venerdì 2 febbraio 2018


Una lettera del 2011 all'Arcivescovo
(pubblicata in sintesi in il foglio n. 380, marzo 2011, www.ilfoglio.info, qui integrale)
380 - Una lettera sincera e franca a Cesare Nosiglia, vescovo di Torioversione ie]


Torino, 26 dicembre 2010

Caro Signor Arcivescovo Cesare Nosiglia,
La ringrazio del Suo biglietto di auguri, e glieli ricambio di cuore.
Il mio augurio natalizio di quest’anno è stato: poiché di nascere non finiamo mai, dunque possiamo sperare, nonostante tutto.
Colgo l’occasione per scriverle questa lettera, che vorrei non tenere privata, dati gli argomenti comunitari. È una lettera lunga, e non è comoda: la legga solo se ha tempo. Vuole essere una lettera di sincerità e di dignità, che ignora il “muro d’incenso”. È una lettera mia, soltanto personale, ma credo (se non sbaglio) che rappresenti anche il sentire di altri cattolici, non pochi. Scrissi una lettera analoga, ma molto più sintetica, all’arcivescovo Poletto all’inizio del suo servizio, quando egli ebbe l’iniziativa bella e giusta di mandare un saluto e un segno di attenzione agli ex-preti.

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Non so se sono ancora cattolico. Né mi interessa molto. Vorrei, e prego lo Spirito santo, di essere un po’ cristiano.  Personalmente, non ho un problema ecumenico: la chiesa di Cristo è una “chiesa di chiese”, tutte con la stessa autenticità  - «dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» -, e solo Dio vede quanto ciascuna è fedele al Vangelo.
Però frequento principalmente la chiesa cattolica, in un angolino periferico, senza importanza. Partecipo alla chiesa nella preghiera, nella riflessione, nel dibattito, nella parresia. Forse saprà che da quarant’anni, con altri amici, pubblichiamo il “mensile di alcuni cristiani torinesi” il foglio (www.ilfoglio.info), che ora Le invieremo regolarmente.
Quando è il caso, partecipo al culto evangelico, alla Santa Cena, a cui riconosco lo stesso valore della messa cattolica. Riconosco Lei come vescovo di riferimento nella chiesa torinese. Mi dispiace solamente, anche per rispetto della Sua persona, che Lei sia arrivato qui nel modo in cui, in certe strutture patriarcali, uno sposo sconosciuto viene assegnato ad una sposa ignara; mi dispiace che sia stato designato da fuori, come un funzionario spedito in una prefettura, senza alcuna partecipazione della chiesa torinese alla Sua designazione. Ma sappiamo bene come questa è una penosa piaga della chiesa. Forse un vescovo, all’atto della sua designazione, potrebbe dire una parola giusta e doverosa contro questo metodo. So di almeno un vescovo che lo ha fatto.

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Riguardo alla chiesa cattolica, la mia posizione attuale è quella di sorella Maria di Campello, donna umile e grande, spirito illuminato, che scriveva a Gandhi: «Io sono creatura selvatica e libera in Cristo, e voglio con Lui, con te, con voi, con ogni fratello cercatore di Dio, camminare per i sentieri della verità» (24 agosto1928). «Io sono riconoscente e in venerazione per la Chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma la chiesa del mio cuore è l’invisibile chiesa che sale alle stelle. Che non è divisa da diversità di culti, ma è formata da tutti i cercatori della verità» (11 luglio 1932).
Gandhi era per lei «pietra miliare verso la vastità del Regno». E parlava spesso di chiesa «senza confini»[1]. Oh, così finalmente si respira! Non nell’abituale autocelebrazione ecclesiastica.
I maggiori testimoni della fede che ho incontrato personalmente nella mia vita – Balducci, Turoldo, Michele Do, Umberto Vivarelli, Benedetto Calati, Adriana Zarri -  pensavano e parlavano così.

