giovedì 25 gennaio 2018

LA RESISTENZA ANTINAZISTA IN GERMANIA


Lezione di Enrico Peyretti
nel corso di aggiornamento per docenti
"Nonviolenza nella storia.
Casi di resistenze civili nel Novecento"
(Torino, ottobre 1996 - gennaio 1997)
Centro Studi Domenico Sereno Regis (www.serenoregis.org)
Istituto Piemontese per la storia della Resistenza
e della società contemporanea.




1. Che cosa ne sappiamo?
Della resistenza al nazismo interna alla Germania, in genere ne sappiamo poco. «Non si può dire che la resistenza tedesca (...) abbia (...) finora suscitato grande interesse fra il pubblico colto, in Italia come in quasi tutto il mondo (...). In questa opera di rimozione ha certamente pesato, specialmente nei primi anni del dopoguerra, il cliché della "colpa collettiva". (...) Questo schema nefando (...) escludeva per definizione l'esistenza di un' "altra Germania". Oggi una storiografia più avvertita e critica sta scoprendo il fenomeno resistenziale, nelle sue diverse stratificazioni e componenti»1.
Forse ne sanno ancora meno i tedeschi stessi: un sondaggio serio eseguito nella Repubblica Federale Tedesca nell’ aprile 1970 rilevava che, tra i 16 e i 29 anni di età, il 47% non era in grado di citare alcun fatto relativo all’attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Nel 1984, 14 anni dopo, questo dato era salito al 63%! Nel gruppo di età 16-19 anni, fra coloro che sapevano qualcosa del 20 luglio, solo il 14% nel 1970 e la metà, il 7%, nel 1984, era in grado di riferire correttamente nomi di preti, pastori, sindacalisti, socialisti, comunisti, che avevano preso parte alla resistenza.2
Ho percorso i migliori manuali liceali che avevo a disposizione. In alcuni non si trova assolutamente nulla: quindi nessun tedesco si sarebbe opposto a Hitler in nessun modo! (Ortoleva-Revelli, De Rosa, Saitta). Altri citano solo l’attentato del 20 luglio (Bontempelli-Bruni), oppure questo insieme al gruppo studentesco della Rosa Bianca (Desideri), o insieme all’azione delle chiese (De Bernardi-Guarracino, Giardina-Sabbattucci-Vidotto). Uno (Traniello) informa sull’ opposizione di chiese ed intellettuali. Questa azione è sottolineata nel più recente manuale di Bordino-Chiattella-Gatti-Martignetti, entro un'ampia scheda di Alberto Monticone sulla Resistenza morale. Un manuale (Gentile-Ronga-Salassa) descrive più ampiamente il fenomeno portando anche la cifra di un milione di tedeschi imprigionati dal 1933 al 1945 come oppositori. Lo stesso dato è fornito dal Salvadori scolastico, insieme all’opposizione di chiese, intellettuali, militari. Naturalmente la “Storia dell’età contemporanea” dello stesso Salvadori porta informazioni molto più complete in diverse pagine, ma con giudizi che minimizzano il peso e il significato della Resistenza tedesca.3
Nelle biblioteche si trovano 10-20 titoli, in gran parte sul 20 luglio. L’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza conserva quasi 80 titoli di cui 32 in tedesco, 3 in francese, 2 in inglese, 4 pubblicazioni promosse dal Consiglio Regionale Piemontese.
Ma qui non ci interesssa tanto la Resistenza in tutte le sue forme, quanto verificare se ci sono state in Germania, oppure tra cittadini tedeschi nelle zone occupate dal Reich, fatti e forze che attuarono una resistenza civile, nonarmata e/o nonviolenta. Se troveremo questa realtà, sarà provata la possibilità di opporre anche ad un regime feroce come quello nazista, e dal suo interno, una resistenza che non ne imiti e riproduca la violenza. In tal caso, resterà da verificare l’efficacia di una tale forma di resistenza.


2. Un rapido quadro generale
Mi servo a questo scopo della relazione tenuta a Torino il 6 aprile 1995 da Hans Mommsen, autorevole studioso tedesco, nel convegno “Resistenza, Resistance, Widerstand” indetto da Goethe Institut, Centre Culturel Français, Dipartimento di Studi Politici dell’Università di Torino.
Queste furono le caratteristiche salienti della Resistenza tedesca :
- Fu una resistenza contro la propria nazione e il suo governo, a differenza di tutte le altre resistenze nazionali
- Non potè riferirsi ad una forma costituzionale preesistente, ne Weimar nè precedente (in ciò simile alla Resistenza italiana)
- Fu condotta dai partiti antinazisti, scomparsi però dopo i primi anni di regime. Dal 1938, fu condotta non da una classe politica, ma da alti funzionari, alti gradi militari. Fece eccezione il partito comunista, anche oltre il 1943. E’ un errore vedervi un’azione soltanto a favore dell'URSS. Così, è un errore vedere nel complotto del 20 luglio 1944 soltanto una matrice conservatrice e aristocratica, perchè ci furono pure socialdemocratici, sindacalisti, cristiani (Bonhoeffer). Il movimento del 20 luglio non rappresentava tutta la resistenza tedesca, non prospettava una democrazia ma un principio autoritario corporativo. Molti dei congiurati pensavano che il nazismo fosse l’effetto della iper-democrazia di Weimar, dell’industrializzazione e urbanizzazione. Gruppi borghesi di destra volevano fare tabula rasa dell’ordinamento di Weimar pre-1933, non tenevano conto dei partiti. Bisogna ammettere che non furono nè i democratici nè le sinistre che tentarono di abbattere il regime del terrore.
- Schematicamente possiamo vedere due fasi della Resistenza. Nella prima i comunisti tentarono una organizzazione compatta, più esposta alla Gestapo, che non conquistò adesioni. Nella seconda fase, dal 1938, la componente borghese-militare rinuncia alle tecniche cospirative, perciò sfugge alla Gestapo. L’esercito valeva come una forma di esilio interno. Hitler e la Gestapo non seppero valutare appieno la forza politica della borghesia. Caratteristica di questa fase è di essere nazional-conservatrice: una “Resistenza senza popolo”. Il Circolo di Kreisau si considerava la “guida nata” della nazione, non cercò appoggio nella popolazione. Solo dopo la richiesta degli inglesi: «Chi c’è dietro di voi ?», Goerdeler cercò contatti con le sinistre. Ma la resistenza rimase senza popolo: il 20 luglio, la popolazione reagì sfavorevolmente all’attentato. Nel 1943 emerse l’attività comunista, pericolosa per i nazional-conservatori, tra i quali nacquero divisioni per questo motivo.
- Per quel che riguarda gli obiettivi dei congiurati ci furono molteplici piani e progetti. Mancavano dei veri politici. Il piano aveva tratti utopici. Il Circolo di Kreisau era anti-liberale: per esempio non prevedeva il voto passivo alle donne. Padre Delp, gesuita di Monaco, voleva una riforma morale-politica, non solo delle idee; diceva che i tedeschi erano diventati un “popolo sulla strada”, avendo perduto il senso di patria e dei valori religiosi e sociali; bisognava riportare l’uomo “fuori dalla sua solitudine” (elemento, dirà Hannah Arendt, del totalitarismo). Quindi: ricostruzione delle capacità politiche del singolo ma con tratti elitari. Però anche Goerdeler accettava la nazionalizzazione delle industrie delle materie prime. Il denominatore comune era il ripristino del diritto calpestato, del diritto divino e naturale della persona umana. I resistenti furono spinti anche dalla conoscenza della persecuzione degli ebrei.
- Infine, Mommsen valuta l’estremo tentativo del 20 luglio (ma gli attentati a Hitler furono una ventina fra quelli preparati, quelli sfumati all’ultimo, sventati, falliti) come un atto morale per uscire dalla complicità del popolo tedesco col terrore: era necessario tradire anche se il popolo non avrebbe capito. Questo contava più di ogni ambizione personale. Incerta era la possibiltà di costituire un governo dopo il 20 luglio. Ci sarebbe stata una guerra civile, una situazione simile alla Resistenza italiana. Ciò avvrebbe dovuto accelerare la fine della guerra durata invece ancora quasi un anno.
- Ma gli alleati non volevano altro che la resa senza condizioni, perciò abbandonarono a se stessa l’ “altra Germania”. Invece era importante spezzare il mito dell’onnipotenza del sistema, anche per merito soltanto di una piccola minoranza. Oltre ai congiurati del 20 luglio, si opposero alla tirannia totalitaria anche molti singoli che disobbedirono a ordini disumani.
- Dopo il 1945 non ci furono rappresentanti sopravvissuti della Resistenza nella politica tedesca, ma piuttosto la classe della Repubblica di Weimar. Così pure nella DDR (Repubblica Democratica Tedesca): non i comunisti della resistenza ma quelli provenienti da Weimar. Così la Resistenza tedesca è stata rappresentata da un “generazione perduta”, che non potè dare contributi successivi. Ma la Resistenza è ancora una sfida per la Germania.
Fin qui, una mia sintesi della relazione di Hans Mommsen.


