Libri
Disumanizzare i soldati per fare la guerra
Eugen Drewermann, La
guerra è la malattia non la soluzione,
Introduzione di Gianni Vattimo, Ed. Claudiana, Torino, 2005, pp. 208,
euro 17,50.
Di
questo libro di Drewermann oserei correggere il titolo: non più “La
guerra è la malattia, non la soluzione”, ma, addirittura,
“L’esercito è la malattia, non la soluzione”.
Molti
sono i temi di questo lavoro appassionato del famoso psicanalista e
teologo cattolico: guerra e terrorismo, tecnica e terrore, l’immagine
del nemico, l’islam, il pacifismo, Israele e palestinesi, il
fondamentalismo, la cultura di pace, i maschi e la guerra, la
nonviolenza, le religioni e la pace, guerra giusta, guerra santa,
psicoterapia e violenza, educazione alla pace. Ogni tema è discusso
in dialogo-intervista con Jürgen Hoeren, con apertura di orizzonti,
sguardo all’attualità seguita all’11 settembre (l’edizione
originale è del 2002), libertà critica, impegno umano di
liberazione, e forte senso evangelico. Drewermann indica che il
discorso della montagna di Gesù è praticabile nella storia.
Ma
dicevo dell’esercito. Per poter fare la guerra bisogna plasmare gli
uomini con lo stampino dell’esercito, che non è diverso dalla
disumanizzazione del fanatico. È questo il tema psicologico più
insistito nel libro. «L’esercito, il servizio militare, non
consiste in null’altro se non attivare il lato criminale presente
negli stessi esseri umani, che viene poi istruito e strumentalizzato
per combattere la criminalità (sia internazionale, sia interna).
Così, però, non ci se ne libera, ma la si rende eterna» (p. 58).
Papa
Pio XII affermò che «nessun cattolico avrebbe avuto il diritto di
rifiutare il servizio militare appellandosi alla sua coscienza», e
teologi cattolici illustrarono nel Parlamento tedesco questa
opinione, che un cattolico responsabile deve essere (le parole sono
di Drewermann) «disponibile a fare la guerra», deve «imparare a
uccidere a comando» (pp. 54-55). Dopo, la coscienza cattolica ha
fatto un cammino.
Nell’addestramento
militare «non è solo importante distruggere l’autostima, bisogna
anche abbattere l’inibizione a uccidere. (…) L’esercito è
un’arcaica e barbara orda di uomini, un ostacolo alla civiltà»
(p. 62).
«Ciò
che produce l’esercito non è sicurezza, ma una paranoia reale, un
apocalittico Armageddon, la perpetuazione nella storia del mondo di
Caino e Abele» (p. 70).
«È
chiaro che, attraverso questo comportamento [la guerra Usa in
risposta all’11 settembre] i terroristi troveranno conferme
piuttosto che smentite riguardo alla loro visione dell’Occidente.
(…) Ripeto, ogni guerra è di per se stessa terrorismo» (p. 75).
Non
sono “realiste” le persone che pretendono di stabilire la “pace”
con la minaccia di omicidi di massa: «ai miei occhi si ha a che fare
con potenziali stragisti, con criminali del più alto rango, con
terroristi di Stato, con pazzi di ogni tipo» (p. 73).
«Non
appena viene pronunciata la parola guerra, qualsiasi mezzo viene
giustificato. (…) Leggiamo, per esempio, che dobbiamo distruggere i
talebani “con tutti i mezzi”. (…) Nulla è così santo da
rendere tutto
il resto giustificabile, altrimenti avremmo fatta nostra la mentalità
dei terroristi. A quel punto l’ideologia dello Stato sarebbe
identica a questa mentalità e con essa intercambiabile. Sarebbe la
stessa follia della coscienza» (p. 99).
Riguardo
al conflitto Israele-Palestina, Drewermann osserva che l’apporto
delle religione renderebbe possibile «un discredito dell’intero,
folle apparato militare, che in effetti già solo attraverso la sua
esistenza assorbe tutti gli elementi capaci di cultura. (…) C’è
una carenza di parole nel nostro mondo che ci chiude. La violenza è
una lingua sostitutiva motivata dal rifiuto del dialogo» (pp.
102-103).
«La
guerra (…) non è degna di noi. Ripeto: dovremmo rimuovere in primo
luogo i campi di addestramento militare, il lavaggio del cervello
fatto nelle caserme di ogni città, e non solo presso i terroristi in
Afghanistan. Bisognerebbe cominciare qui, da noi» (p. 112).
«Rispettando
l’obbligo dell’obbedienza all’esercito, gli esseri umani
vengono del tutto annullati come persone in quanto essi si
identificano completamente con la centrale di comando. A questo si
aggiunge il fatto che viene creato un pensiero sostitutivo, non più
soggetto al controllo emozionale» (p. 120. L’Autore mostra con
vari esempi atroci di quali nefandezze normali in guerra diventano
capaci i soldati eccitati ad uccidere, privati dei normali sentimenti
umani «La sola realtà dell’esercito uccide quotidianamente molti
più esseri umani di quanti non ne possiamo “salvare”» (p. 122).
Sento qui l’eco del grande Kant: «La guerra fa più malvagi di
quanti ne toglie di mezzo».
