LA
RESISTENZA ANTINAZISTA IN GERMANIA
Lezione di Enrico
Peyretti
nel corso di aggiornamento
per docenti
"Nonviolenza nella
storia.
Casi di resistenze civili
nel Novecento"
(Torino, ottobre 1996 -
gennaio 1997)
Centro Studi Domenico Sereno
Regis (www.serenoregis.org)
Istituto Piemontese per la
storia della Resistenza
e della società
contemporanea.
1.
Che cosa ne sappiamo?
Della resistenza al nazismo interna alla Germania, in genere ne
sappiamo poco. «Non si può dire che la resistenza tedesca (...)
abbia (...) finora suscitato grande interesse fra il pubblico colto,
in Italia come in quasi tutto il mondo (...). In questa opera di
rimozione ha certamente pesato, specialmente nei primi anni del
dopoguerra, il cliché della "colpa collettiva".
(...) Questo schema nefando (...) escludeva per definizione
l'esistenza di un' "altra Germania". Oggi una storiografia
più avvertita e critica sta scoprendo il fenomeno resistenziale,
nelle sue diverse stratificazioni e componenti»1.
Forse ne sanno ancora meno i tedeschi stessi: un sondaggio serio
eseguito nella Repubblica Federale Tedesca nell’ aprile 1970
rilevava che, tra i 16 e i 29 anni di età, il 47% non era in grado
di citare alcun fatto relativo all’attentato a Hitler del 20 luglio
1944. Nel 1984, 14 anni dopo, questo dato era salito al 63%! Nel
gruppo di età 16-19 anni, fra coloro che sapevano qualcosa del 20
luglio, solo il 14% nel 1970 e la metà, il 7%, nel 1984, era in
grado di riferire correttamente nomi di preti, pastori, sindacalisti,
socialisti, comunisti, che avevano preso parte alla resistenza.2
Ho percorso i migliori manuali liceali che avevo a disposizione. In
alcuni non si trova assolutamente nulla: quindi nessun tedesco si
sarebbe opposto a Hitler in nessun modo! (Ortoleva-Revelli, De Rosa,
Saitta). Altri citano solo l’attentato del 20 luglio
(Bontempelli-Bruni), oppure questo insieme al gruppo studentesco
della Rosa Bianca (Desideri), o insieme all’azione delle chiese (De
Bernardi-Guarracino, Giardina-Sabbattucci-Vidotto). Uno (Traniello)
informa sull’ opposizione di chiese ed intellettuali. Questa azione
è sottolineata nel più recente manuale di
Bordino-Chiattella-Gatti-Martignetti, entro un'ampia scheda di
Alberto Monticone sulla Resistenza morale. Un manuale
(Gentile-Ronga-Salassa) descrive più ampiamente il fenomeno portando
anche la cifra di un milione di tedeschi imprigionati dal 1933 al
1945 come oppositori. Lo stesso dato è fornito dal Salvadori
scolastico, insieme all’opposizione di chiese, intellettuali,
militari. Naturalmente la “Storia dell’età contemporanea”
dello stesso Salvadori porta informazioni molto più complete in
diverse pagine, ma con giudizi che minimizzano il peso e il
significato della Resistenza tedesca.3
Nelle biblioteche si trovano 10-20 titoli, in gran parte sul 20
luglio. L’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza
conserva quasi 80 titoli di cui 32 in tedesco, 3 in francese, 2 in
inglese, 4 pubblicazioni promosse dal Consiglio Regionale
Piemontese.
Ma qui non ci interesssa tanto la Resistenza in tutte le sue forme,
quanto verificare se ci sono state in Germania, oppure tra cittadini
tedeschi nelle zone occupate dal Reich, fatti e forze che attuarono
una resistenza civile, nonarmata e/o nonviolenta. Se troveremo questa
realtà, sarà provata la possibilità di opporre anche ad un regime
feroce come quello nazista, e dal suo interno, una resistenza che non
ne imiti e riproduca la violenza. In tal caso, resterà da verificare
l’efficacia di una tale forma di resistenza.
2. Un rapido quadro
generale
Mi servo a questo scopo della relazione tenuta a Torino il 6 aprile
1995 da Hans Mommsen, autorevole studioso tedesco, nel convegno
“Resistenza, Resistance, Widerstand” indetto da Goethe Institut,
Centre Culturel Français, Dipartimento di Studi Politici
dell’Università di Torino.