3. Si può parlare di“Resistenza civile” in Germania ?
Certamente questa realtà ha molti limiti. Ma agisce anche un forte condizionamento mentale e culturale. Cioè, accade questo: l’immagine ed esperienza pesante, invasiva, terrificante della violenza tirannica e omicida, attira a sè (come un corpo celeste di massa maggiore del satellite) e assimila a sè ogni forza antagonista; e ciò sia precedentemente, sia durante, sia successivamente al confronto diretto. E’ la mimesi, imitazione speculare della violenza, di cui parla René Girard, che opera anche nella rappresentazione storica, per cui l’opposizione e resistenza ad un potere violento non sembra poter essere altro che violenta. Lo è ben spesso proprio per la realtà di questo meccanismo di imitazione. Ma lo è molto meno di quanto non lo configuri la rappresentazione della memoria, anche nella memoria critica storiografica, essa pure soggetta a quella attrazione fatale. Si tratta di accrescere la criticità e libertà dell’indagine, anche per allargare le maglie del possibile presente e futuro, grazie ad una più varia e accurata rappresentazione dei fatti. Questo vuol fare la ricerca di aspetti e filoni, o anche solo di singoli conati, liberi o in cerca di libertà dalla coazione a ripetere la violenza. Tali esperienze sono presenti anche nella Resistenza tedesca, quella che più direttamente di ogni altra resistenza nazionale, in un terribile corpo a corpo che penetrava le coscienze dei resistenti, si confrontò con la violenza nazista.
Cerchiamo di non subire la distorsione della “storia potente e rumorosa” per poter udire il sottofondo della vita. E’ il grande tema di “Guerra e pace” di Tolstoj. Napoleone e Platòn Karatajev: il grande è questo secondo, l’ultimo è il primo. Così, tra Hitler e Franz Jagerstatter, il primo distrugge la storia umana, il secondo, decapitato per obiezione di coscienza, la costruisce.
Dei fatti di resistenza civile ci sono. Jacques Sémelin in Senz’ armi di fronte a Hitler, sulla scorta di una ricerca in corso nell’università di Harvard, dice in sintesi che i dati mostrano «quanto l’opinione tedesca fosse in grado di frenare il genocidio, nel caso in cui manifestava la sua disapprovazione di fronte alla persecuzione degli ebrei»4 . Ci fu questa disapprovazione? Fu manifestata, e quanto intensamente, dal popolo tedesco?
Anzitutto, chi si oppose alla dittatura nazista, lo fece, secondo Hoffmann, soprattutto mosso dalla condanna morale della persecuzione degli ebrei.5 Questo autore afferma «con sicurezza che la maggioranza dei tedeschi era contraria alla persecuzione violenta e all’eccidio di massa degli ebrei» (pp. 81-82) anche se nella stessa pagina porta un dato non facilmente accordabile con questa affermazione. D’altra parte un altro autore tedesco, David Goldhagen, ha scritto che i tedeschi non solo hanno saputo, ma hanno voluto la Shoah.6
Lasciando sospeso un giudizio generale, guardiamo quei fatti che dimostrano disapprovazione e opposizione di cittadini tedeschi non soltanto alla Shoah, ma alla dittatura, opposizione e lotta senza uso di armi nè violenza, con la forza umana e l’unità. Elencherò, quindi, dei fatti di tal genere, rintracciabili nei lavori di storici che per lo più non hanno specificamente ricercato la resistenza nonarmata e/o nonviolenta.