Il
grande valore dell’islam autentico, e delle altre religioni
monoteistiche, è l’affermazione che «Dio è grande», che è «più
grande del potere stabilito». Allora, chiede Drewermann: «Che cosa
accadrebbe se ci fossero esseri umani che dichiarassero: proprio
perché Dio è più grande, non prendo ordini per andare in guerra,
non prendo ordini per fare il soldato?» (p. 143). Ecco la grande
possibilità e responsabilità delle religioni, forza eversiva della
violenza, liberatrice di umanità nella storia. Forza non usata.
Forza non creduta. Dio è assoggettato ai poteri stabiliti.
«La
violenza distrugge moralmente colui che la utilizza». Fatto
l’esempio attuale di un soldato istruito ad essere un killer
professionista, l’Autore chiede: «Quanti sensi di colpa lo
assaliranno? E se non ne ha più, ancora peggio. Quante reazioni
della sensibilità umana devono essere state eliminate in lui,
affinché possa essere un assassino?» (p. 153). «Chiunque faccia il
soldato deve essere pronto a utilizzare veramente le cose che gli
sono state insegnate in caserma. L’epoca delle scuse morali è
finita» (p. 160).
L’esistenza
dei cappellani militari, che assicurano la «consolazione morale»
dei soldati, pone il problema: o «religione di popolo», confortato
ad obbedire ai potenti, oppure religione profetica, perciò critica
dei poteri assolutizzati, e dunque istigante il popolo alla
indipendenza morale e alla possibile disobbedienza, perciò
perseguitata dai potenti e, probabilmente, rifiutata dalla
maggioranza succube. (cfr p. 161).
A
proposito dei famosi esperimenti di Milgram (dimostrazione che
persone normalissime per rispettare l’autorità e la scienza
diventano potenziali assassini), scrive Drewermann: «Nell’esercito
non viene semplicemente fatto affidamento a questa “obbedienza
media”, ma l’obbedienza viene addestrata duramente, con paura e
sotto giuramento, affinché di fronte ai superiori tutto questo venga
continuamente automatizzato in gesti di sottomissione» (p. 174).
Richiamando
Freud (ma qui c’è un errore: non si tratta della lettera ad
Einstein, che è del 1932, ma del saggio del 1915), per il quale «la
morale del singolo è ormai molto superiore alla “morale” dei
potenti», e Einstein nel 1950, per il quale «l’uccidere in guerra
non si differenzia per nulla da un omicidio efferato», Drewermann
aggiunge: «Tuttavia, raramente si troveranno omicidi con una
considerazione di sé pari a quella dei soldati» (p. 175).
Drewermann
riferisce l’impressionante testimonianza di un soldato statunitense
in Vietnam1.
Era quasi impazzito per le conseguenze interiori dei suoi omicidi a
decine, commessi in guerra. Guarito da un monaco buddhista, ora è
monaco lui stesso. Egli riconosce «che il mondo in cui aveva vissuto
è follia pura: addestrare esseri umani a uccidere (…) e il
peggiore aspetto di questa follia è che esiste una società che non
solo non vuole alcuna riflessione su queste presunte necessità, ma
che le vieta». Il cristianesimo occidentale è impreparato a curare
«questa follia apparentemente normale, perché si tiene ancora
troppo allineato all’autorità statale» (pp. 181-184).
Il
primo dei cinque punti che Drewermann propone per educarci alla pace
è la necessità di liberarci dall’ostacolo che sta «nella
disponibilità all’obbedienza, nella capacità di cedere la propria
responsabilità, di richiamarsi a ordini dati da altri» (p. 185).
«Caratteristica
dell’essere soldato è il fatto che egli si debba annullare come
soggetto per essere disponibile all’annullamento di “materiale
umano” insito nel nemico, e all’omologazione nella propria
truppa» (p. 187). «L’esercito è la condizione marginale o di
catastrofe della vita civile, e tanto più a lungo questo sopravvive,
tanto più diviene catastrofe per tutta la nostra vita» (p. 189).
Ha
scritto Teresa Sarti, di Emergency: «Finché la guerra sarà tra le
opzioni possibili, la guerra ci sarà» (il
manifesto
12.3.2004). La principale alternativa alla guerra che Drewermann
propone è il dialogo profondo, preveggente, preventivo, autocritico,
col “nemico”. Solo la parola seria guarisce i rapporti umani.
Vorrei
terminare con una orrenda esperienza personale, che ho già riferito
in numerosi articoli e in più di un libro. Il 29 marzo 1996, durante
un dibattito sulla guerra in un teatro torinese, pieno di studenti di
scuola media superiore, il generale Carlo Jean, allora come oggi alto
comandante militare, disse letteralmente (prendevo appunti sotto
dettatura): «Nell’esercito è necessaria la disciplina (…)
perché combattere significa uccidere. Occorre l’esecuzione
automatica dell’ordine». Ora, dove c’è esecuzione automatica
non c’è coscienza, dunque non c’è più un essere umano. Mi
pento di non avere denunciato il generale per corruzione di
minorenni. Le tesi di Drewermann (che già anticipava Kant, a
proposito di eserciti permanenti) sulla disumanizzazione dei soldati,
imposta per usarli come strumenti di omicidio, è confermata da un
alto militare italiano.
Enrico
Peyretti (17 maggio 2005)
1
Si tratta, con tutta evidenza, di Claude Thomas, venuto più volte
in Italia, di cui abbiamo qualche scritto, come l’opuscolo Un
cammino di liberazione. Dalla guerra in Vietnam alla pace nel cuore,
pubblicato da La Rete di Indra, Roma, 1996 (indra@alfanet.it; tel
06-80.79.090). Ne ha parlato anche l’Unità del 6 maggio 1997.
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