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Invece, oggi, archiviato lo spirito del Concilio, nonostante il solito omaggio retorico, la chiesa si rappresenta, agli occhi del mondo, nei vescovi e nel papa, che rubano – non solo per colpa dei media superficiali – l’intera immagine della chiesa.
C’è qualche bella eccezione di singoli vescovi, grazie a Dio. Ma la gerarchia appare come una categoria separata, interessata alla propria struttura immobile, ingessata nella sua sacralità “sgridona” e brontolona, molto lontana da un atteggiamento fraterno, coraggioso, incoraggiante, umano, misericordioso (il trattamento di Welby ha scandalizzato i cattolici più semplici e buoni).
Invece, la chiesa è molto più che i vescovi, non solo come numeri e realtà umane, ma come fede, teologia, scelte di vita, testimonianza, nonostante debolezze ed errori di tutti i cristiani. La gerarchia non si decide a prendere atto del fatto che come chiesa ufficiale non significhiamo più nulla per le nuove generazioni. Siamo tanti con figli che, senza neppure astio, ignorano totalmente la chiesa, come io ignoro il calcio.
La chiesa appare come un partito, una forza sociale tra le altre, coi suoi interessi – addirittura interessi economici non puliti, forse peggiori delle offese sessuali - con le sue alleanze calcolate, non di rado impresentabili.
Un vescovo mi ha parlato così, ed ha aggiunto chiaro e tondo, letteralmente: «Questa non è la chiesa di Gesù Cristo». Vorrei chiederle fraternamente, senza volere una risposta: ma vi dite queste cose con franchezza nelle discussioni interne alla Cei? Ma ci sono discussioni nella Cei? Vista da fuori è una compattezza congelata: i vescovi sostituiti da un capo, come scolaretti, o soldatini. Le indiscrezioni parlano di lotte tra cardinali. La discussione pubblica è scomparsa anche dai settimanali diocesani. Come può vivere una comunità che non discute, che non dibatte? Tutto ciò è irreale.
Un altro vescovo, oggi emerito, mi ha detto, riguardo alla Cei: «Io intervenivo parlando chiaro. Tornavo al mio posto e nessuno mi diceva una parola. Muro di gomma. Alla fine ti rassegni e rinunci». Ma, se è davvero così, è un modo responsabile, questo, di essere pastori nella chiesa? Certo, non tocca a me giudicare. Ma queste domande che i laici si fanno, arrivano ai vescovi? Anche la sincerità è amore e rispetto.

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Oggi, la fede di molti è muta, senza chiesa. Tanti credenti pregano, amano, sperano, senza trovare aiuto e fraternità spirituale in una chiesa semplice, povera, chiara, libera, franca, coraggiosa. Ma così la fede rischia anche di addormentarsi.
Mi perdoni se sottolineo questi aspetti. Ma, chi sta in mezzo alla gente vede, anche senza volerlo, che la chiesa è, per la gente comune, un oggetto “tele-visivo” (cioè, che si vede lontana, sullo schermo delle cose imponenti e false, o finte). Arriva, in generale, una immagine deformata, irriconoscibile, della chiesa di Cristo nei suoi rappresentanti: strane vesti (solo i militari, con i vescovi, hanno abitualmente una divisa), strane facce, strani linguaggi, strani buffi titoli, strane relazioni.
So bene che ci sono tante piccole realtà vive. Spesso, sono luoghi di buoni sentimenti, caldi. Nelle parrocchie-servizio-pubblico si può pregare, una messa dopo l’altra come gli spettacoli del cinema. Ma sono poche – le conosciamo quasi tutte - le realtà ecclesiali “im-pegnate”, dove ci si spende, ci si dà “in pegno” al prossimo, agli ultimi, contrastando i grandi mali organizzati. Certo, non occorre che abbiano visibilità. Ma la “tele-visibilità” vatican-vescovile oscura tutto, dà una testimonianza opposta. Sembra proprio che la gerarchia continui a vivere nel sogno di una società coincidente con la chiesa, un matrimonio trono-altare, con una arcaica autorità sacerdotale. E c’è fior di mascalzoni che ne approfittano.