4. Collotti 1962.
Enzo Collotti dedica il capitolo nono di La Germania nazista 7 a L'oppposizione antinazista. Ne traggo alcuni principali dati.
Nei primi due anni della dittatura si ebbero piccoli scioperi non esclusivamente sindacali, ma anche politici. Gli episodi più rilevanti si verificarono nelle elezioni dei fiduciari aziendali nel 1934 e 1935: le masse manifestavano il loro dissenso con larghe astensioni dal voto; in alcuni casi riuscirono perfino ad imporre esponenti di loro fiducia contro i candidati ufficiali del partito nazista. Fu un grave scacco per il governo, che il 31 marzo 1936 prolungò di un anno la durata in carica degli eletti, di nuovo il 9 marzo 1937, la terza volta il 1 aprile 1938. «Il governo di Hitler mai più osò effettuare elezioni direttamente nelle fabbriche» (Walter Bartel).
Gli emigrati, specialmente in Cecoslovacchia, sostennero i superstiti gruppi di opposizione con stampa clandestina. Socialdemocratici e comunisti cercavano motivi di unione, si diffondeva la parola d’ordine “Fronte Popolare” (Manifesto di Praga, gennaio 1934). Il 2 febbraio 1936 una grande manifestazione unitaria a Parigi esprime solidarietà con le vittime del nazismo, chiede libertà per i leaders in prigione, anche per lo scrittore pacifista Carl von Ossietzky, premio Nobel per la pace 1936, torturato già nel 1933.
Ma la stampa clandestina è irregolare ed episodica. Lo spirito pubblico non reagisce. La demagogia e l’orgoglio nazionalistico di Hitler ottengono consensi. Questo pesante condizionamento spiega perchè l’opposizione non andò mai oltre un blando astensionismo dal coro, ad eccezione di un numero esiguo di episodi concreti e precisi.
Collotti dissente da Gerhard Ritter, il quale attribuisce alle chiese qualcosa che assomiglia a «un reale movimento popolare contro il nazismo», l’unica resistenza che conseguì un «successo pratico». Tuttavia Collotti ammette che le chiese compirono «gesti di dignità», difesero la loro autonomia, assunsero posizioni coraggiose anche al di là dei loro interessi, e che - e furono i casi più rilevanti - singoli esponenti delle chiese parteciparono a più vasti gruppi e progetti di opposizione.
Le pubbliche proteste del cardinale Von Galen nel 1941 furono tra i pochi aperti moniti levati in Germania, sotto il nazismo, contro le atrocità e le violazioni dei diritti umani. Ma l’opposizione delle chiese non fu sistematica nè con fini politici, ma in generale diretta a salvaguardare la posizione e l’autonomia delle chiese stesse. Le quali non si posero il problema del rapporto storico e politico tra il nazismo e la società tedesca, ma del rapporto tra le chiese e il regime nazista. «La resistenza fu opera di singoli coraggiosi, non della chiesa come tale» (pag. 287).
La chiesa evangelica tedesca subì una lacerazione che arrivò alla scissione. I tentativi dei “cristiani tedeschi” di conciliare la teologia protestante e l’ideologia nazista rivelano lo sbandamento profondo della cultura tedesca e la degenerazione dei valori che si accompagnò all’affermazione del nazismo.
Proprio sul problema dell’antisemitismo si ebbero le prime reazioni della parte sana del protestantesimo. L’affermazione dei “cristiani tedeschi” nelle elezioni interne alla chiesa evangelica (luglio 1933) con l’appoggio nazista, provoca la frattura: nasce la Chiesa Confessante, che il Sinodo di Barmen (maggio 1934) proclama unica legittima chiesa evangelica tedesca. Ci sono in essa nobili figure di antinazisti, ma solo dei singoli fecero resistenza politica.
Nuclei popolari di oppositori pubblicano “Die Innere Front”, quindicinale e anche settimanale, in più lingue per i lavoratori stranieri in Germania. E’ un fronte popolare antifascista che fa solidarietà con i perseguitati politici e razziali e coi movimenti di resistenza dei territori occupati, e tiene anche i contatti con l’URSS. Nel dicembre 1942 sessanta esponenti di questi nuclei sono condannati a morte. Altri nuclei minori vicini ai comunisti fanno propaganda e anche azione terroristica. Diverse centinaia di loro componenti sono impiccati o fucilati.
Collotti registra una svolta dopo Stalingrado e parla a questo punto del noto gruppo della Rosa Bianca. Ma anche lui fa l’errore di Hoffmann.8 La Rosa Bianca si mosse coi primi volantini nel giugno 1942, ben prima della battaglia di Stalingrado, che dura dal 19 novembre 1942 al 2 febbraio 1943. Quattro dei suoi sei (oppure sette) volantini precedono la battaglia e cinque su sei (o sette) precedono la disfatta tedesca di Stalingrado. Quando la Rosa Bianca comincia la sua azione, Hitler è nel pieno dei suoi successi, contrariamente all’osservazione di Collotti e di Hoffmann.
Quando viene a parlare del complotto militare, Collotti osserva che né Beck né Goerdeler furono veri capi politici. L'obiettivo di evitare alla Germania la sconfitta sopravanzò sempre le esigenze della lotta senza compromessi al nazismo. Limiti e contraddizioni del complotto furono il nazionalismo (difesa dell'Anschluss), la ricerca di pace separata e continuazione della guerra all'Urss, la sfiducia nella democrazia. La maggiore contraddizione stava nel fatto che l'esercito era una componente del regime.


5. Vaccarino 1981 9
Da un gornale di sinistra del 2 agosto 1933 si apprende che venticinquemila operai scioperano a Kiel per ottenere l’espulsione di 10 operai nazisti. Sono registrati altri esempi significativi delle agitazioni che interessavano la classe operaia senza distinzioni di partito. Dal 1933 al 1937 si verificano scioperi simultanei e contagiosi, più o meno estesi in tutte le regioni industriali, o anche semplicemente una diffusa resistenza passiva nelle aziende.
Nel 1933 si istituiscono i campi di prigionia per operai, prima che per intellettuali e altri oppositori (politici, uomini di chiesa). Nel 1933 il 4% (20.565 persone) di tutti i sottoposti a giudizio, lo è per fatti politici. In sei anni, dal 1933 al 1939, sono condannate 225.000 persone per reati politici. Fra il 1933 e il 1945, tre milioni di tedeschi 10 sono internati in lager per ragioni politiche, da poche settimane a tutti i dodici anni di durata della dittatura. Negli stessi anni 32.600 persone sono giustiziate con sentenza, ma centinaia di migliaia con esecuzioni extra-giudiziali.11
Il lavoro di Vaccarino è molto dettagliato riguardo alle chiese e porta una impressionante quantità di appoggi ecclesiastici cattolici al nazismo. «La chiesa non seppe o non volle valutare la sua forza reale, o fu incline a sottovalutare il potere nazista» sui fedeli, scrive Vaccarino dopo avere riportato l’effetto della denuncia di Von Galen che fermò il programma di eutanasia. Aggiunge però che forse anche un più fermo intervento avrebbe trovato i fedeli già troppo traviati dalla propaganda nazista. Non mancarono cattolici che protestarono con coraggio fino a pagare con la vita, come i pochissimi obiettori di coscienza: «Dei sette cattolici (sei austriaci) che in tutto il Reich rifiutarono di lasciarsi arruolare nell’esercito di Hitler, sei furono condannati a morte e uccisi e uno dichiarato infermo di mente».
Quanto ai protestanti tedeschi, Vaccarino nota anzitutto l'impressionante cedimento protestante (luterano) al nazismo e razzismo. Per i Cristiani Tedeschi non c'era più un Dio umile e sofferente, ma un Cristo forte e glorioso, come gli dei nordici. Pesava su questo atteggiamento la tradizione luerana dell'obbedienza al principe, ridimensionata soltanto dalla Chiesa Confessante. Vaccarino però si chiede se fu resistenza quella di questa chiesa, e osserva che ci fu generosità e slancio morale non solo teologico, però neppure la Chiesa Confessante accettò tutte le implicazioni politiche della lotta a fondo. Ma, in alcune notevoli pagine12, Vaccarino afferma che resistenti non furono solo i partigiani armati e dimostra la radicale opposizione e resistenza morale dei Kreisauer (membri del Circolo di Kreisau) e della Rosa Bianca. Neppure la Chiesa Confessante osò (nè lo credette suo compito), condannare il regime nazista. Così la coscienza dei fedeli non rimase turbata nei suoi doveri verso lo stato. Così come Pio XII non turbò la coscienza dei cattolici tedeschi. Per questo la dichiarazione di Stoccarda del 19 ottobre 1945 confessa una “solidarietà di colpa” della chiesa evangelica col popolo tedesco. Nessun prelato cattolico riconobbe con tale franchezza la responsabilità della sua chiesa.