Queste furono le caratteristiche salienti della Resistenza tedesca :
- Fu una resistenza contro la propria nazione e il suo governo, a
differenza di tutte le altre resistenze nazionali
- Non potè riferirsi ad una forma costituzionale preesistente, ne
Weimar nè precedente (in ciò simile alla Resistenza italiana)
- Fu condotta dai partiti antinazisti, scomparsi però dopo i primi
anni di regime. Dal 1938, fu condotta non da una classe politica, ma
da alti funzionari, alti gradi militari. Fece eccezione il partito
comunista, anche oltre il 1943. E’ un errore vedervi un’azione
soltanto a favore dell'URSS. Così, è un errore vedere nel complotto
del 20 luglio 1944 soltanto una matrice conservatrice e
aristocratica, perchè ci furono pure socialdemocratici,
sindacalisti, cristiani (Bonhoeffer). Il movimento del 20 luglio non
rappresentava tutta la resistenza tedesca, non prospettava una
democrazia ma un principio autoritario corporativo. Molti dei
congiurati pensavano che il nazismo fosse l’effetto della
iper-democrazia di Weimar, dell’industrializzazione e
urbanizzazione. Gruppi borghesi di destra volevano fare tabula rasa
dell’ordinamento di Weimar pre-1933, non tenevano conto dei
partiti. Bisogna ammettere che non furono nè i democratici nè le
sinistre che tentarono di abbattere il regime del terrore.
- Schematicamente possiamo vedere due fasi della Resistenza. Nella
prima i comunisti tentarono una organizzazione compatta, più esposta
alla Gestapo, che non conquistò adesioni. Nella seconda fase, dal
1938, la componente borghese-militare rinuncia alle tecniche
cospirative, perciò sfugge alla Gestapo. L’esercito valeva come
una forma di esilio interno. Hitler e la Gestapo non seppero valutare
appieno la forza politica della borghesia. Caratteristica di questa
fase è di essere nazional-conservatrice: una “Resistenza senza
popolo”. Il Circolo di Kreisau si considerava la “guida nata”
della nazione, non cercò appoggio nella popolazione. Solo dopo la
richiesta degli inglesi: «Chi c’è dietro di voi ?», Goerdeler
cercò contatti con le sinistre. Ma la resistenza rimase senza
popolo: il 20 luglio, la popolazione reagì sfavorevolmente
all’attentato. Nel 1943 emerse l’attività comunista, pericolosa
per i nazional-conservatori, tra i quali nacquero divisioni per
questo motivo.
- Per quel che riguarda gli obiettivi dei congiurati ci furono
molteplici piani e progetti. Mancavano dei veri politici. Il piano
aveva tratti utopici. Il Circolo di Kreisau era anti-liberale: per
esempio non prevedeva il voto passivo alle donne. Padre Delp, gesuita
di Monaco, voleva una riforma morale-politica, non solo delle idee;
diceva che i tedeschi erano diventati un “popolo sulla strada”,
avendo perduto il senso di patria e dei valori religiosi e sociali;
bisognava riportare l’uomo “fuori dalla sua solitudine”
(elemento, dirà Hannah Arendt, del totalitarismo). Quindi:
ricostruzione delle capacità politiche del singolo ma con tratti
elitari. Però anche Goerdeler accettava la nazionalizzazione delle
industrie delle materie prime. Il denominatore comune era il
ripristino del diritto calpestato, del diritto divino e naturale
della persona umana. I resistenti furono spinti anche dalla
conoscenza della persecuzione degli ebrei.
- Infine, Mommsen valuta l’estremo tentativo del 20 luglio (ma gli
attentati a Hitler furono una ventina fra quelli preparati, quelli
sfumati all’ultimo, sventati, falliti) come un atto morale per
uscire dalla complicità del popolo tedesco col terrore: era
necessario tradire anche se il popolo non avrebbe capito. Questo
contava più di ogni ambizione personale. Incerta era la possibiltà
di costituire un governo dopo il 20 luglio. Ci sarebbe stata una
guerra civile, una situazione simile alla Resistenza italiana. Ciò
avvrebbe dovuto accelerare la fine della guerra durata invece ancora
quasi un anno.
- Ma gli alleati non volevano altro che la resa senza condizioni,
perciò abbandonarono a se stessa l’ “altra Germania”. Invece
era importante spezzare il mito dell’onnipotenza del sistema, anche
per merito soltanto di una piccola minoranza. Oltre ai congiurati del
20 luglio, si opposero alla tirannia totalitaria anche molti singoli
che disobbedirono a ordini disumani.
- Dopo il 1945 non ci furono rappresentanti sopravvissuti della
Resistenza nella politica tedesca, ma piuttosto la classe della
Repubblica di Weimar. Così pure nella DDR (Repubblica Democratica
Tedesca): non i comunisti della resistenza ma quelli provenienti da
Weimar. Così la Resistenza tedesca è stata rappresentata da un
“generazione perduta”, che non potè dare contributi successivi.
