Morte,
violenza, nonviolenza
Sulla
spiritualità di Nanni Salio
Nell'incontro, nel secondo anniversario della morte di Nanni Salio, avvenuta il 1 febbraio 2016, nel Centro Studi Sereno Regis, Torino
Spiritualità
/ Di fronte alla morte / Morte, violenza, nonviolenza:
modi di morire
La
nonviolenza sfida la morte / La morte rivela e compie la vita
Spiritualità
Nel
secondo anniversario della morte, ricordiamo Nanni Salio, tornando in
vari modi sul suo lavoro, sulla sua ricerca, sulla sua vita, sul
senso che ha dato alla sua vita. Qui tento di scoprire qualcosa della
sua spiritualità. Ho già cercato, dopo la sua morte, come in un
commiato, di leggere la sua vita come una “vita per gli altri”.
Questa è, ne sono intimamente convinto, una forma di vita che la
morte non annulla. (Vedi
http://serenoregis.org/2016/02/06/con-nanni-salio-gandhi-in-mezzo-alla-morte-persiste-la-vita-enrico-peyretti/
).
Che
cosa è la spiritualità di una persona? Direi, con semplicità, che
è quel nucleo di valori, persuasioni e sostegni, obiettivi di vita,
che in una persona orientano la sensibilità e le scelte. È la vita
intima e profonda di una persona, la sua capacità di sentire e
rispondere ad appelli della vita. Una spiritualità può attingere a
lunghe tradizioni spirituali e sapienziali, plasmate ora più ora
meno in forme personali. Ci sono spiritualità religiose, più o meno
strutturate, e ci sono spiritualità che non si riconoscono in
tradizioni religiose, anche se da tutto sanno ricevere alimento alla
vita profonda.1
La spiritualità
significa qualcosa che non è il livello intellettuale né l'emotivo,
non è una religione, non è una filosofia, ed è anche qualcosa di
queste. È ciò che "ispira" dal profondo, dall'intimo, il
pensare e l'agire di una persona. È il mistero di una persona, che
un po' traspare e molto resta inverificabile e assolutamente
inviolabile, di quella persona, e solo in parte si può cogliere e
descrivere, senza pretesa di definirlo.
Riusciamo
a vedere qualche carattere della vita spirituale di Nanni? Non è
tentativo che uno possa affrontare da solo: gli amici, gli eventuali
lettori che hanno conosciuto Nanni, potranno integrare. Io lo ricordo
severo ed esigente con le religioni istituzionalizzate, specialmente
nel nostro Occidente, ma non sordo, e tanto meno sprezzante, verso la
sensibilità delle persone religiose. La laicità di Nanni era
lontana, per quanto ne ho capito, da una freddezza che a volte si
constata, verso la dimensione spirituale dell'umano. Riconosceva i
maggiori profeti e i santi della giustizia e della pace nelle diverse
tradizioni storiche religiose. Vedeva che, dove le religioni cercano
e acquistano un potere nella società, offuscano la loro luce e non
aiutano il cammino della pace fondata negli animi. Oggi, anche il
pacifico buddhismo, a cui Nanni era vicino, in alcune società in cui
prevale, come il Myanmar, ha dato luogo a fatti di discriminazioni
violente, dolorose per tutti noi. Dove invece le religioni “dicono
la verità al potere” (espressione attribuita a Gandhi), esse
contribuiscono alla vita giusta. Nanni coltivava la riflessione
razionale e scientifica per la costruzione della pace, ma, come
discepolo di Gandhi e di Capitini, profondamente religiosi, non
poteva non sentire le vibrazioni interiori e gli orizzonti di questi
maestri sul mistero che ci avvolge e ci chiama, nella storia, verso
la vita giusta.
Nel
cattolicesimo italiano Nanni sapeva vedere gli impegni per la pace,
ma sempre con vigile esigenza. Per esempio, ricordo che, sul famoso
giudizio dato dal papa Benedetto XV, il 1° agosto 1917, sulla guerra
mondiale allora in corso, «Inutile
strage», Nanni diceva con amara ironia: «Come
se potesse esserci una strage utile….».