6. Sémelin 1993
Quest'opera di Sémelin13, a differenza di quelle citate finora, è una ricerca specificamente diretta a cogliere le forme di resistenza civile al nazismo. «Per quanto riguarda la Germania, è poco conosciuto il fatto che le chiese siano riuscite a fare indietreggiare Hitler su uno degli intenti più deliranti della sua azione: lo sterminio dei malati di mente». Tuttavia Sémelin non esalta la resistenza morale attuata dalle chiese - cioè, non tenta di provare troppo la propria tesi -, anzi denuncia (riferendo un giudizio di Scholder) che quel potenziale non fu «attivato in maniera significativa dalle alte gerarchie delle due chiese» e avverte di «non sopravvalutare la lotta delle chiese» (cfr. Collotti e Vaccarino nello stesso senso). Però gli archivi della Gestapo mostrano che Hitler temeva più le chiese che il Partito Comunista perchè potevano mobilitare le masse.
Sémelin riferisce di una ricerca in corso nel 1989 di Nathan Stolzfus a Harvard secondo cui l’opinione pubblica tedesca poteva frenare il genocidio quando manifestava la sua disapprovazione. Emblematico è ciò che avvenne dal 27 febbraio al 5 marzo 1943: 600 persone, specialmente mogli tedesche di uomini ebrei, protestano apertamente per strada contro l’arresto di questi. Goebbels nel suo diario e la legazione degli Stati Uniti a Berna registrano che «l’azione della Gestapo ha dovuto essere interrotta in seguito alle proteste suscitate».
La società tedesca tollerò la persecuzione degli ebrei, non l’eutanasia dei malati di mente. Questa seconda opposizione fu efficace perchè ci fu un movimento di opinione che invece non sorse contro la persecuzione deglli ebrei. Il primo settembre 1939 (giorno di inizio della guerra!), cominciò l’operazione T4 per l’uccisione degli incurabili. Subito ci fu resistenza da parte di alcuni istituti psichiatrici e di alcuni medici. Reagirono le famiglie che però fecero molto fatica a trovare portavoci istituzionali. Si ebbero agitazioni di magistrati che dichiararono la completa illegalità dell’operazione, ma poi, convocati in conferenza, non fecero alcuna rilevante opposizione. Si opposero anche i militari. E’ evidente che si può temere, in guerra, di diventare invalidi incurabili, mentre non si può diventare ebrei... La base delle chiese protestò prima delle autorità religiose. Finalmente quando vescovi protestanti e cattolici decisero di intervenire pubblicamente dando voce a quelle reazioni, il governo dovette interrompere il programma.
Il vescovo di Munster, Von Galen, il 3 agosto 1941, arriva a chiamare i cristiani alla resistenza, alla non-collaborazione, visto che usa l’espressione «sottrarci alla loro influenza». Poteva nascere un movimento di disobbedienza civile. Altri vescovi si associano. Si associa l'aviatore Werner Molders, eroe decorato della Croce di Ferro.
Sorgono divisioni sul da farsi all’interno del governo. Il 24 agosto la Cancelleria lascia intendere che, per decisione del Führer, l’operazione T4 è interrotta. Hitler sentì questo come una sconfitta personale e intendeva saldare i conti con le chiese dopo la guerra, perchè ora gli erano utili. Fu il suo primo smacco importante.
L’operazione T4 fece da 70.000 a 100.000 vittime, tra il settembre 1939 e l’agosto 1941. Sémelin segnala i limiti di questa azione di resistenza, la cui importanza tuttavia consiste nell’esserci stata e nell’aver dimostrato la sua potenzialità inespressa. C’è un giudizio severo di Adenauer in questo senso. Interrotta la T4, il primo settembre 1941 gli ebrei vennero obbligati a portare la stella gialla.

7. Ghezzi 1994 14
La Rosa Bianca, un'azione di grande significato, è uno dei pochi fatti più noti della Resistenza tedesca, sebbene mal conosciuto anche da buoni autori (come abbiamo visto). Fu un vero attentato alla dittatura di Hitler, non col tentare di ucciderlo, ma cercando di levargli il rispetto e l’obbedienza del popolo. Ghezzi ci fa conoscere, attorno ai fatti più noti, altre azioni di resistenza civile. Il 13 gennaio 1943, gli studenti universitari di Monaco fecero una clamorosa contestazione pubblica contro il Gauleiter Giesler, che aveva offeso pesantemente le studentesse invitandole a farsi femmine da riproduzione della pura razza ariana, invece di studiare. In dieci anni di regime non si era mai vista una simile contestazione, arrivata a fronteggiare fisicamente le SS e a picchiare (certo non era perfettamene nonviolenta!..) il capo degli studenti hitleriani. Alla fine del mese il Gauleiter Giesler dovette scusarsi pubblicamente con gli studenti. Da questo episodio, i fratelli Scholl trassero la convinzione purtroppo errata (Ghezzi, p. 184), che il tempo era maturo per una ribellione delle coscienze (pp. 19-20).
Quando Hitler inaugurò il primo tratto di autostrada Francoforte-Darmstadt, la notte precedente, in molti punti dell’asfalto nuovo comparvero le scritte “Fame!”, “Abbasso Hitler”, e furono messi fuori uso altoparlanti e telefoni. La polizia non scoprì mai gli autori. Questa azione corrispondeva al metodo teorizzato in un volantino di quel periodo dal socialista Ernst Fraenkel: il lavoro illegale deve essere visibile sia per la popolazione sia per la Gestapo, perchè uno dei suoi effetti essenziali sta nel dare insicurezza proprio ai detentori del potere. L’attività illegale sia visibile, l’attivista illegale invisibile! Solo così l’azione ha un significato politico (pp. 246-247).
Con azione individuale, l’operaio berlinese Quangel e sua moglie, riconoscendo lucidamente la brutalità e la menzogna del regime, la denunciano per due anni scrivendo cartoline che depongono davanti alle porte delle case. Sono «appelli alla resistenza contro la perversione dello spirito». Arrestato, Quangel incalza e rende sempre più insicuri gli inquisitori che lo interrogano, prima di essere giustiziato. E’ una tipica azione di resistenza morale, fondamento e movente di ogni resistenza analoga a quella della Rosa Bianca. Quangel fu ricordato dal presidente della Repubblica Federale Tedesca Richard von Weizsäcker, il 15 febbraio 1993, insieme ai giovani della Rosa Bianca (p. 296).
Hans e Sophie Scholl e Christoph Probst sono ghigliottinati di nascosto in carcere il giorno stesso della sentenza, invece che nella Marienplatz di Monaco, come voleva Giesler, perchè il governo di Berlino temeva manifestazioni di solidarietà (p. 183). Invece, non ci fu nessun sollevamento di studenti, nessuna protesta per la loro uccisione. Soltanto, il giorno della sepoltura, 24 febbraio 1943, qualcuno aveva scritto sul muro dell’università «Lo spirito vive» (pag. 188). Debole e forte simbolo di vita sotto la pressione della morte: un resistere, esistere, stare fermi, stare e ri-stare, reggere sotto la violenza, alla quale così si vieta di vincere davvero. Sebbene piccolo come un granello di senape, questo resistere personale e in qualche modo comunicato è il seme di ogni resistenza: «Resistere è l'atto principale della fortezza. Resistere è più difficile (richiede più forza) che aggredire»15.
La notte prima del processo, Sophie fa un sogno che racconta alla compagna di cella Else Gebel: «Era un giorno di sole e portavo un bambino al battesimo, avvolto in una lunga veste bianca. La strada per la chiesa diventava un ripido sentiero di montagna. Ma io camminavo sicura tenendo forte il bambino. Improvvisamente mi si aprì davanti un crepaccio. Ma ebbi il tempo di posare il bambino in un posto sicuro prima di sprofondare nell’abisso». Sophie aveva spiegato a Else il sogno: «Il bambino è la nostra idea, che si affermerà nonostante tutti gli ostacoli. Per questa idea abbiamo dovuto preparare la strada, ma anche morire» (pp. 186-187). Morire con questa visione è un fortissimo atto di resistenza, più forte di ogni arma che si oppone alla morte con altra morte, ed è una resistenza tutta consegnata a chi vive dopo grazie a questi morti, alla loro luce, alla loro superiorità sulla violenza.