Ma la Resistenza è ancora una sfida per la Germania.
Fin qui, una mia sintesi della relazione di Hans Mommsen.
3. Si può parlare
di“Resistenza civile” in Germania ?
Certamente questa realtà ha molti limiti. Ma agisce anche un forte
condizionamento mentale e culturale. Cioè, accade questo: l’immagine
ed esperienza pesante, invasiva, terrificante della violenza
tirannica e omicida, attira a sè (come un corpo celeste di massa
maggiore del satellite) e assimila a sè ogni forza antagonista; e
ciò sia precedentemente, sia durante, sia successivamente al
confronto diretto. E’ la mimesi, imitazione speculare della
violenza, di cui parla René Girard, che opera anche nella
rappresentazione storica, per cui l’opposizione e resistenza ad un
potere violento non sembra poter essere altro che violenta. Lo è ben
spesso proprio per la realtà di questo meccanismo di imitazione. Ma
lo è molto meno di quanto non lo configuri la rappresentazione della
memoria, anche nella memoria critica storiografica, essa pure
soggetta a quella attrazione fatale. Si tratta di accrescere la
criticità e libertà dell’indagine, anche per allargare le maglie
del possibile presente e futuro, grazie ad una più varia e accurata
rappresentazione dei fatti. Questo vuol fare la ricerca di aspetti e
filoni, o anche solo di singoli conati, liberi o in cerca di libertà
dalla coazione a ripetere la violenza. Tali esperienze sono presenti
anche nella Resistenza tedesca, quella che più direttamente di ogni
altra resistenza nazionale, in un terribile corpo a corpo che
penetrava le coscienze dei resistenti, si confrontò con la violenza
nazista.
Cerchiamo di non subire la distorsione della “storia potente e
rumorosa” per poter udire il sottofondo della vita. E’ il grande
tema di “Guerra e pace” di Tolstoj. Napoleone e Platòn
Karatajev: il grande è questo secondo, l’ultimo è il primo. Così,
tra Hitler e Franz Jagerstatter, il primo distrugge la storia umana,
il secondo, decapitato per obiezione di coscienza, la costruisce.
Dei fatti di resistenza civile ci sono. Jacques Sémelin in Senz’
armi di fronte a Hitler, sulla scorta di una ricerca in corso
nell’università di Harvard, dice in sintesi che i dati mostrano
«quanto l’opinione tedesca fosse in grado di frenare il genocidio,
nel caso in cui manifestava la sua disapprovazione di fronte alla
persecuzione degli ebrei»4
. Ci fu questa disapprovazione? Fu manifestata, e quanto
intensamente, dal popolo tedesco?
Anzitutto, chi si oppose alla dittatura nazista, lo fece, secondo
Hoffmann, soprattutto mosso dalla condanna morale della persecuzione
degli ebrei.5
Questo autore afferma «con sicurezza che la maggioranza dei tedeschi
era contraria alla persecuzione violenta e all’eccidio di massa
degli ebrei» (pp. 81-82) anche se nella stessa pagina porta un dato
non facilmente accordabile con questa affermazione. D’altra parte
un altro autore tedesco, David Goldhagen, ha scritto che i tedeschi
non solo hanno saputo, ma hanno voluto la Shoah.6
Lasciando sospeso un giudizio generale, guardiamo quei fatti che
dimostrano disapprovazione e opposizione di cittadini tedeschi non
soltanto alla Shoah, ma alla dittatura, opposizione e lotta senza uso
di armi nè violenza, con la forza umana e l’unità. Elencherò,
quindi, dei fatti di tal genere, rintracciabili nei lavori di storici
che per lo più non hanno specificamente ricercato la resistenza
nonarmata e/o nonviolenta.
4. Collotti 1962.
Enzo Collotti dedica il capitolo nono di La Germania nazista
7
a L'oppposizione antinazista. Ne traggo alcuni principali
dati.
Nei primi due anni della dittatura si ebbero piccoli scioperi non
esclusivamente sindacali, ma anche politici. Gli episodi più
rilevanti si verificarono nelle elezioni dei fiduciari aziendali nel
1934 e 1935: le masse manifestavano il loro dissenso con larghe
astensioni dal voto; in alcuni casi riuscirono perfino ad imporre
esponenti di loro fiducia contro i candidati ufficiali del partito
nazista. Fu un grave scacco per il governo, che il 31 marzo 1936
prolungò di un anno la durata in carica degli eletti, di nuovo il 9
marzo 1937, la terza volta il 1 aprile 1938. «Il governo di Hitler
mai più osò effettuare elezioni direttamente nelle fabbriche»
(Walter Bartel).
Gli emigrati, specialmente in Cecoslovacchia, sostennero i
superstiti gruppi di opposizione con stampa clandestina.
