolenti alla spedizione militare navale
italiana nel Golfo Persico, «la prima oltre confine», aveva
incontrato non solo il distacco e la derisione di certi organi di
stampa, ma anche «la prudenziale abbottonatura con cui, come Chiesa,
abbiamo evitato di prendere una chiara posizione sul problema». Si
augura che quelle navi non sparino un colpo, «ma un primo siluro
l’hanno già lanciato (…) contro la nave-scuola su cui da ormai
cinquant’anni impartiscono lezioni di pace Gandhi, Luther King,
Tillich, Capitini, La Pira, Lanza del Vasto, Helder Camara, don
Milani, Bobbio, Bettazzi e così via» (ma dimentica Mazzolari). (cfr
Scr. A.B., vol. 4, pp. 55-57). Eppure, don Tonino non si scoraggia.
Accende sempre di nuovo la lampada, accanto a san Francesco.
6. Conclusione
«Ogni discorso resta a mezzo»
(Qohelet 1,8, traduzione Paolo Sacchi). Tante altre parole e altri
profili di Tonino Bello in rapporto ai laici nella Chiesa e nel
mondo, si trovano nei cinque volumi dei suoi scritti, oltre che nella
memoria diretta che possiamo averne. Si può illustrare assai meglio
la sua teologia e pastorale sul laicato. Ma non è forse laicato,
laòs,
popolo unico, tutta la chiesa, certo con varietà di funzioni e
carismi, ma senza quella secolare divisione nei «duo genera
christianorum» (due generi di cristiani, laici e clero) di cui
parlava il Decretum Gratiani, del 1140? Specialmente sulla pace, don
Tonino, con le sue analisi e le sue azioni, fa anche la parte dei
laici, e i laici, a volte, fanno la parte del magistero, quando
questo tace. A me sembra una felice confusione!
Noi laici pecchiamo spesso o
di passività, o di indifferenza, o di ipercritica verso i vescovi;
delle tre, meglio la critica, se è seria e se si accompagna
all’impegno nella pasta del mondo e nella pasta della chiesa.
Noi laici dobbiamo assai di
più aiutare i vescovi, superare la “cortina di carta” (come
diceva don Milani). Ma possiamo anche chiedere una cosa ai vescovi.
Don Tonino non chiamava il barbiere in vescovado per farsi tagliare i
capelli (G. Amaini, Un
addio a don Tonino,
in Avvenire,
29 aprile 1993, p. 20), ma arrivava nel negozio e aspettava il suo
turno, parlando con tutti. Certo, il suo era un carisma speciale, che
non è di tutti. E per tante comprensibili ragioni questo non è
sempre a tutti i vescovi possibile. Ma se incontrassimo qualche volta
il nostro vescovo dal barbiere, o in panetteria, e non solo nei
documenti della Cei, che sono molti e lunghi (anche questa mia
relazione è tanto lunga…), forse gli parleremmo e lo ascolteremmo
di più.
Enrico Peyretti, Assisi, 15
settembre 2004
enrico.peyretti@gmail.com
1
Rodolfo Venditti, L’obiezione
di coscienza al servizio militare,
3ª edizione, A Giuffré editore, 1999, p. 46, che cita Massimo
Toschi, Pace e
Vangelo. La tradizione cristiana di fronte alla guerra,
Queriniana, Brescia 1980, p. 26.
2
Giovanni Paolo II, Lett. ap. Ordinatio
sacerdotalis (22
maggio 1994); AAS 86 (1994), 545-548; Congregazione per la Dottrina
della Fede, Risposta al dubbio circa la dottrina della Lettera
apostolica Ordinatio
sacerdotalis (28
ottobre 1995); AAS 87 (1995), 1114.
3
Cfr E. Peyretti, La
santità come passione per l’uomo. La figura di monsignor Tonino
Bello, in AA.VV.
Modelli di santità
oggi, a cura di
Giuseppe Toffanello, Edizioni Messaggero, Padova 1997, pp. 75-76.
4
In un’altra occasione raccolsi più elementi su questo argomento:
vedi E. Peyretti, La
santità come passione per l’uomo. La figura di monsignor Tonino
Bello, citato, pp.
73-102, specialmente pp. 85-94, Santi
senza Dio?. Su
Bobbio, sotto questo profilo, segnalo, nell’attesa di pubblicare
qualcosa della intensa corrispondenza che ho avuto con lui,
l’articolo che ho scritto su di lui dopo la sua morte, Bobbio,
il senso della democrazia,
in Mosaico di pace,
n. 2, febbraio 2004, pp. 10-11 (in edizione più ampia col titolo
Bobbio, la vita, la
pace, la religione,
nel sito http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti
5
Enzo Bianchi, in AA.VV., La
pace dono e profezia,
Magnano, ediz. Qiqaion, 1991, p. 5).