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La ringrazio dei segnali di vicinanza ai poveri e agli esclusi che Lei sta dando, alternativi alla maledetta peste del razzismo, che ha contagiato anche i cristiani, e specialmente le regioni più “cattoliche”!
Ma i segnali “politici” vanno in direzione opposta alle testimonianze belle. Ho inviato in posta elettronica alla Sua segreteria (mi pare il 18 dicembre, con oggetto: “Il Papa ringrazia il governo”) una nota critica sul discorso del Papa al nuovo ambasciatore italiano presso lo Stato pontificio (inviai questa nota anche al cardinale Ravasi, conosciuto in gioventù). Il crocifisso nelle scuole – ipocrisia di origine fascista – compensa forse la crocifissione dei poveri del mondo, respinti dal governo italiano in mano a dittatori e predoni feroci?
Quel discorso del Papa è stato un episodio, tra vari altri (come la cena tra cardinali e ministri!), che ha indignato tanti veri credenti: nel migliore dei casi una ingenuità inammissibile, una cecità funesta.
Non si tratta di dissenso per il dissenso, come se noi fossimo i puri, no. Ma ci sono eventi, momenti, in cui non è lecito tacere. In cui è doveroso esprimere la propria distanza da posizioni prese dalla gerarchia in nome della Chiesa tutta. Questo è il caso attuale.
Questo odierno catto-berlusconismo della gerarchia cattolica italiana è pari al catto-fascismo del ventennio violento, che fu il fallimento dei pastori e l’abbandono dei fedeli al potere malvagio e falso. Sturzo doveva ribellarsi a Pio XI invece di andare in esilio. Può accadere di peggio alla chiesa? Questo è peggio della persecuzione.
Mi permetta, per alleggerire il discorso, di ricordare un aneddoto gustoso. Verso il 1962-1963, il cardinale Montini (che mi conosceva personalmente per i miei anni precedenti nella Fuci) passava dei periodi nel seminario Lombardo, per i lavori delle commissioni conciliari. Un giorno, dopo pranzo, in piedi nel corridoio, con riferimento alla famosa battuta (del card. Ottaviani?) sui “comunistelli di sacrestia”, Montini disse a me e ad altri: «Ci saranno dei comunistelli di sacrestia, ma certamente ci sono dei fascistoni di sacrestia!».

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Le dirò anche che mi ha scandalizzato e turbato un parere del cardinale Bagnasco secondo cui il celibato clericale prevale sulla messa: «La convenienza di tutelare il celibato ecclesiastico e di prevenire il possibile sconcerto nei fedeli per l’accrescersi di presenze sacerdotali uxorate prevale infatti sulla pur legittima esigenza di garantire ai fedeli cattolici di rito orientale l’esercizio del culto da parte di ministri che parlano la loro stessa lingua e provengono dai loro stessi Paesi». Così Bagnasco ha scritto nella risposta negativa, inviata a nome della Cei il 13 settembre 2010, al primate della chiesa greco-cattolica romena, monsignor Lucian Muresan (da Adista n. 93, 4 dicembre 2010, p. 7). Ma dov’è la responsabilità del pastore? Il popolo cristiano ha il diritto di obbedire a Gesù: «Fate questo in memoria di me», assai più che il dovere di rispettare forme clericali assolutamente discutibili.
Perché sono così pochi i vescovi che dissentono dal conformismo? Perché hanno così poco coraggio? Perché temono più la discussione e il dissenso serio, segni di vita, che il gregarismo passivo? L’arcivescovo Pellegrino diceva, invece, di essere più preoccupato di questo che di quello.
L’unità formale della chiesa vale più della verità evangelica?  «Caritas congaudet veritati. La Carità si rallegra della verità», sicuramente. Ma quale carità è quella di una legge che prevale sullo spirito del Vangelo? L’eucaristia è dono dato ai fedeli, non è possesso di un clero. È certamente bene che normalmente sia guidata da persone (uomini e donne)[2] preparate e designate ecclesialmente, ma la scarsità crescente – grazie a Dio! - del tipo del “sacerdote-maschio-celibe” non interroga la gerarchia sul dovere primario di rispettare la realtà fondamentale del sacerdozio comune dei cristiani?