Socialdemocratici e comunisti cercavano motivi di unione, si
diffondeva la parola d’ordine “Fronte Popolare” (Manifesto di
Praga, gennaio 1934). Il 2 febbraio 1936 una grande manifestazione
unitaria a Parigi esprime solidarietà con le vittime del nazismo,
chiede libertà per i leaders in prigione, anche per lo scrittore
pacifista Carl von Ossietzky, premio Nobel per la pace 1936,
torturato già nel 1933.
Ma la stampa clandestina è irregolare ed episodica. Lo spirito
pubblico non reagisce. La demagogia e l’orgoglio nazionalistico di
Hitler ottengono consensi. Questo pesante condizionamento spiega
perchè l’opposizione non andò mai oltre un blando astensionismo
dal coro, ad eccezione di un numero esiguo di episodi concreti e
precisi.
Collotti dissente da Gerhard Ritter, il quale attribuisce alle
chiese qualcosa che assomiglia a «un reale movimento popolare contro
il nazismo», l’unica resistenza che conseguì un «successo
pratico». Tuttavia Collotti ammette che le chiese compirono «gesti
di dignità», difesero la loro autonomia, assunsero posizioni
coraggiose anche al di là dei loro interessi, e che - e furono i
casi più rilevanti - singoli esponenti delle chiese parteciparono a
più vasti gruppi e progetti di opposizione.
Le pubbliche proteste del cardinale Von Galen nel 1941 furono tra i
pochi aperti moniti levati in Germania, sotto il nazismo, contro le
atrocità e le violazioni dei diritti umani. Ma l’opposizione delle
chiese non fu sistematica nè con fini politici, ma in generale
diretta a salvaguardare la posizione e l’autonomia delle chiese
stesse. Le quali non si posero il problema del rapporto storico e
politico tra il nazismo e la società tedesca, ma del rapporto tra le
chiese e il regime nazista. «La resistenza fu opera di singoli
coraggiosi, non della chiesa come tale» (pag. 287).
La chiesa evangelica tedesca subì una lacerazione che arrivò alla
scissione. I tentativi dei “cristiani tedeschi” di conciliare la
teologia protestante e l’ideologia nazista rivelano lo sbandamento
profondo della cultura tedesca e la degenerazione dei valori che si
accompagnò all’affermazione del nazismo.
Proprio sul problema dell’antisemitismo si ebbero le prime
reazioni della parte sana del protestantesimo. L’affermazione dei
“cristiani tedeschi” nelle elezioni interne alla chiesa
evangelica (luglio 1933) con l’appoggio nazista, provoca la
frattura: nasce la Chiesa Confessante, che il Sinodo di Barmen
(maggio 1934) proclama unica legittima chiesa evangelica tedesca. Ci
sono in essa nobili figure di antinazisti, ma solo dei singoli fecero
resistenza politica.
Nuclei popolari di oppositori pubblicano “Die Innere Front”,
quindicinale e anche settimanale, in più lingue per i lavoratori
stranieri in Germania. E’ un fronte popolare antifascista che fa
solidarietà con i perseguitati politici e razziali e coi movimenti
di resistenza dei territori occupati, e tiene anche i contatti con
l’URSS. Nel dicembre 1942 sessanta esponenti di questi nuclei sono
condannati a morte. Altri nuclei minori vicini ai comunisti fanno
propaganda e anche azione terroristica. Diverse centinaia di loro
componenti sono impiccati o fucilati.
Collotti registra una svolta dopo Stalingrado e parla a questo punto
del noto gruppo della Rosa Bianca. Ma anche lui fa l’errore di
Hoffmann.8
La Rosa Bianca si mosse coi primi volantini nel giugno 1942, ben
prima della battaglia di Stalingrado, che dura dal 19 novembre 1942
al 2 febbraio 1943. Quattro dei suoi sei (oppure sette) volantini
precedono la battaglia e cinque su sei (o sette) precedono la
disfatta tedesca di Stalingrado. Quando la Rosa Bianca comincia la
sua azione, Hitler è nel pieno dei suoi successi, contrariamente
all’osservazione di Collotti e di Hoffmann.
Quando viene a parlare del complotto militare, Collotti osserva che
né Beck né Goerdeler furono veri capi politici. L'obiettivo di
evitare alla Germania la sconfitta sopravanzò sempre le esigenze
della lotta senza compromessi al nazismo. Limiti e contraddizioni
del complotto furono il nazionalismo (difesa dell'Anschluss), la
ricerca di pace separata e continuazione della guerra all'Urss, la
sfiducia nella democrazia. La maggiore contraddizione stava nel fatto
che l'esercito era una componente del regime.