6
Vedi E. Peyretti, La
santità come passione per l’uomo. La figura di monsignor Tonino
Bello, citato, pp.
97-98, dalla fonte Ragaini, Don
Tonino, fratello vescovo,
5ª edizione citata, pp. 124-128.
7
Posso rinviare al mio La
politica è pace,
Assisi, Cittadella editrice 1998, pp. 124-135, ma, nel frattempo, la
ricerca sul pacifismo islamico è avanzata, nonostante pesanti
fenomeni di violenza politica che abusa del nome dell’islam, come
altri abusano del nome cristiano, fenomeni entrambi utili ai fautori
della guerra tra civiltà.
8
Scritto nel 1952, il libretto uscì anonimo, grazie all’editrice
La Locusta, di Rienzo Colla, nel 1955 e 1957, e gli procurò delle
noie ecclesiastiche. Solo la terza edizione, nel 1965, poté portare
il nome dell’Autore.
9
Segnalo, a questo proposito, la bibliografia da me curata Difesa
senza guerra, sui
molti casi storici di lotte nonviolente, nel sito
http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti
10
Cfr AA.VV., Agire la
nonviolenza, Atti
del convegno del Partito della Rifondazione Comunista, San Servolo,
Venezia, 28-29 febbraio 2004, Milano, Edizioni Punto Rosso, novembre
2004. Un contrastato dibattito si è aperto in quel partito,
documentato dalla stampa e da precedenti opuscoli.
11
Per la critica dei "nuovi modelli di difesa" statunitense,
tedesco e italiano mi limito qui ad indicare il libro, pensato da
Ernesto Balducci, di U. Allegretti, M. Dinucci, D. Gallo, La
strategia dell'impero,
Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole 1992, e il più
breve degli articoli da me scritti sull'argomento, Difendere
che cosa? e come?,
in Rocca,
1 dicembre 1994, p. 47. Ho disponibile una scheda, Denuncia
del Nuovo Modello di Difesa,
con citazioni letterali da quei documenti di politica militare
aggressiva e incostituzionale, mai rinnegati da nessuno dei
successivi governi italiani, ed anzi promossi e messi in pratica.
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Un chiaro esempio di questa convinzione è l’intervento di un noto
teologo della pace che invita i cappellani militari all'obiezione di
coscienza.
Su Famiglia Cristiana del 9 febbraio 2003 leggiamo la risposta del teologo Giuseppe Mattai alla lettera di un prete, don Gennaro, che chiedeva: "in una guerra come quella all'Iraq, un cappellano può assolvere un pilota che bombarda innocenti? Se abortire è un peccato, che dire di chi si arruola in una struttura di morte?". Replica il teologo: "il militare che, in questa guerra "preventivata" ad ogni costo, partecipa direttamente ad azioni omicide, coinvolgenti un numero sempre maggiore di civili e, lungi dal sollevare obiezioni di coscienza, si ostina nella sua decisione, non può essere assolto". Non solo, P. Mattai sottolinea che il bombardiere è anche più responsabile di un abortista, "sia per il numero delle persone che sopprime e le distruzioni che arreca, sia per le possibilità che gli vengono offerte da un'obiezione di coscienza, sostenuta da tanta parte della pubblica opinione e dal sensus fidei degli aderenti a Chiese cattoliche e non, uniti nella condanna etica, giuridica e politica di questa guerra". Il settimanale quindi invoca l'obiezione di coscienza per i cappellani militari che, pur partecipando con azioni non militari, non possono dare l'impressione di giustificare questa guerra.
Su Famiglia Cristiana del 9 febbraio 2003 leggiamo la risposta del teologo Giuseppe Mattai alla lettera di un prete, don Gennaro, che chiedeva: "in una guerra come quella all'Iraq, un cappellano può assolvere un pilota che bombarda innocenti? Se abortire è un peccato, che dire di chi si arruola in una struttura di morte?". Replica il teologo: "il militare che, in questa guerra "preventivata" ad ogni costo, partecipa direttamente ad azioni omicide, coinvolgenti un numero sempre maggiore di civili e, lungi dal sollevare obiezioni di coscienza, si ostina nella sua decisione, non può essere assolto". Non solo, P. Mattai sottolinea che il bombardiere è anche più responsabile di un abortista, "sia per il numero delle persone che sopprime e le distruzioni che arreca, sia per le possibilità che gli vengono offerte da un'obiezione di coscienza, sostenuta da tanta parte della pubblica opinione e dal sensus fidei degli aderenti a Chiese cattoliche e non, uniti nella condanna etica, giuridica e politica di questa guerra". Il settimanale quindi invoca l'obiezione di coscienza per i cappellani militari che, pur partecipando con azioni non militari, non possono dare l'impressione di giustificare questa guerra.
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