mercoledì 24 gennaio 2018

Libri

Disumanizzare i soldati per fare la guerra


Eugen Drewermann, La guerra è la malattia non la soluzione, Introduzione di Gianni Vattimo, Ed. Claudiana, Torino, 2005, pp. 208, euro 17,50.

Di questo libro di Drewermann oserei correggere il titolo: non più “La guerra è la malattia, non la soluzione”, ma, addirittura, “L’esercito è la malattia, non la soluzione”.
Molti sono i temi di questo lavoro appassionato del famoso psicanalista e teologo cattolico: guerra e terrorismo, tecnica e terrore, l’immagine del nemico, l’islam, il pacifismo, Israele e palestinesi, il fondamentalismo, la cultura di pace, i maschi e la guerra, la nonviolenza, le religioni e la pace, guerra giusta, guerra santa, psicoterapia e violenza, educazione alla pace. Ogni tema è discusso in dialogo-intervista con Jürgen Hoeren, con apertura di orizzonti, sguardo all’attualità seguita all’11 settembre (l’edizione originale è del 2002), libertà critica, impegno umano di liberazione, e forte senso evangelico. Drewermann indica che il discorso della montagna di Gesù è praticabile nella storia.
Ma dicevo dell’esercito. Per poter fare la guerra bisogna plasmare gli uomini con lo stampino dell’esercito, che non è diverso dalla disumanizzazione del fanatico. È questo il tema psicologico più insistito nel libro. «L’esercito, il servizio militare, non consiste in null’altro se non attivare il lato criminale presente negli stessi esseri umani, che viene poi istruito e strumentalizzato per combattere la criminalità (sia internazionale, sia interna). Così, però, non ci se ne libera, ma la si rende eterna» (p. 58).
Papa Pio XII affermò che «nessun cattolico avrebbe avuto il diritto di rifiutare il servizio militare appellandosi alla sua coscienza», e teologi cattolici illustrarono nel Parlamento tedesco questa opinione, che un cattolico responsabile deve essere (le parole sono di Drewermann) «disponibile a fare la guerra», deve «imparare a uccidere a comando» (pp. 54-55). Dopo, la coscienza cattolica ha fatto un cammino.
Nell’addestramento militare «non è solo importante distruggere l’autostima, bisogna anche abbattere l’inibizione a uccidere. (…) L’esercito è un’arcaica e barbara orda di uomini, un ostacolo alla civiltà» (p. 62).
«Ciò che produce l’esercito non è sicurezza, ma una paranoia reale, un apocalittico Armageddon, la perpetuazione nella storia del mondo di Caino e Abele» (p. 70).
«È chiaro che, attraverso questo comportamento [la guerra Usa in risposta all’11 settembre] i terroristi troveranno conferme piuttosto che smentite riguardo alla loro visione dell’Occidente. (…) Ripeto, ogni guerra è di per se stessa terrorismo» (p. 75).
Non sono “realiste” le persone che pretendono di stabilire la “pace” con la minaccia di omicidi di massa: «ai miei occhi si ha a che fare con potenziali stragisti, con criminali del più alto rango, con terroristi di Stato, con pazzi di ogni tipo» (p. 73).
«Non appena viene pronunciata la parola guerra, qualsiasi mezzo viene giustificato. (…) Leggiamo, per esempio, che dobbiamo distruggere i talebani “con tutti i mezzi”. (…) Nulla è così santo da rendere tutto il resto giustificabile, altrimenti avremmo fatta nostra la mentalità dei terroristi. A quel punto l’ideologia dello Stato sarebbe identica a questa mentalità e con essa intercambiabile. Sarebbe la stessa follia della coscienza» (p. 99).
Riguardo al conflitto Israele-Palestina, Drewermann osserva che l’apporto delle religione renderebbe possibile «un discredito dell’intero, folle apparato militare, che in effetti già solo attraverso la sua esistenza assorbe tutti gli elementi capaci di cultura. (…) C’è una carenza di parole nel nostro mondo che ci chiude. La violenza è una lingua sostitutiva motivata dal rifiuto del dialogo» (pp. 102-103).
«La guerra (…) non è degna di noi. Ripeto: dovremmo rimuovere in primo luogo i campi di addestramento militare, il lavaggio del cervello fatto nelle caserme di ogni città, e non solo presso i terroristi in Afghanistan. Bisognerebbe cominciare qui, da noi» (p. 112).
«Rispettando l’obbligo dell’obbedienza all’esercito, gli esseri umani vengono del tutto annullati come persone in quanto essi si identificano completamente con la centrale di comando. A questo si aggiunge il fatto che viene creato un pensiero sostitutivo, non più soggetto al controllo emozionale» (p. 120. L’Autore mostra con vari esempi atroci di quali nefandezze normali in guerra diventano capaci i soldati eccitati ad uccidere, privati dei normali sentimenti umani «La sola realtà dell’esercito uccide quotidianamente molti più esseri umani di quanti non ne possiamo “salvare”» (p. 122). Sento qui l’eco del grande Kant: «La guerra fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo».
Il grande valore dell’islam autentico, e delle altre religioni monoteistiche, è l’affermazione che «Dio è grande», che è «più grande del potere stabilito». Allora, chiede Drewermann: «Che cosa accadrebbe se ci fossero esseri umani che dichiarassero: proprio perché Dio è più grande, non prendo ordini per andare in guerra, non prendo ordini per fare il soldato?» (p. 143). Ecco la grande possibilità e responsabilità delle religioni, forza eversiva della violenza, liberatrice di umanità nella storia. Forza non usata. Forza non creduta. Dio è assoggettato ai poteri stabiliti.