5. Vaccarino 1981 9
Da un gornale di sinistra del 2 agosto 1933 si apprende che
venticinquemila operai scioperano a Kiel per ottenere l’espulsione
di 10 operai nazisti. Sono registrati altri esempi significativi
delle agitazioni che interessavano la classe operaia senza
distinzioni di partito. Dal 1933 al 1937 si verificano scioperi
simultanei e contagiosi, più o meno estesi in tutte le regioni
industriali, o anche semplicemente una diffusa resistenza passiva
nelle aziende.
Nel 1933 si istituiscono i campi di prigionia per operai, prima che
per intellettuali e altri oppositori (politici, uomini di chiesa).
Nel 1933 il 4% (20.565 persone) di tutti i sottoposti a giudizio, lo
è per fatti politici. In sei anni, dal 1933 al 1939, sono condannate
225.000 persone per reati politici. Fra il 1933 e il 1945, tre
milioni di tedeschi 10
sono internati in lager per ragioni politiche, da poche settimane a
tutti i dodici anni di durata della dittatura. Negli stessi anni
32.600 persone sono giustiziate con sentenza, ma centinaia di
migliaia con esecuzioni extra-giudiziali.11
Il lavoro di Vaccarino è molto dettagliato riguardo alle chiese e
porta una impressionante quantità di appoggi ecclesiastici cattolici
al nazismo. «La chiesa non seppe o non volle valutare la sua forza
reale, o fu incline a sottovalutare il potere nazista» sui fedeli,
scrive Vaccarino dopo avere riportato l’effetto della denuncia di
Von Galen che fermò il programma di eutanasia. Aggiunge però che
forse anche un più fermo intervento avrebbe trovato i fedeli già
troppo traviati dalla propaganda nazista. Non mancarono cattolici che
protestarono con coraggio fino a pagare con la vita, come i
pochissimi obiettori di coscienza: «Dei sette cattolici (sei
austriaci) che in tutto il Reich rifiutarono di lasciarsi arruolare
nell’esercito di Hitler, sei furono condannati a morte e uccisi e
uno dichiarato infermo di mente».
Quanto ai protestanti tedeschi, Vaccarino nota anzitutto
l'impressionante cedimento protestante (luterano) al nazismo e
razzismo. Per i Cristiani Tedeschi non c'era più un Dio umile e
sofferente, ma un Cristo forte e glorioso, come gli dei nordici.
Pesava su questo atteggiamento la tradizione luerana dell'obbedienza
al principe, ridimensionata soltanto dalla Chiesa Confessante.
Vaccarino però si chiede se fu resistenza quella di questa chiesa, e
osserva che ci fu generosità e slancio morale non solo teologico,
però neppure la Chiesa Confessante accettò tutte le implicazioni
politiche della lotta a fondo. Ma, in alcune notevoli pagine12,
Vaccarino afferma che resistenti non furono solo i partigiani armati
e dimostra la radicale opposizione e resistenza morale dei Kreisauer
(membri del Circolo di Kreisau) e della Rosa Bianca. Neppure la
Chiesa Confessante osò (nè lo credette suo compito), condannare il
regime nazista. Così la coscienza dei fedeli non rimase turbata nei
suoi doveri verso lo stato. Così come Pio XII non turbò la
coscienza dei cattolici tedeschi. Per questo la dichiarazione di
Stoccarda del 19 ottobre 1945 confessa una “solidarietà di colpa”
della chiesa evangelica col popolo tedesco. Nessun prelato cattolico
riconobbe con tale franchezza la responsabilità della sua chiesa.
6. Sémelin 1993
Quest'opera di Sémelin13,
a differenza di quelle citate finora, è una ricerca specificamente
diretta a cogliere le forme di resistenza civile al nazismo. «Per
quanto riguarda la Germania, è poco conosciuto il fatto che le
chiese siano riuscite a fare indietreggiare Hitler su uno degli
intenti più deliranti della sua azione: lo sterminio dei malati di
mente». Tuttavia Sémelin non esalta la resistenza morale attuata
dalle chiese - cioè, non tenta di provare troppo la propria tesi -,
anzi denuncia (riferendo un giudizio di Scholder) che quel potenziale
non fu «attivato in maniera significativa dalle alte gerarchie delle
due chiese» e avverte di «non sopravvalutare la lotta delle
chiese» (cfr. Collotti e Vaccarino nello stesso senso). Però gli
archivi della Gestapo mostrano che Hitler temeva più le chiese che
il Partito Comunista perchè potevano mobilitare le masse.
Sémelin riferisce di una ricerca in corso nel 1989 di Nathan
Stolzfus a Harvard secondo cui l’opinione pubblica tedesca poteva
frenare il genocidio quando manifestava la sua disapprovazione.
