venerdì 26 gennaio 2018



Economia e comunità
(intervento di Enrico Peyretti nella tavola rotonda del convegno “Religioni e economia”,
Campus Einaudi, Torino, 6 dicembre 2017)

Economia di comunione” non è una tautologia? Eco-nomia vuole già dire “regola della casa”, perciò dell'ambiente, della comunità.
Una certa possibile felicità e pace nella vita sociale può venire meglio dalla regola “ognuno per sé”, o non piuttosto dalla regola “per tutti, e quindi per ognuno”? Quel bene può venire da una economia che mira anzitutto al bene di tutti, senza scartare nessuno, cioè senza consegnare il risultato alla gara spregiudicata, dove i forti battono i deboli. Questo si può fare per gioco, per sport, ma non per davvero, nella vita sociale. La vita che sia un po' possibilmente felice non è una gara di forza, ma una con-vivenza, un vivere insieme: “Vita tua vita mea”. Tutti abbiamo bisogno degli altri, perciò io sto bene se stai bene tu.
Ma, sentiamo dire, i beni sono scarsi, quindi li avrà chi li prende per primo. È proprio vero? Bisogna chiederselo. Può darsi, in molti casi, che la distribuzione, secondo le reali differenti necessità di ciascuno, realizzi una specie di moltiplicazione che evita almeno la miseria di alcuni. I beni rispondono ai bisogni non solo se si moltiplicano in quantità, ma se si distribuiscono con giustizia. Le gravi diseguaglianze creano potere eccessivo degli uni e impotenza e dipendenza degli altri. Non generano solo invidia e rabbia della avidità insoddisfatta, ma stabiliscono una gerarchia materiale che riduce la consapevolezza della parità di valore di tutti gli umani e sulla possibilità di sviluppo della persona umana in tutti.
Non è forse questo, tra il primato del prendere individuale, e il primato del dare il sufficiente a tutti, il più profondo discrimine morale-politico nella gestione dei beni in una società? Per tanti o pochi che siano i beni, siamo prima rivali che si escludono a vicenda, o prima soci con uguale dignità e reciproco bisogno gli uni degli altri? Vivere da soci o morire da rivali?
Una economia di comunione è possibile soltanto con la violenza del comunismo sovietico? Non è comunione quella imposta, non maturata nella libera volontà comune, consapevole dalla interdipendenza tra gli umani. Una economia umana dipende da una coscienza e da una cultura sociale umana. L'economia che oggi impera ci fa più felici insieme, o più nemici gli uni degli altri, come in guerra?
L'economia, come la politica, non è una meccanica, che funziona con leggi fisiche proprie, ma è un'azione umana, regolata da un'etica, cioè dalla ricerca del maggior bene possibile per tutti. Chiesi un giorno a Romano Prodi, dopo una conferenza: “L'economia è una scienza o una politica?” Mi rispose: “ È una politica, con qualche elemento di scienza”. Intendo: è un'azione volontaria che deve tener conto di alcuni dati di realtà.
Serve all'attività economica la riflessione etico-politica, la predicazione morale? Mi sembra che, per cercare, trovare e fare il maggior bene sociale possibile, sia davvero utile la pura riflessione morale. La quale è attività umana di ricerca e intelligenza dei principi e delle azioni che possono assicurare migliori relazioni sociali, per ridurre il viver male, e accrescere il viver bene. Quindi, la riflessione morale può cercare e indicare anche le migliori forme dell'economia, più utili al bene umano comune.
Certo, non è sufficiente affermare una morale dei principi umani (diritti e doveri reciproci), perché sono necessarie anche verifiche sperimentali, che confermano, o correggono e ri-orientano la riflessione sulle regole maggiori. Tra il principio e la pratica, c'è un cammino, sia dell'agire, sia del pensare. È vero il proverbio “dal dire al fare c'è di mezzo il mare”, ma è pure vero che “senza il dire non puoi neanche partire”. Il principio pensato, detto, cioè valutato e formulato, non è un'astrazione comoda per esentarsi dall'azione, ma è parte stessa dell'azione, come il primo passo è costitutivo indispensabile del cammino, e l'occhio che guarda la meta è attore del cammino tanto quanto i piedi che, guidati dall'occhio, percorrono il terreno.
Non ha vero senso opporre la teoria alla pratica, o stabilire gerarchie tra i due lati dell'azione, reciprocamente necessari: teoria vuol dire vedere, visione, e, come non c'è un vero vedere senza tendere, muoversi, così non c'è un agire sensato senza visione. Le idee-orientamenti hanno valore nel determinare la qualità umana delle azioni, perciò le politiche e le economie. Queste pratiche attuano i valori veduti e voluti, e, nell'attuarli, li affinano o ne richiedono la ri-forma, fino alla tras-formazione (il filosofo Roberto Mancini distingue questi due termini, indicando la necessità di una trasformazione, e non solo riforma e moderazione, dei principi che oggi guidano l'economia imperante). Mi chiedo di nuovo, guardando ai risultati: l'economia che oggi impera, col principio individualistico e possessivo, ci fa più felici insieme, o più nemici gli uni degli altri, come in guerra? Possiamo convincerci insieme che la politica e dunque l'economia dipendono anzitutto da quali idee, culture, valori, da quale umanesimo sono animate, e solo dopo possono essere buona pratica, azione efficace, soluzioni di problemi?