L'opera
per la pace, precedente e seguente, di quel papa non ascoltato, è
ben più ampia e approfondita di quella sola frase.2
Ma Nanni aveva ragione perché la Chiesa, fino al Concilio 1962-65,
non mise in discussione la teoria antica della “guerra giusta”, o
meglio “giustificata” a ben determinate condizioni. Di questa
dottrina era facile abusare da parte degli interessi di potenza, a
cui si piegava la morale ufficiale: i cappellani militari insegnavano
che uccidere in guerra per obbedienza, senza odio personale, non era
peccato, ma dovere del buon suddito.3
Furono pochi gli obiettori di coscienza per motivo cristiano fino
dalla prima guerra mondiale e crebbero di numero dopo il Concilio,
insieme ad una crescente teologia della pace.4
La
severità esigente verso le religioni, come quella di Nanni Salio, è
sintomo di bella sensibilità spirituale, di attesa di un bene
operante. Le religioni devono far tesoro di chi, stimolandole e
criticandole, le aiuta nel loro compito di sviluppare lo spirito
umano.
Di
fronte alla morte
Ogni
spiritualità si misura sul senso positivo che riesce a dare alla
vita, e perciò anche si confronta con ciò che colpisce e riduce la
vita: la violenza e la morte; l'offesa e il dolore; il tempo che
limita e taglia le aspirazioni umane. Una spiritualità che riconosce
valore alla vita, che ama la vita, resiste e si oppone a tutto ciò
che violenta la vita. Nanni
amava la vita, le vite, le persone, la natura, pur parlando spesso,
con il buddhismo, di "impermanenza" nostra e di tutto. Il
“non permanere” in questa via, io penso che non significhi
unicamente finire nel nulla, ma possa significare anche passare in
altre forme di vita. La fragilità, la precarietà e provvisorietà,
non riduce il valore e la bellezza, il dovere di difendere la vita
dalla violenza. Non è la forza materiale che dà consistenza e
valore a ciò che vive.
Alla
nonviolenza Nanni ha dedicato tutta la sua vita e ogni sua energia.
La nonviolenza positiva è una passione per la vita, proprio per la
vita fragile e minacciata, e non vuole, strenuamente non vuole, non
accetta, non sopporta che la vita sia offesa, che sia usata come
strumento utile, che sia dominata e oppressa: la nonviolenza non
vuole che la morte prevalga sulla vita. Eppure ogni vita è limitata
dal tempo, e muore. Come sta la nonviolenza di fronte alla morte, ad
ogni forma di morte?
«Di
fronte alla morte si aprono domande poco esplorate, anche da chi come
noi si propone di costruire una cultura della nonviolenza».
Così
scriveva Nanni Salio a Giuliano Pontara, l' 8 novembre 2015,
all’indomani della morte, pochi mesi prima di lui, della propria
compagna Daci.
Nanni
sentiva che la nonviolenza deve dare una risposta sul problema della
morte. Sono convinto che aveva una sua bozza di risposta, anche se mi
disse, anni addietro, che sperava di vivere a lungo per portare più
avanti il lavoro. Su Transcend Media Service, in data 5 luglio 2010,
Nanni Salio commemorava Elise
Boulding, Enzo Tiezzi, Rina Gagliardi, scomparsi da poco, sotto il
titolo
“Impermanenza, Compresenza e Fragilità”. Scriveva in
conclusione: «Pur
nella continua incertezza esistenziale delle nostre vite, ci è di
conforto pensare e percepire la vostra presenza nel grande oceano
della compresenza capitiniana, dell’inter-essere, delle onde di
coscienza individuali nel quale un giorno anche noi confluiremo».
Così, dalla morte di alcuni maestri raccoglieva una eredità di
pensiero e impegno, vedendo la loro impalpabile continuità nella
nostra vita.
C'è
poi la nostra morte personale. A questa certamente Nanni pensava
molto nel tempo della sua malattia, quando rispose ad una comune
amica: «Mi chiedi Come sto? Eh, si vede la vita in un altro modo».
Non
mi risulta che abbia sviluppato o espresso una più ampia riflessione
specifica sulla nonviolenza e la morte. In ogni caso, suggerita dalla
vita di Nanni, e dal medesimo impegno per la nonviolenza, questa
ricerca è compito nostro. Una vita nonviolenta combatte la morte
inflitta, aggiunta, ma di fronte alla morte inevitabile che cos'altro
può fare?