Emblematico è ciò che avvenne dal 27 febbraio al 5 marzo 1943: 600
persone, specialmente mogli tedesche di uomini ebrei, protestano
apertamente per strada contro l’arresto di questi. Goebbels nel suo
diario e la legazione degli Stati Uniti a Berna registrano che
«l’azione della Gestapo ha dovuto essere interrotta in seguito
alle proteste suscitate».
La società tedesca tollerò la persecuzione degli ebrei, non
l’eutanasia dei malati di mente. Questa seconda opposizione fu
efficace perchè ci fu un movimento di opinione che invece non sorse
contro la persecuzione deglli ebrei. Il primo settembre 1939 (giorno
di inizio della guerra!), cominciò l’operazione T4 per l’uccisione
degli incurabili. Subito ci fu resistenza da parte di alcuni istituti
psichiatrici e di alcuni medici. Reagirono le famiglie che però
fecero molto fatica a trovare portavoci istituzionali. Si ebbero
agitazioni di magistrati che dichiararono la completa illegalità
dell’operazione, ma poi, convocati in conferenza, non fecero alcuna
rilevante opposizione. Si opposero anche i militari. E’ evidente
che si può temere, in guerra, di diventare invalidi incurabili,
mentre non si può diventare ebrei... La base delle chiese protestò
prima delle autorità religiose. Finalmente quando vescovi
protestanti e cattolici decisero di intervenire pubblicamente dando
voce a quelle reazioni, il governo dovette interrompere il programma.
Il vescovo di Munster, Von Galen, il 3 agosto 1941, arriva a
chiamare i cristiani alla resistenza, alla non-collaborazione, visto
che usa l’espressione «sottrarci alla loro influenza». Poteva
nascere un movimento di disobbedienza civile. Altri vescovi si
associano. Si associa l'aviatore Werner Molders, eroe decorato della
Croce di Ferro.
Sorgono divisioni sul da farsi all’interno del governo. Il 24
agosto la Cancelleria lascia intendere che, per decisione del Führer,
l’operazione T4 è interrotta. Hitler sentì questo come una
sconfitta personale e intendeva saldare i conti con le chiese dopo la
guerra, perchè ora gli erano utili. Fu il suo primo smacco
importante.
L’operazione T4 fece da 70.000 a 100.000 vittime, tra il
settembre 1939 e l’agosto 1941. Sémelin segnala i limiti di questa
azione di resistenza, la cui importanza tuttavia consiste
nell’esserci stata e nell’aver dimostrato la sua potenzialità
inespressa. C’è un giudizio severo di Adenauer in questo senso.
Interrotta la T4, il primo settembre 1941 gli ebrei vennero obbligati
a portare la stella gialla.
7. Ghezzi 1994 14
La Rosa Bianca, un'azione di grande significato, è uno dei pochi
fatti più noti della Resistenza tedesca, sebbene mal conosciuto
anche da buoni autori (come abbiamo visto). Fu un vero attentato alla
dittatura di Hitler, non col tentare di ucciderlo, ma cercando di
levargli il rispetto e l’obbedienza del popolo. Ghezzi ci fa
conoscere, attorno ai fatti più noti, altre azioni di resistenza
civile. Il 13 gennaio 1943, gli studenti universitari di Monaco
fecero una clamorosa contestazione pubblica contro il Gauleiter
Giesler, che aveva offeso pesantemente le studentesse invitandole a
farsi femmine da riproduzione della pura razza ariana, invece di
studiare. In dieci anni di regime non si era mai vista una simile
contestazione, arrivata a fronteggiare fisicamente le SS e a
picchiare (certo non era perfettamene nonviolenta!..) il capo degli
studenti hitleriani. Alla fine del mese il Gauleiter Giesler dovette
scusarsi pubblicamente con gli studenti. Da questo episodio, i
fratelli Scholl trassero la convinzione purtroppo errata (Ghezzi, p.
184), che il tempo era maturo per una ribellione delle coscienze (pp.
19-20).
Quando Hitler inaugurò il primo tratto di autostrada
Francoforte-Darmstadt, la notte precedente, in molti punti
dell’asfalto nuovo comparvero le scritte “Fame!”, “Abbasso
Hitler”, e furono messi fuori uso altoparlanti e telefoni. La
polizia non scoprì mai gli autori. Questa azione corrispondeva al
metodo teorizzato in un volantino di quel periodo dal socialista
Ernst Fraenkel: il lavoro illegale deve essere visibile sia per la
popolazione sia per la Gestapo, perchè uno dei suoi effetti
essenziali sta nel dare insicurezza proprio ai detentori del potere.