8. Resistenti e ribelli nell’esercito tedeco
In questa sede16 richiamo solamente alcuni dati: 35.000 furono i disertori nell'esercito nazista. Di questi, 15.000 vennero arrestati e giustiziati. Su 12 milioni di soldati, sono pochi? Una quantità molto maggiore avrebbe avuto effetti decisivi, ma il significato di questi coraggiosi ribelli trascende il loro numero. Sembra di poter dire che, nelle stragi naziste di S. Anna di Stazzema (Lucca) e di Marzabotto (Bologna), alcuni militari tedeschi, anche delle SS, si adoperarono per salvare alcuni civili, altri eistarono ad obbedire all'ordine di ucciderli, altri si rifiutarono di obbedire e pagarono con la vita questo loro riscatto morale.
Degli obiettori di coscienza e renitenti alla leva si conoscono alcuni nomi, sufficienti a pensare che il fenomeno occultato sia stato almeno un poco maggiore. Anche qui, il numero è piccolo, grande il segno. Più numerosi i semi-obbedienti: coloro che obbedivano a rilento, capivano male gli ordini, li dimenticavano, trovavano un modo astuto di sottrarvisi, e non sempre senza rischio personale. Chi ricorda l'occupazione nazista in Italia può testimoniare alcuni di questi casi. Non erano resistenti aperti, ma certo non collaboravano appieno e cercavano di frenare la macchina che li coinvolgeva.


9. Il boicottaggio della Shoah con l’azione umanitaria in favore degli ebrei
In altra sede17 ho raccolto un certo numero di nomi e storie di "altri Schindler", con riferimento al personaggio reso famoso dal film di Steven Spielberg. Quanto al numero di ebrei salvati, alcuni di loro ne sottrassero allo sterminio molti più di Schindler, fino a molte migliaia, fino ai 100.000 di Raoul Wallenberg, diplomatico svedese. Ma, per limitarci qui ai cittadini tedeschi, richiamo soltanto il fatto che, secondo i calcoli del Centro per le ricerche sull'antisemitismo dell'Università tecnica di Berlino, quando nel maggio 1943 la città fu dichiarata "libera dagli ebrei", vivevano in Berlino almeno 1.400 ebrei nascosti e protetti da cittadini tedeschi. Dato che l'esistenza di ogni clandestino era nota a circa 4-5 persone, si ricava che, solo a Berlino, almeno 6-7.000 tedeschi sfidavano la morte per proteggere ebrei. In tutta la Germania gli ebrei nascosti erano circa 4.000. Contando anche i casi in cui l'aiuto fallì, il Centro suddetto calcola che 50-80.000 tedeschi aiutarono coraggiosamente gli ebrei.


10. Obiezione degli scienziati atomici tedeschi?
Questa non appare come una chiara e dichiarata obiezione di coscenza.
Per Leandro Castellani18 resta incerto quanto pesò il “non potere” (per “mancanza di mezzi”, dovuta anche a sabotaggi e bombardamenti inglesi e statunitensi sulle riserve di uranio e di acqua pesante) e quanto il “non volere” degli scienziati tedeschi. Karl Friederich von Weizsäcker dichiara all’autore nel 1967: «Non sarei mai andato da Hitler a dirgli: “Ecco. Abbiamo trovato l’arma definitiva”. Avevo delle buone, buonissime ragioni per non farlo. Primo non lo volevo fare; e poi comunque non sarebbe stato possibile farlo.». Resta però il fatto che gli scienziati tedeschi ingannarono il governo nazista facendogli credere fino all’ultimo di poter lavorare alla costruzione dell’atomica.
Secondo Thomas Powers19, essi non misero «un serio impegno», «non si apprestarono mai attivamente alla costruzione della bomba». Egli sottolinea di più la non volontà di Heisenberg e degli altri scienziati di mettere in mano a Hitler l’atomica. Gli scienziati tedeschi «smorzarono» l’interesse. Powers dubita che Heisenberg fosse sincero e leale nel dire che il progetto era «troppo impegnativo». Egli «si preoccupava soltanto del problema posto dalla bomba e non del problema di come costruirla». Non si limitò ad astenersi ma fu lui stesso a far abbandonare il progetto. Houtermans, nell’aprile 1941, fa arrivare agli americani informazioni sul progetto tedesco della bomba e dice che Heisenberg cerca di procrastinare il più possibile i risultati. Nel 1941 Heisenberg in Danimarca informa Niels Bohr e gli propone un accordo tra i fisici di tutto il mondo per far fallire ovunque il progetto atomico dicendo sia ai tedeschi sia agli alleati che la costruzione della bomba è troppo impegnativa e incerta. La verità è che le iniziative tedesche «furono stroncate dal pessimismo tecnico dei più eminenti scienziati tedeschi che non volevano costruire la bomba per Hitler». Powers riferisce questa dichiarazione di Heisenberg: «Era orribile l’idea di mettere in mano a Hitler la bomba atomica». Ma Heisenberg rimase poi reticente, non rivendicò alcun merito perchè - suppone Powers - amava la Germania, rimase in «esilio interiore» e non volle figurare come sabotatore, non si assunse la responsabilità di essere anche un esempio oltre il risultato contingente.
Mi pare di capire che la coscienza di questi scienziati cercò degli spiragli per non collaborare al male, pur senza affrontarlo di petto e apertamente. Anche questa tuttavia fu una resistenza civile, non armata, alla violenza nazista. Infatti Sèmelin individua, tra le forme di questa resistenza, il lavoro a rilento.20 Tale fu il lavoro di questi scienziati, anzi una non-collaborazione e un boicottaggio mascherati da collaborazione faticosa, difficile, lunga. Essi tennero occupato il posto di collaboratore senza dare collaborazione.