Morte, violenza, nonviolenza:
modi di morire
Che cosa può fare la
nonviolenza di fronte alla morte? Che cosa sa e cosa dice la
nonviolenza sulla morte? Direi che può fare due cose: combattere la
morte, e addomesticare la morte, riconciliarsi con essa. La morte è
sempre nemica, o può essere amica?
La violenza è morte aggiunta, artificiale e cattiva, alla nostra
morte naturale. La guerra, e le altre forme di violenza, anche
strutturali e culturali, credendo di ribellarsi alla morte, la
moltiplicano e la incrudeliscono. Evitare questa morte nemica è
opera di vita, è costruzione di bene e di felicità possibile. È
l'opera della pace giusta.
La morte naturale può essere non violenta, o addirittura amica?
Spesso è difficile, travagliata, dolorosa. Un impegno nonviolento
della scienza medica e della vita sociale, può ridurre il dolore
della morte, umanizzarla quanto possibile assicurando la coscienza e
la dignità di chi muore, in modo che possa essere una morte se non
dolce, almeno pacifica.
Guardiamo alcuni modi di morire. La retorica violenta ha esaltato la
morte del combattente, cioè di chi riceve la morte mentre dà morte,
coinvolto in una spirale folle e tetra. Ha celebrato la morte
dell'eroe violento, che ha molto ucciso; ha cantato la “bella
morte” fascista, ha consacrato la morte del “martire” -
“testimone” di che cosa? - sacrificatosi per uccidere. In simili
esperienze, è la violenza che regna sulla vita. Questo morire,
usando la morte propria come arma contro la vita altrui – tipico il
terrorista sui-omicida – è un servire la morte disprezzando la
vita, è impersonare la violenza, è ridurre la vita umana ad un
caso biologico, senza una dimensione dello spirito.
Ci sono altri modi di morire. Negli stessi giorni di Nanni cade
l'anniversario – il 30 gennaio 2018 è il settantesimo –
dell'uccisione di Gandhi da parte di Godse, un fanatico indù.
Gandhi distingueva la nonviolenza
del debole e del vile dalla nonviolenza del forte. Noi
sappiamo che una volta egli si chiese: «Ho io in me la nonviolenza
dei forti? Solo la mia morte lo mostrerà. Se qualcuno mi uccidesse e
io morissi con una preghiera per il mio assassino sulle labbra, e il
ricordo di Dio e la consapevolezza della sua viva presenza nel
santuario del mio cuore, allora soltanto si potrà dire che ho la
nonviolenza dei forti»5.
Jean-Marie Muller commenta così: «Gandhi è morto esattamente come
aveva intravisto. Noi sappiamo oggi quello che lui stesso ignorava:
egli possedeva realmente in sé la nonviolenza dei forti»6.
Nella morte di Gandhi ci sono due cose: da un lato l'odio fanatico,
il crimine dell'assassino, dall'altro una pienezza di vita per
Gandhi. Certo, la sua azione per l'unità e la nonviolenza dell'India
(ben più che la liberazione dal colonialismo inglese) fu spezzata,
ma l'atto di morire con amore ha resa la sua azione ininterrotta e
diffusa in tutti i paesi. La morte di Gandhi ha neutralizzato la
violenza con cui gli è stata inflitta, l'ha rovesciata in una
feconda nonviolenza. Gandhi ha transustanziato – cambiato la
sostanza – dell'atto che gli ha dato la morte. La Grande Anima, il
Mahatma, che viveva in quel piccolo uomo seminudo e magro, un vulcano
di energia spirituale, si è diffusa in tutto il mondo, accendendo
mille resistenti tenaci focolai di spirito, desiderio, ricerca,
azione nonviolenta.
La storia umana, minacciata e deturpata da tante violenze di ogni
genere, sta coltivando e sperimentando anche la forza della
nonviolenza, che umanizza tante situazioni di conflitto. La cultura
dominante non sa ancora vederlo, ma lo vede chi si cura di esplorare
la letteratura storica ormai abbondante che documenta le lotte
nonviolente, specialmente da un secolo in qua. La nonviolenza non si
impone, non ha una logica di vittoria, non rovescia il mondo da
feroce a tutto mite, ma mantiene tenacemente aperta l'alternativa
operante della sapienza politica, cioè del saper vivere insieme
senza dominare o distruggersi, e questa è realtà che smentisce il
dogma della forza violenta come regina della storia.