L’attività illegale sia visibile, l’attivista illegale
invisibile! Solo così l’azione ha un significato politico (pp.
246-247).
Con azione individuale, l’operaio berlinese Quangel e sua moglie,
riconoscendo lucidamente la brutalità e la menzogna del regime, la
denunciano per due anni scrivendo cartoline che depongono davanti
alle porte delle case. Sono «appelli alla resistenza contro la
perversione dello spirito». Arrestato, Quangel incalza e rende
sempre più insicuri gli inquisitori che lo interrogano, prima di
essere giustiziato. E’ una tipica azione di resistenza morale,
fondamento e movente di ogni resistenza analoga a quella della Rosa
Bianca. Quangel fu ricordato dal presidente della Repubblica Federale
Tedesca Richard von Weizsäcker, il 15 febbraio 1993, insieme ai
giovani della Rosa Bianca (p. 296).
Hans e Sophie Scholl e Christoph Probst sono ghigliottinati di
nascosto in carcere il giorno stesso della sentenza, invece che nella
Marienplatz di Monaco, come voleva Giesler, perchè il governo di
Berlino temeva manifestazioni di solidarietà (p. 183). Invece, non
ci fu nessun sollevamento di studenti, nessuna protesta per la loro
uccisione. Soltanto, il giorno della sepoltura, 24 febbraio 1943,
qualcuno aveva scritto sul muro dell’università «Lo spirito vive»
(pag. 188). Debole e forte simbolo di vita sotto la pressione della
morte: un resistere, esistere, stare fermi, stare e ri-stare, reggere
sotto la violenza, alla quale così si vieta di vincere davvero.
Sebbene piccolo come un granello di senape, questo resistere
personale e in qualche modo comunicato è il seme di ogni resistenza:
«Resistere è l'atto principale della fortezza. Resistere è più
difficile (richiede più forza) che aggredire»15.
La notte prima del processo, Sophie fa un sogno che racconta alla
compagna di cella Else Gebel: «Era un giorno di sole e portavo un
bambino al battesimo, avvolto in una lunga veste bianca. La strada
per la chiesa diventava un ripido sentiero di montagna. Ma io
camminavo sicura tenendo forte il bambino. Improvvisamente mi si aprì
davanti un crepaccio. Ma ebbi il tempo di posare il bambino in un
posto sicuro prima di sprofondare nell’abisso». Sophie aveva
spiegato a Else il sogno: «Il bambino è la nostra idea, che si
affermerà nonostante tutti gli ostacoli. Per questa idea abbiamo
dovuto preparare la strada, ma anche morire» (pp. 186-187). Morire
con questa visione è un fortissimo atto di resistenza, più forte di
ogni arma che si oppone alla morte con altra morte, ed è una
resistenza tutta consegnata a chi vive dopo grazie a questi morti,
alla loro luce, alla loro superiorità sulla violenza.
8. Resistenti e ribelli
nell’esercito tedeco
In questa sede16
richiamo solamente alcuni dati: 35.000 furono i disertori
nell'esercito nazista. Di questi, 15.000 vennero arrestati e
giustiziati. Su 12 milioni di soldati, sono pochi? Una quantità
molto maggiore avrebbe avuto effetti decisivi, ma il significato di
questi coraggiosi ribelli trascende il loro numero. Sembra di poter
dire che, nelle stragi naziste di S. Anna di Stazzema (Lucca) e di
Marzabotto (Bologna), alcuni militari tedeschi, anche delle SS, si
adoperarono per salvare alcuni civili, altri eistarono ad obbedire
all'ordine di ucciderli, altri si rifiutarono di obbedire e pagarono
con la vita questo loro riscatto morale.
Degli obiettori di coscienza e renitenti alla leva si conoscono
alcuni nomi, sufficienti a pensare che il fenomeno occultato sia
stato almeno un poco maggiore. Anche qui, il numero è piccolo,
grande il segno. Più numerosi i semi-obbedienti: coloro che
obbedivano a rilento, capivano male gli ordini, li dimenticavano,
trovavano un modo astuto di sottrarvisi, e non sempre senza rischio
personale. Chi ricorda l'occupazione nazista in Italia può
testimoniare alcuni di questi casi. Non erano resistenti aperti, ma
certo non collaboravano appieno e cercavano di frenare la macchina
che li coinvolgeva.