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Ci occorrono ripensamenti non piccoli, che il Concilio ha soltanto avviato, e devono ancora essere proseguiti. Si aderisce alla verità, non all’autorità. E invece la storia cattolica va diversamente. Cito uno storico cattolico: dopo la lotta per le investiture e la riforma gregoriana (il Dictatus papae è del 1075) «solo il papa poteva confrontarsi con la Verità; tutti i credenti, vescovi compresi, dovevano confrontarsi con l’autorità – con l’autorità del papa, ovviamente – e in base a questo essere giudicati. Perciò, d’ora innanzi, il problema che si pone ai credenti non è più di vivere secondo la Verità, bensì secondo l’autorità. Anzi, il mondo dei credenti non si discrimina più tra “fedeli” e “infedeli”, ma tra “obbedienti” (coloro che si adeguano in tutto ai comandi del papa) e “disobbedienti” (coloro che tali comandi disattendono)». Insomma, fedeli al papa, prima che fedeli a Cristo. Per questo, a Milano, i “patarini”, ribelli al clero corrotto, si definivano “fideles Dei”.[3]
Un grande monaco, morto da una decina di anni, mi diceva: «Il peccato originale cattolico è il papato». Cioè la forma monarchica sacra e assoluta, che imita il mondo più che prefigurare l’altro Regno, quello di Dio. Voleva questo Gesù?
La chiesa lottò con l’impero per farsi impero. E prima aveva ceduto a Costantino e Teodosio, rinnegando la vittoria di Gesù nel deserto sulla tentazione del potere. Non sono cose da poco, ma questioni radicali: o le affrontiamo, o il Vangelo rimane sotto il moggio, e quella che passa è una sua caricatura.
C’è una vera e propria questione del laicato. C’è disagio, indignazione, abbandono, c’è lo scisma silenzioso. Responsabile è solo chi se ne va in silenzio, oppure siamo tutti responsabili? C’è forse una speciale responsabilità gerarchica, e a molti sembra – non lo so - che i vescovi ne prendano coscienza meno del laicato più vivo.

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Non c’è Vangelo senza testimonianza di giustizia, senza schieramento spregiudicato per la pace. Contro la maggiore di tutte le violenze, che è quella dei poteri omicidi e oppressivi.
Ho letto tutta la newsletter n. 8, del novembre 2010, del Coordinamento Cristiani per la pace, di Vicenza, che certamente ha letto anche Lei (pubblicata solo in parte in Adista Segni Nuovi, n. 96, 11 dicembre 2010, p. 6). Concordo con quel passaggio in cui Antonio Pigatto dice: «Anche in riferimento al Dal Molin, il nocciolo della questione sta proprio qui: la Chiesa deve o non deve occuparsi di ciò che accade nel mondo e denunciare con forza ciò che è contro il messaggio di Gesù?». Certamente deve occuparsene. Non mi sembra che sia giusta una posizione di neutralità su una questione enorme e terribile come la base militare Dal Molin, base di guerra ingiustificabile.
Alla pacificazione nella chiesa non si può sacrificare la pace nel mondo. Se la chiesa, per paura di dividersi sulla guerra e la pace, si divide dalla pace, essa si spacca nel cuore. I movimenti per la pace mediante la nonviolenza attiva e positiva non meritano solo rispetto e comprensione nella chiesa, ma devono caratterizzare la sua presenza nel mondo. Se non altro per pentimento e riscatto dalle tante compromissioni storiche della chiesa-struttura con le strutture di guerra. Ma soprattutto perché l’annuncio del Vangelo passa soltanto per la scelta, anche costosa ed eroica, della politica di pace, contro i metodi e le forze di guerra.

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C'è invece nella chiesa cattolica un sostanziale disprezzo-utilizzo (come l' "utilizzo finale" di Berlusconi!....) del mondo, che porta tradizionalmente il cattolicesimo a teorizzare la "indifferenza" morale tra monarchia e repubblica, tra democrazia e dittatura, tra Berlusconi e la Costituzione, chiedendo al potere solo la libertà di predicare il Vangelo, ma in una posizione di compromissione (o addirittura di privilegio e appoggio per scambio di favori illeciti, come fa oggi il catto-berlusconismo incosciente dei maggiori gerarchi) che lo svuota e lo falsifica, perché non è più il Vangelo per i poveri e per la giustizia, annuncio storico del Regno promesso e iniziato nei cuori.
La libertà della chiesa, la libertà religiosa, giustamente reclamata dal Papa per i cristiani e per tutti, specialmente in questi giorni, è inutile e sprecata se non è sfida evangelica ai potenti. Gesù è morto in croce perché ha esercitato  «fino in fondo», con amore coraggioso e fedele, questa sfida alle falsità potenti del mondo.
Sappiamo bene, dai profeti e da Gesù, che Dio non vuole un culto senza giustizia, e che, tra l’offerta all’altare e la pace, tra la religione e la riconciliazione generosa nella giustizia, sono la pace e la giustizia che hanno la precedenza. Sappiamo, dal Vangelo come dal Corano, che saremo giudicati sulle azioni, non sulle religioni.
Io imparo (troppo poco, certamente) dal Vangelo, dal Corano, dalla meditazione buddista, da un serio laicismo (come quello di Norberto Bobbio, che ho frequentato e stimato molto, pur nella differente visione della vita, in un pluriennale dialogo che pubblicherò), che dobbiamo dire no ad una religione evasiva dalla carità storica sociale e politica.