La legge della vita è la forza nonviolenta, diceva Gandhi.
Questa forza nonviolenta sfida la morte in Gandhi, attivissimo,
ucciso da una morte che non poté distruggerlo, e sfida la morte in
tutto il movimento storico mondiale mosso dalla sua esperienza,
movimento che riassume la migliore sapienza “antica come le
montagne”, e apre il nuovo più umano modo di convivere. La
nonviolenza sfida le strutture, gli strumenti e le volontà che
imperano dando morte ai popoli, e sfida la morte che la violenza
infligge ai più coraggiosi e più esposti del movimento,
trasformandola in testimonianza di azione per la vita.
Il fondamento di questa fiducia forte nella vita e di questa attiva
speranza al di là delle forze di morte mi sembra espresso
limpidamente da Gandhi stesso, che scriveva: «…Vi è una forza
vivente, immutabile, che tiene tutto assieme, crea, dissolve e
ricrea. Questa forza o spirito informatore è Dio (…). E questa
forza è benevola o malevola? La vedo esclusivamente benevola, perché
vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna
persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce»7.
La resistenza della vita e del bene è argomento della fede di
Gandhi nella Verità, che per lui è l'unità profonda di tutte le
cose. Chi si impegna nella nonviolenza ha una fede, in tante forme
diverse, perché guarda e opera un passo più avanti del calcolo,
dell'interesse particolare, delle fazioni che dividono l'umanità,
della realtà limitata dalla morte e dalla violenza, e comincia già
a vivere nella “realtà liberata” (Capitini) per portarla nel
mondo attuale in cammino.
La nonviolenza sfida la morte
La nonviolenza sfida la morte, non respingendola addosso ad altri,
come fa la guerra (Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra),
ma contribuendo ad addomesticarla, a renderla domestica, familiare,
ad averla presente nel vivere. «Si
conoscono solo le cose che si addomesticano (…) Se tu vuoi un
amico, addomesticami», dice la volpe, che potrebbe anche lei essere
temibile, al Piccolo Principe. Riuscirà l'umanità a trasformare la
morte da nemica a “sorella” come la chiama profeticamente san
Francesco nel Cantico delle creature?
La
morte ci è presente non solo per l'amaro spettacolo continuo delle
violenze che uccidono e opprimono tante vite nel mondo, ma anche come
consapevolezza della nostra fragilità. Questa nostra morte,
specialmente con l'avanzare dell'età, va familiarizzata, per non
esserne ossessionati, per non chiudersi in un egoistico, avaro e
inutile risparmio di sé. Si può addomesticare
la morte con la scienza e l'arte medica, con la cura della salute,
con l'esercizio generoso della nostra attività, con l'amicizia,
l'affetto, la solidarietà sociale, con la speranza oltre il
visibile. Soprattutto si può riempire di vita la morte naturale e
inevitabile, vivendola come uno spendersi fino in fondo nel lavoro
per la giustizia e la pace.
Molti dei più coraggiosi amici della nonviolenza hanno pagato con la
vita il loro impegno, come abbiamo visto in Gandhi. Questo è un modo
di vincere la morte, di trasformarla in un atto di vita. Ma anche
chi, in limiti personali modesti, lavora per qualche lotta giusta con
mezzi nonviolenti, e coltiva il pensiero nonviolento, costui sta
consegnando la sua vita agli altri, alla pace, a uno stadio di
ulteriore evoluzione spirituale umana, e con la sua morte consegnerà
un po' più di vita a chi continua, come ha fatto Nanni a noi.
Morire nel patire violenza anziché far violenza ad altri, morire con
coraggio, con amore, senza subire passivamente la morte – così
hanno fatto Gesù, Gandhi, M.L. King e tanti altri -, può essere non
morire del tutto. Può essere continuare a parlare, ad essere
presenti negli altri e ispirarli ancora, può essere agire e vivere
ancora. Lo vediamo: nessuno ci parla e ci accompagna così
intimamente, dandoci forza per vivere, come quei morti coraggiosi.