Per esempio, un punto di partenza, cioè un principio, nel pensare e realizzare l'attività economica, è la concezione che si ha della persona umana riguardo alle cose utili alla vita. La umana umana è egoista? È edonista e basta? Non è questo, dell'uomo egoista per natura, un dogma ideologico? Ideologia, in questo senso, non è solo un insieme di idee, ma idee che rivestono la realtà con una immagine preconcetta, parziale, utile a giustificare e confermare un modo di agire o uno stato di fatto. L'uomo è quell'essere “tristo” che ci mostra Machiavelli, riducendo la politica a tecnica del potere? Oppure ha anche la coscienza che “siamo fatti gli uni per gli altri”, sapienza immancabile in tutti i tempi e culture? Siamo davvero stretti nella maledetta tenaglia “o si domina o si è dominati”? Quale umanità, quale forma umana scegliamo in noi stessi e nel prossimo? Ne va della nostra libertà, e anche della mite felicità della pace. Cioè della vita. L'economia è plasmata così o cosà dall'antropologia, dall'idea dell'uomo che scegliamo di seguire, da quel lato della complessità umana che decidiamo di sviluppare.
Non è corretto ridurre all'egoismo l'essere umano, per il fatto che spesso, troppo spesso, siamo egoisti. L'essere umano è anche sociale, solidale, visto che abbiamo bisogno gli uni degli altri, e che un'altra persona in grave pericolo ci commuove nelle viscere. La cultura sociale oggi egemone ci piega più all'avidità o alla condivisione, all'egoismo o alla collaborazione? Se abbiamo comportamenti egoisti non possiamo dire che questa è la natura umana. L'economia come egoismo, persino armato, ci fa felici o infelici, umani o disumani? Ha ragione papa Francesco a dire: “Questa economia uccide”? (Evangelii Gaudium, 53).
L'amore sociale riduce la sofferenza. Dato che c'è tra noi “insocievole socievolezza” (Kant), se sviluppiamo la socievolezza sviluppiamo la pace e riduciamo la paura dell'altro che è in ognuno. Vogliamo provare, con le esperienze che abbiamo, ad essere più soci che rivali?
In questo convegno “Religioni e economia”, si è considerata la religione, nella varietà delle sue forme, come vincolo restrittivo della libera azione individuale? 0ppure si è riconosciuta ogni religione come relazione energetica e intima con la intera comunità umana, come spirito vitale dell'umanesimo? Ogni religione, pur con tutti i limiti teorici e le contraddizioni pratiche, è una forma di coscienza del Bene profondo, a cui aspirano tutti gli umani, liberazione dalla rivalità e ostilità reciproca, relazione di non-accanimento-possessivo, che degrada le dimensioni umane. Le cose, infatti, il loro possesso quantitativo, che sembra lo scopo di una certa economia, fino ad un certo punto garantiscono e sviluppano la vita, ma oltre quel punto la schiacciano, la deformano, la trasformano in dominio contro altre vite.
Ricordiamoci che, come ci insegna Simone Weil, l'obbligo reciproco tra noi di rispetto e riconoscimento non nasce con il contratto sociale, e con l'impero della legge, ma è nativo e precedente. Per nascita, siamo degni. La dignità non ci è data da autorità, potenze, tanto meno dal possesso di cose, ma è nativa. Perciò il primo atto sociale verso l'altro è il riconoscimento: ora conosco in te quello che già eri, un essere umano inviolabile, che non posso violare senza contraddire ed offendere la mia qualità umana. Sei mio simile. Sappiamo di essere finiti, ma altrettanto in-finiti: “l'homme dépasse l'homme”. Non è mai compiuto in ciò che è. Questo è il progresso, non le nuove tecnologie. “L'uomo colloca continuamente nel futuro la propria verità, la propria pienezza, perché è l'unico essere che non coincide con sé. Non può ripiegarsi su di sé in una equazione tranquilla” (Aldo Antonelli). L'umanità può diventare giusta, anche nell'economia.
Ricordiamoci, nella relazione economica, il principio solidale della semplicità volontaria, rammentato tante volte da maestri e compagni, come Gandhi, come Nanni Salio: “La natura produce abbastanza per le necessità di tutti, non per l'avidità di alcuni” . “Vivere semplicemente perché altri possano semplicemente vivere”. 
Enrico Peyretti
 
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