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Credo, sinceramente, non senza buoni appoggi teologici, che la fede ha da produrre una teologia seriamente e moralmente politica, di animazione spirituale della polis. La condanna ecclesiastica della teologia della liberazione, per la misera (e, almeno in quel caso, sbagliata) paura del comunismo, è stata un’auto-condanna storica del cattolicesimo. Possibile che non si veda questo errore? Dopo la vittoria morale sul falso comunismo dittatoriale di tipo sovietico, si aspettava una lotta al turbo-capitalismo, che appare ancora incerta e contraddittoria: in Italia la chiesa appoggia un pessimo capitalismo personale, corrotto, corruttore e illegale, fautore della “rivoluzione dei ricchi”, contro ogni giustizia. Certo, la fede non si riduce a tattica politica, sempre opinabile, ma, se non produce scelte storiche di valore liberante, non è fede operosa nel Signore che viene. La chiesa non è per mantenersi, ma per spendersi. Come Gesù. Non è forse vero?

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Oso dire che la chiesa deve cessare di essere clericale, come è ancora, nonostante la riforma conciliare. Il classismo sacro clericale è contro la fraternità evangelica. In tutti e tre i sinottici, Gesù oppone ai sistemi di dominio sui popoli la regola della sua comunità, dove i primi sono gli ultimi e gli ultimi i primi: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e si fanno anche riverire, ma fra voi non è così». Questa è la prima regola. Chi ha compiti di servizio nella chiesa non è più sacro degli altri. Sacerdotale è tutto il popolo, non alcuni soltanto. Il ritorno del sacerdozio, abolito da Gesù in quanto esteso a tutti i credenti, è una deformazione successiva del cristianesimo storico, che va messa in discussione a fondo. I nomi dei ministeri nella chiesa delle origini sono accuratamente laicali e mai sacrali.  Il “potere sacro” non è cristiano.
Forse Lei sa che io ho lasciato il clero nel lontano 1974 per la stessa buona intenzione per cui chiesi di entrarvi dieci anni prima. Nei confronti della gerarchia clericale, oggi dico sinceramente di sentirmi  «non senza, non contro, ma non sotto» (ho scritto di questo più ampiamente, pur senza nessuna originalità, in varie occasioni e, fra l’altro, nell’articolo Spiritualità radicale e clericalismo, nella rivista di spiritualità Servitium, n. 180, novembre-dicembre 2008, fascicolo dal titolo Generazione del Concilio, II).

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Ho sentito di poterle parlare con fiducia e in tutta franchezza, come un cristiano deve parlare a un vescovo. Non occorre essere d’accordo in tutto, se ci si ascolta e rispetta. Come dice Confucio, «trasmetto, non fabbrico»: faccio il semplice manovale trasportatore delle idee che incontro e che mi sembrano le più giuste.
Le ho detto qualcosa su come mi sento parte della chiesa. Credo che, invece di omaggi formali, così dovrebbe fare ciascuno, vicino o lontano dal vescovo. Mi sembra il modo migliore di ringraziarla e ricambiarle gli auguri, e di darle una collaborazione mentre comincia il Suo servizio a Torino.



[1] (Frammenti di un’amicizia senza confini. Gandhi e Sorella Maria, pro-manuscripto, Eremo di Campello sul Clitunno, 1991, p. 15 e 22. Si vedano anche, per conoscere questa cristiana, la sua corrispondenza con Primo Mazzolari e quella con Giovanni Vannucci, nelle edizioni Qiqaion della Comunità di Bose. Mio articolo in Lo Straniero n. 105, marzo 2009)
[2] Voglio dire: che dovrebbero essere uomini e donne.
[3] Cfr Giorgio Cracco, Il Medioevo,  manuale di storia per licei e istituti magistrali, SEI, Società Editrice Internazionale, Torino, 1984, p. 151. Cfr Gregorio VII, Registrum, IX, 3, ed. E. Caspar, in MGH, Epistulae selectae, II, pp. 575-576

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