11. L’arte come resistenza
Senza sviluppare questo tema affascinante nè raccogliere altra documentazione, vorrei ricordare un solo nome di donna tedesca: Käthe Kollwitz (1867-1945), di cui abbiamo visto alcuni disegni e sculture nella mostra “L’arte per la libertà”, a Genova nel gennaio 1996: scene tese, scabre, dolenti, soprattutto di donne; scene che sono un vivente grido contro guerra e violenza; sono quel rifiuto, quel no profondo e solenne all’offesa, che è fondamento e completamento di ogni resistenza, tanto più quanto più questa è radicalmente alternativa alla violenza anche nei mezzi. Käthe Kollwitz morì all’inizio del 1945, non vide la fine della querra. Ma le sue opere anche oggi gridano “fine" ad ogni guerra contro l’umanità, la dignità, la giustizia. Quel piccolo gruppo in legno scuro di donne appoggiate le une alle altre, che salutano dolorosamente i loro uomini in partenza per la guerra, emana un lutto così straziante che non si ha un cuore umano se non ci lascia determinare ad opporre il no di tutta la propria persona, di tutte le proprie energie, al male che in Germania in quegli anni si chiamava nazismo, e che sotto molti nomi e aspetti sempre si ripresenta a minacciare moralmente prima che fisicamente la vita umana in noi tutti.