La morte rivela e compie la vita
Si può e si deve parlare della morte, per dignità umana, non si
deve farne un tabù, mettendo la testa sotto la sabbia. È legge
della vita ridurre il potere della morte.
Ci occorre ammirare la bellezza della vita, scoprirla e coltivarla se
non l'abbiamo a sufficienza. Se la vita non fosse da ammirare, la
morte non sarebbe da temere. Guardiamoci dall'imprecare alla vita
quando è difficile, dura. Guardiamoci dall'invecchiare brontoloni e
ingrati. Scopriamo e liberiamo la pace della vita dietro il peso
dell'offesa e l'ombra del dolore. Perché temiamo la morte? Perché
amiamo la vita. Il vero timore, più del morire, è perdere il bene
della vita.
Dice Buddha: «Tutti temono la morte, tutti hanno cara la vita:
mettendoti al posto degli altri, non uccidere, e non fare uccidere»
(Dhammapada, I versi della legge, 10, 129-130). «Non
uccidere», neppure nel pensiero, neppure con la parola dura, Dice
Gesù: «Avete inteso che fu detto agli antichi: non uccidere. Chi
uccide è sottoposto al giudizio. Io invece vi dico: chiunque si
adira col suo fratello, o gli dice stupido, o pazzo, sarà sottoposto
al giudizio» (vangelo di Matteo 5,21-22). Il comando negativo
non-uccidere è solo il primo gradino della scala che ci porta verso
il più felice positivo comando: vivi e fa vivere. Invece, l' “ordine
delle cose” vigente offende ancora molto la vita. Gli stati si
arrogano ancora il potere di morte, col “monopolio della violenza”,
con armamenti folli e suicidi, e col prevalere di relazioni di pura
forza. Ha scritto papa Francesco: «Questa economia uccide»
(Evangelii
Gaudium,
n. 53). C'è ancora uno «scialo di morte» (diceva David Maria
Turroldo) nel mondo umano, che grava anche sulla natura, madre di
vita.
Nanni Salio amava vivere e lavorare. Fin da piccolo inorridì a
vedere in vetrina le carni macellate degli animali, e non voleva
mangiare carne, racconta la sorella Carla. Impiegò tutta la sua
capacità di ricerca, riflessione, organizzazione e diffusione, per
la difesa e liberazione della vita dalle offese della violenza, in
tutte le sue manifestazioni. Una vita come la sua non si esaurisce
con la morte. Nella morte temporale ha invece un compimento, si
riassume e si rivela nel suo valore. Se la morte è l'ultimo atto del
donarsi, è un atto di vita comunicata a noi. Chi «attraversa
la morte da vivo»
(come dice il teologo Carlo Molari) col compiere la sua vita genera
altra vita.
Poiché
il pensiero non è solo registrare i fatti, ma aprire ed esplorare i
confini - «Pensare è varcare le frontiere» (Denken ist
ûberschreiten),
dice Ernst Bloch, il filosofo dell'utopia concreta – noi sappiamo
che Nanni ha camminato con noi e con tanti altri come un esploratore
di umanità liberata e più vera, più viva. La
nonviolenza, cioè lo spirito profondo di Nanni Salio, di tutta la
sua vita, è questa impresa grande, verso una viva verità.
Enrico
Peyretti, 02 febbraio 2018
1
Segnalo il libro di autori vari, curato da Matteo Soccio,
Convertirsi alla nonviolenza? Credenti e non credenti si
interrogano su laicità, religione, nonviolenza. Gabrielli
editori, 2003
2
Ne
dava ampio resoconto un saggio di Italo De Curtis, in Orientamenti
sociali,
nn. 6-7, 1967, di 43 pagine.
3
Cfr Francesco Piva, Uccidere senza odio. Pedagogia di guerra
nella storia della Gioventù cattolica italiana, 1868-1943,
Franco Angeli editore, 2015
4
Jean-Marie Muller fa il punto sui più recenti passi di superamento
della teoria della “guerra giusta” nel ibro La violence juste
n'existe pas (Les éditions du Relié, Paris 2017)
7
Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità,
Milano 1965, p. 100.
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