«La violenza distrugge moralmente colui che la utilizza». Fatto l’esempio attuale di un soldato istruito ad essere un killer professionista, l’Autore chiede: «Quanti sensi di colpa lo assaliranno? E se non ne ha più, ancora peggio. Quante reazioni della sensibilità umana devono essere state eliminate in lui, affinché possa essere un assassino?» (p. 153). «Chiunque faccia il soldato deve essere pronto a utilizzare veramente le cose che gli sono state insegnate in caserma. L’epoca delle scuse morali è finita» (p. 160).
L’esistenza dei cappellani militari, che assicurano la «consolazione morale» dei soldati, pone il problema: o «religione di popolo», confortato ad obbedire ai potenti, oppure religione profetica, perciò critica dei poteri assolutizzati, e dunque istigante il popolo alla indipendenza morale e alla possibile disobbedienza, perciò perseguitata dai potenti e, probabilmente, rifiutata dalla maggioranza succube. (cfr p. 161).
A proposito dei famosi esperimenti di Milgram (dimostrazione che persone normalissime per rispettare l’autorità e la scienza diventano potenziali assassini), scrive Drewermann: «Nell’esercito non viene semplicemente fatto affidamento a questa “obbedienza media”, ma l’obbedienza viene addestrata duramente, con paura e sotto giuramento, affinché di fronte ai superiori tutto questo venga continuamente automatizzato in gesti di sottomissione» (p. 174).
Richiamando Freud (ma qui c’è un errore: non si tratta della lettera ad Einstein, che è del 1932, ma del saggio del 1915), per il quale «la morale del singolo è ormai molto superiore alla “morale” dei potenti», e Einstein nel 1950, per il quale «l’uccidere in guerra non si differenzia per nulla da un omicidio efferato», Drewermann aggiunge: «Tuttavia, raramente si troveranno omicidi con una considerazione di sé pari a quella dei soldati» (p. 175).
Drewermann riferisce l’impressionante testimonianza di un soldato statunitense in Vietnam1. Era quasi impazzito per le conseguenze interiori dei suoi omicidi a decine, commessi in guerra. Guarito da un monaco buddhista, ora è monaco lui stesso. Egli riconosce «che il mondo in cui aveva vissuto è follia pura: addestrare esseri umani a uccidere (…) e il peggiore aspetto di questa follia è che esiste una società che non solo non vuole alcuna riflessione su queste presunte necessità, ma che le vieta». Il cristianesimo occidentale è impreparato a curare «questa follia apparentemente normale, perché si tiene ancora troppo allineato all’autorità statale» (pp. 181-184).
Il primo dei cinque punti che Drewermann propone per educarci alla pace è la necessità di liberarci dall’ostacolo che sta «nella disponibilità all’obbedienza, nella capacità di cedere la propria responsabilità, di richiamarsi a ordini dati da altri» (p. 185).
«Caratteristica dell’essere soldato è il fatto che egli si debba annullare come soggetto per essere disponibile all’annullamento di “materiale umano” insito nel nemico, e all’omologazione nella propria truppa» (p. 187). «L’esercito è la condizione marginale o di catastrofe della vita civile, e tanto più a lungo questo sopravvive, tanto più diviene catastrofe per tutta la nostra vita» (p. 189).
Ha scritto Teresa Sarti, di Emergency: «Finché la guerra sarà tra le opzioni possibili, la guerra ci sarà» (il manifesto 12.3.2004). La principale alternativa alla guerra che Drewermann propone è il dialogo profondo, preveggente, preventivo, autocritico, col “nemico”. Solo la parola seria guarisce i rapporti umani.
Vorrei terminare con una orrenda esperienza personale, che ho già riferito in numerosi articoli e in più di un libro. Il 29 marzo 1996, durante un dibattito sulla guerra in un teatro torinese, pieno di studenti di scuola media superiore, il generale Carlo Jean, allora come oggi alto comandante militare, disse letteralmente (prendevo appunti sotto dettatura): «Nell’esercito è necessaria la disciplina (…) perché combattere significa uccidere. Occorre l’esecuzione automatica dell’ordine». Ora, dove c’è esecuzione automatica non c’è coscienza, dunque non c’è più un essere umano. Mi pento di non avere denunciato il generale per corruzione di minorenni. Le tesi di Drewermann (che già anticipava Kant, a proposito di eserciti permanenti) sulla disumanizzazione dei soldati, imposta per usarli come strumenti di omicidio, è confermata da un alto militare italiano.
Enrico Peyretti (17 maggio 2005)

1 Si tratta, con tutta evidenza, di Claude Thomas, venuto più volte in Italia, di cui abbiamo qualche scritto, come l’opuscolo Un cammino di liberazione. Dalla guerra in Vietnam alla pace nel cuore, pubblicato da La Rete di Indra, Roma, 1996 (indra@alfanet.it; tel 06-80.79.090). Ne ha parlato anche l’Unità del 6 maggio 1997.

Nessun commento:

Posta un commento