12. Per un giudizio generale: la Resistenza tedesca come resistenza di coscienze.
Friedrich Muckermann, gesuita, autore di La via tedesca, pubblicò in Olanda dal 1933 al 1939 una rivista con lo stesso titolo, Der Deutsche Weg, diretta ai tedeschi, per contestare al nazismo il monopolio del patriottismo, al quale egli rivendicava (con un tentativo oggi discutibile più di allora) il fondamento cristiano. In conclusione del libro, nel 1945, Muckermann scrive: «Ci fu in Germania un movimento di resistenza che ebbe uno sviluppo sino ad oggi sconosciuto nell'opinione pubblica mondiale. Questo movimento di resistenza ha condotto la sua battaglia nel campo essenziale e più importante: nel campo della libertà di coscienza, che è il fondamento e la premessa di ogni libertà umana».21
In effetti, la Resistenza tedesca fu una lotta nelle coscienze e delle coscienze. Lotta nelle coscienze per i militari, che passarono all'azione contro Hitler e dovettero superare il giuramento di fedeltà personale, che non era solo un alibi, ma un vero problema di coscienza, anche riguardo all'uccidere (come sentirono in particolare Goerdeler e Moltke), cioè all'usare un metodo nazista per abbattere il nazismo.22 Lotta nelle coscienze per i cristiani ispirati alla tradizione luterana dell'obbedienza "teologica" al principe, superata con forza e sforzo interiore dalla Chiesa Confessante con la Confessione di Barmen.23 Lotta delle coscienze, perché quel milione (o tre milioni, secondo Vaccarino) di tedeschi chiusi in lager come oppositori politici, opposero a Hitler invece delle armi, e ben più che le armi, il rifiuto delle loro coscienze ad obbedire al comando malvagio. Questo rifiuto è, come ha detto Muckermann, fondamento della libertà. La quale ha, nelle armi, al massimo uno strumento molto ambiguo e insicuro, e invece, nella responsabilità delle coscienze, la sua sostanza.
Colgono meno questo carattere della Resistenza tedesca giudizi come quelli di Collotti citati sopra al paragrafo 4, o questo di Salvadori: «Un movimento di resistenza vero e proprio non potè svilupparsi». «Nessuna forma di opposizione, né direttamente politica come quella comunista e socialdemocratica, né militare, né religiosa, riuscì a rappresentare altro che la protesta di una piccola minoranza del popolo tedesco (...). La macchina del totalitarismo nazista fu spezzata, essa che aveva quasi tutto travolto all'interno del paese, soltanto nel corso di una guerra perduta».24
Un tale giudizio, molto diffuso, che riconosce alla guerra antinazista tutto il merito e il valore di opposizione efficace al nazismo, richiede alcune semplici considerazioni:
1) la previsione e avvertimento di Gandhi, che non si sarebbe potuto vincere il nazismo con la guerra, cioè con metodi simili si suoi, perché la guerra può essere vinta solo facendosi più spietati e più crudeli del nemico25, si è verificata nel fatto che i vincitori di Hitler ne hanno ereditato lo sterminismo nella misura amplificata del dominio atomico sull'umanità. La guerra ha distrutto l'impero di Hitler, ma non il suo spirito. Certamente si deve riconoscere che la cultura politica e l'evoluzione morale umana non erano in grado allora (come ancora oggi, ma in presenza di una consapevolezza assai cresciuta) di opporre alla guerra di Hitler se non altra guerra, ma si deve ugualmente riconoscere che l'opposizione morale e spirituale dei resistenti senza violenza batteva vie più antiche e più nuove, più profondamente contrarie e alternative al nazismo.
2) quel giudizio di Salvadori appare meno illuminato e chiaroveggente di quelli che riconoscono e valorizzano più della guerra, in un bilancio umano profondo e di lunga prospettiva, il moto di coscienze, pur minoritario e nell'immediato sconfitto e fisicamente soppresso, che fu la Resistenza tedesca.
3) quel giudizio però pone giustamente il problema dell'efficacia irrinunciabile: l'opposizione ad un potere iniquo deve proporsi di sostituirlo, non soltanto di giudicarlo, né soltanto di negargli la collaborazione e l'obbedienza personali senza che questi rifiuti lo svuotino e lo facciano cadere. Oltre la testimonianza si deve cercare il risultato storico. Certamente. Ma l'efficacia delle lotte nonviolente26 - come quella di ogni tipo di lotta e di impresa importante - non è soltanto quella immediata (che pure in alcuni casi storici si è avuta: per esempio nell'opposizione degli insegnanti norvegesi alla nazificazione della scuola27), ma è anche quella profonda, che agisce a lungo nel tempo successivo col porre le premesse di esperienza, le premesse teoriche, soprattutto le premesse morali per la lotta alla violenza senza ripetere la violenza. Lo vediamo dal fatto che, se il nazismo avesse avuto di fronte soltanto una opposizione violenta (fallita e soppressa in Germania e in ciò esauritasi, a differenza della opposizione morale), il giudizio su di esso sarebbe più appannato risolvendosi quasi in un confronto di forze brute. E tale è infatti quel giudizio per chi vede la storia come uno scontro di forze materiali, di violenze che si giustificano a vicenda, e non dei valori umani contro le negazioni dell'umanità. La disumanità della violenza risalta invece quando la fronteggia l'umanità più pura, più tesa a liberarsi da ogni offesa e danno ad esseri umani, fossero pure colpevoli.
Questa efficacia morale, di esempio, incoraggiamento, stimolo, direi che è assicurata sempre all'azione nonarmata mossa da volontà di nonviolenza, dalla ricerca di liberarsi anche dalla propria violenza. La morte dei fratelli Scholl e dei loro compagni, per esempio, è un fallimento nell'immediato, ma è una forza operante ed efficace nel trasmettere ad ogni tempo e luogo umano la forza del rifiuto della tirannia disumana. Questa forza è l'anima e la ragione di ogni ricerca doverosa di effettiva e rapida demolizione politica di un potere ingiusto. Senza quella forza, la più potente forza materiale non cambia veramente le cose in meglio: può cambiare gli occupanti del potere senza affatto renderlo più giusto, meno violento. Abbondano le prove storiche. La disposizione al sacrificio della propria vita (anche chi usa le armi può essere ucciso, e gli occorre questa disposizione) non è rinuncia all'efficacia attuale, ma affermazione dell'efficacia certa dei fini più umani. Non è da calcare la distinzione weberiana tra etica dei fini, delle intenzioni da un lato, e ricerca responsabile del risultato dall'altro lato: nel concreto, escluse le posizioni estreme, chi agisce con un senso morale umano persegue entrambe le cose. L'importante è che, se viene a mancare il risultato, non manchi la chiarezza del fine e la forza dell'intenzione. Il fine e l'intenzione potranno trovare in altra circostanza, per mano di altri, la loro realizzazione, mentre non è vero il contrario: un risultato concreto e vantaggioso ottenuto in contraddizione con quelli che erano i fini e le intenzioni pure originarie dell'agente, non è un risultato positivo, perché ha un valore statico ed ambiguo, non dinamico. Altra cosa è il risultato parziale, sulla linea dei fini maggiori, cioè quello che Gandhi chiamava il "nobile compromesso". L'importante è che tanto il risultato, piccolo o grande, quanto il sacrificio, indichino chiaramente il fine maggiore. In tal caso, una efficacia c'è.
Dunque, la Resistenza tedesca è stata, come scrive Hans Mommsen, «un atto di autodifesa morale»,28 una resistenza dello spirito.
Quando leggiamo l'ultima lettera di Helmuth James von Moltke alla moglie, dell'11 gennaio 1945, dodici giorni prima di essere impiccato, in cui racconta il suo processo e la condanna a morte, ci pare di leggere gli antichi Atti dei martiri. Il presidente del "Tribunale del popolo", Roland Freisler (lo stesso feroce giudice che aveva condannato il gruppo della Rosa Bianca), gli chiede retoricamente: «Da chi prende ordini lei? Dall'aldilà o da Adolf Hitler? (...) A chi va la sua fedeltà e la sua fede?».29 Il delitto di Moltke è il non essere tutto di Hitler. Egli scrive alla moglie che è felice di essere condannato «non come protestante, non come latifondista, non come nobile, non come prussiano, non come tedesco (...) bensì come cristiano e assolutamente nient'altro». Davanti al potere assolutamente prevaricante, che pretende adorazione divina, si alza la resistenza della coscienza. Colpiscono, in questa nostra ricerca, le parole di Freisler quando accusa Moltke, protestante, per i contatti col gesuita Alfred Delp30: «Un padre gesuita, e proprio con lui lei va a discutere i problemi della resistenza civile!».31
Un documento, forse il più grande per profondità, di questa resistenza dello spirito, sono le pagine di Dietrich Bonhoeffer, pubblicate in apertura delle sue lettere dal carcere e scritte nel 194332.


13. Dedica al Resistente Ignoto
Dedichiamo questo sguardo, molto incompleto e correggibile, sulla Resistenza civile al nazismo da parte di cittadini tedeschi, al più sconosciuto e disconosciuto, al più offeso e calpestato - perchè diversi di loro furono offesi e sono disconosciuti 33 anche nella democrazia, dopo la caduta del nazismo - tra quanti tedeschi opposero alla violenza nazista l'insorgere della loro coscienza. Infatti, l'oscurità di questo "Resistente Ignoto" è più luminosa dei lampi mortali del nazismo, e il suo rifiuto ha costruito la Germania umana tra i popoli umani, per molto più che mille anni, non soltanto meglio e più veramente di ogni superbia e violenza che essa abbia prodotto, ma anche meglio e più solidamente di ogni ricchezza ed influenza che essa oggi produce.
Se la Resistenza tedesca è stata soltanto un moto di coscienze è stata molto, non poco. E non è un caso, probabilmente, che, negli anni '80, gli anni della montata dello sterminismo atomico, il movimento per la pace abbia avuto in Gerrmania forse il suo luogo più vivo. Forse non è un caso che le manifestazioni popolari tedesche per la pace, cioè per la «incapacità strutturale di aggressione»34, siano state, tramite la televisione, modello e proposta delle tecniche di rivoluzione nonviolenta che, nell'Europa dell'est, hanno delegittimato e fatto cadere senza violenza i regimi autoritari35.

Enrico Peyretti (enrico.peyretti@gmail.com)

Appendice - Riferimenti attuali (2000) in Germania sulla Resistenza antinazista:
1 - DRAFD, Deutsche in der Résistance, in den Streitkräften der Antihitlerkoalition und der Bewegung Freies Detschland (Tedeschi nella Resistenza, nelle forze armate della coalizione antihitleriana, nel movimento Libera Germania). Telefono sede centrale di Berlino: 0049/30/509.88.52. Contatto diretto con un partigiano del DRAFD: Peter Gingold, Reichsforststrasse 3, D-60528 Frankfurt, tel 0049/69/672.631
2 - Bundesvereinigung Opfer der NS Militärjustiz (Associazione vittime dei tribunali militari nazisti), Freidrich Humbert Strasse 116, D-28758 Bremen, tel 0049/421/622.073, fax 621.422. Contatto diretto con il presidente Ludwig Baumann, Aumunder Flur 3, D-28757 Bremen, tel 0049/421/66.57.24
3 - Antikriegsmuseum, Friedensbibliotek, Bartolomäuskirche, Friedensstrasse 1, D-10249 Berlin, tel 0049/30/508.12.07
4 - Mahn- und Gedenkstätte für die Opfer der Nationalsozialistischen Gewaltherrschaft (ammonimento e memoria per le vittime del dominio nazista), Mühlenstrasse 29, D-40591 Düsseldorf





1 L. Caracciolo, Gli uomini del 20 luglio, in L'Indice, n.7, 1988, p.23, citato da Jens Petersen, La resistenza tedesca vista dall'Italia: il giudizio dei contemporanei e degli storici, in La Resistenza tedesca 1933-1945, a cura di Claudio Natoli, Franco Angeli, Milano 1989, p. 263.
2 Peter Hoffmann, Tedeschi contro il nazismo. La Resistenza in Germania, Il Mulino, Bologna 1994 (1988), pp. 7-8.
3 Massimo L. Salvadori, Storia dell'età contemporanea, Loescher, Torino 1976, pp. 745-746, 911.
4 Jacques Sémelin, Senz'armi di fronte a Hitler, La Resistenza civile in Europa, 1939-1943, Ed. Sonda, Torino 1993 (1989), p. 171.
5 Peter Hoffmann, op. cit., pp. 72 e 174-178.
6 David Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, Mondadori, Milano 1997.
7 Enzo Collotti, La Germania nazista, (dalla Repubblica di Weimar al crollo del Reich hitleriano), Einaudi, Torino 1962, pp. 273-305. Dello stesso autore utilizzo in parte anche l'articolo Per una storia dell'opposizione antinazista in Germania, in Rivista storica del socialismo, gennaio-aprile 1961, pp. 105-137, che contiene più ampie referenze bibliografiche.
8 Cfr Peter Hoffmann, op. cit., p. 147.
9 Giorgio Vaccarino, Storia della Resistenza in Europa, 1938-1945, Feltrinelli, Milano 1981, parte prima, pp. 17-152.
10 Solo Vaccarino, a quanto mi risulta, dà questa cifra, che invece è di un milione per Salvadori (nell'edizione scolastica 1978, p. 365, non nell'opera maggiore, in cui parla solo di «decine di migliaia di quadri», op. cit., p. 743) e per Claudio Natoli (Introduzione a La Resistenza tedesca, 1933-1945, cit., p. 21).
11 Cfr Peter Hoffmann, op. cit., p. 173-174.
12 Cfr Giorgio Vaccarino, op. cit., pp. 106 e 108.
13 Jacques Sémelin, op. cit., pp. 120-129, 171-172.
14 Paolo Ghezzi, La Rosa Bianca, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1994.
15 «Principalis actus fortitudinis est sustinere». «Sustinere est difficilius quam aggredi», Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, IIa-IIæ, q. 123, art. 6.
16 Ho sviluppato questa ricerca in un capitolo dal titolo provvisorio Quelli dell'ultima ora, per un lavoro collettivo ancora inedito sulle forme di resistenza nonviolenta al nazifascismo.
17 Per il medesimo lavoro ora citato, ho raccolto questi casi nel capitolo provvisoriamente intitolato Molti Schindler: dunque si poteva resistere al nazismo
18 Leandro Castellani, La grande paura, Storia dell'escalation nucleare, Prefazione di Carlo Bernardini, ERI, Torino 1984, pp. 96-106.
19 Thomas Powers, La storia segreta dell'atomica tedesca, Mondadori, Milano 1994 (1993), pp. 503-509.
20 V. Semelin, op. cit., pp. 51, 53-54, 95, 202
21 Friedrich Muckermann, La via tedesca, Morcelliana, Brescia 1947 (1945), pp. 99-100. Il libro è presentato da Mario Bendiscioli, che fin dal 1935 scriveva in Italia sulla resistenza religiosa al nazismo in Germania (cfr p. 6 della Presentazione).
22 Cfr, sul problema di coscienza relativo all'uccidere Hitler, la mia recensione del libro citato di Hoffmann, in Servitium, n. 102, nov.-dic. 1995, fascicolo "Resistenza al male", pp. 117 e 119-120.
23 Cfr Giorgio Vaccarino, op. cit., pp. 90 e 93, che cita Sergio Bologna, La Chiesa Confessante sotto il nazismo: 1933-1936, Feltrinelli, Milano 1967.
24 Massimo L. Salvadori, Storia dell'età contemporanea, cit., p. 911, pp.745-746.
25 Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1996, p. 249.
26 Su questo argomento cfr il mio articolo Quale efficacia nelle azioni nonviolente?, in Azione Nonviolenta, ottobre 1993, pp. 22-24.
27 Cfr Sémelin, op. cit., p. 86-89.
28 Hans Mommsen, La Resistenza tedesca 1933-1945. Formazione, profilo sociale e condizionamenti strategici, in La Resistenza tedesca 1933-1945, a c. di C. Natoli, cit., p. 35.
29 Helmuth James von Moltke, Futuro e resistenza (dalle lettere degli anni 1926-1945), Morcelliana, Brescia 1985, p. 208.
30 Alfred Delp, membro del Circolo di Kreisau, ucciso il 2 febbraio 1945. Di lui si può vedere Gesammelte Schriften, Aus dem Gefängnis, Frankfurt/M, 1984. Un bel capitolo dedicato a Delp è in Thomas Merton, Fede e violenza, Prefazione di Ernesto Balducci, Morcelliana, Brescia 1965, pp. 41-75.
31 Helmuth James von Moltke, op. cit., p. 202.
32 Dietrich Bonhoeffer, Dieci anni dopo. Un bilancio sul limitare del 1943, in Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1989, pp. 59-74.
33 Soltanto il 29 maggio 1998, mentre sono in treno, in viaggio verso la Germania, leggo su giornali italiani e tedeschi la notizia che il Bundestag ha approvato il giorno precedente, a stragrande maggioranza, una legge che annulla «tutte le sentenze emesse tra il 1933 e il 1945 che offendono l'elementare idea del diritto». Questa legge riabilita quasi 500.000 persone, tra cui oppositori politici e disertori, ma è criticata come tardiva e compromissoria, perché non dà alcun riconoscimento positivo agli atti di opposizione politica e di rifiuto di combattere la guerra nazista, ma si limita a dichiarare illegittime le sentenze imposte dalla dittatura nazista.
34 Questa formula era usata dai pacifisti tedeschi negli anni '80. Cfr il mio articolo Idee per la pace, resoconto del convegno fiorentino di Testimonianze, in il foglio n. 131, dicembre 1985.
35 Cfr Giovanni Salio, Il potere della nonviolenza, Ed. Gruppo Abele, Torino 1995, cap. 1 Cosa è successo nel 1989?

Nessun commento:

Posta un commento