9. Il boicottaggio della
Shoah con l’azione umanitaria in favore degli ebrei
In altra sede17
ho raccolto un certo numero di nomi e storie di "altri
Schindler", con riferimento al personaggio reso famoso dal film
di Steven Spielberg. Quanto al numero di ebrei salvati, alcuni di
loro ne sottrassero allo sterminio molti più di Schindler, fino a
molte migliaia, fino ai 100.000 di Raoul Wallenberg, diplomatico
svedese. Ma, per limitarci qui ai cittadini tedeschi, richiamo
soltanto il fatto che, secondo i calcoli del Centro per le ricerche
sull'antisemitismo dell'Università tecnica di Berlino, quando nel
maggio 1943 la città fu dichiarata "libera dagli ebrei",
vivevano in Berlino almeno 1.400 ebrei nascosti e protetti da
cittadini tedeschi. Dato che l'esistenza di ogni clandestino era nota
a circa 4-5 persone, si ricava che, solo a Berlino, almeno 6-7.000
tedeschi sfidavano la morte per proteggere ebrei. In tutta la
Germania gli ebrei nascosti erano circa 4.000. Contando anche i casi
in cui l'aiuto fallì, il Centro suddetto calcola che 50-80.000
tedeschi aiutarono coraggiosamente gli ebrei.
10. Obiezione degli
scienziati atomici tedeschi?
Questa non appare come una chiara e dichiarata obiezione di
coscenza.
Per Leandro Castellani18
resta incerto quanto pesò il “non potere” (per “mancanza di
mezzi”, dovuta anche a sabotaggi e bombardamenti inglesi e
statunitensi sulle riserve di uranio e di acqua pesante) e quanto il
“non volere” degli scienziati tedeschi. Karl Friederich von
Weizsäcker dichiara all’autore nel 1967: «Non sarei mai andato da
Hitler a dirgli: “Ecco. Abbiamo trovato l’arma definitiva”.
Avevo delle buone, buonissime ragioni per non farlo. Primo non lo
volevo fare; e poi comunque non sarebbe stato possibile farlo.».
Resta però il fatto che gli scienziati tedeschi ingannarono il
governo nazista facendogli credere fino all’ultimo di poter
lavorare alla costruzione dell’atomica.
Secondo Thomas Powers19,
essi non misero «un serio impegno», «non si apprestarono mai
attivamente alla costruzione della bomba». Egli sottolinea di più
la non volontà di Heisenberg e degli altri scienziati di mettere in
mano a Hitler l’atomica. Gli scienziati tedeschi «smorzarono»
l’interesse. Powers dubita che Heisenberg fosse sincero e leale nel
dire che il progetto era «troppo impegnativo». Egli «si
preoccupava soltanto del problema posto dalla bomba e non del
problema di come costruirla». Non si limitò ad astenersi ma fu lui
stesso a far abbandonare il progetto. Houtermans, nell’aprile 1941,
fa arrivare agli americani informazioni sul progetto tedesco della
bomba e dice che Heisenberg cerca di procrastinare il più possibile
i risultati. Nel 1941 Heisenberg in Danimarca informa Niels Bohr e
gli propone un accordo tra i fisici di tutto il mondo per far fallire
ovunque il progetto atomico dicendo sia ai tedeschi sia agli alleati
che la costruzione della bomba è troppo impegnativa e incerta. La
verità è che le iniziative tedesche «furono stroncate dal
pessimismo tecnico dei più eminenti scienziati tedeschi che non
volevano costruire la bomba per Hitler». Powers riferisce questa
dichiarazione di Heisenberg: «Era orribile l’idea di mettere in
mano a Hitler la bomba atomica». Ma Heisenberg rimase poi reticente,
non rivendicò alcun merito perchè - suppone Powers - amava la
Germania, rimase in «esilio interiore» e non volle figurare come
sabotatore, non si assunse la responsabilità di essere anche un
esempio oltre il risultato contingente.
Mi pare di capire che la coscienza di questi scienziati cercò
degli spiragli per non collaborare al male, pur senza affrontarlo di
petto e apertamente. Anche questa tuttavia fu una resistenza civile,
non armata, alla violenza nazista. Infatti Sèmelin individua, tra le
forme di questa resistenza, il lavoro a rilento.20
Tale fu il lavoro di questi scienziati, anzi una non-collaborazione e
un boicottaggio mascherati da collaborazione faticosa, difficile,
lunga. Essi tennero occupato il posto di collaboratore senza dare
collaborazione.
11. L’arte come
resistenza
Senza sviluppare questo tema affascinante nè raccogliere altra
documentazione, vorrei ricordare un solo nome di donna tedesca: Käthe
Kollwitz (1867-1945), di cui abbiamo visto alcuni disegni e sculture
nella mostra “L’arte per la libertà”, a Genova nel gennaio
1996: scene tese, scabre, dolenti, soprattutto di donne; scene che
sono un vivente grido contro guerra e violenza; sono quel rifiuto,
quel no profondo e solenne all’offesa, che è fondamento e
completamento di ogni resistenza, tanto più quanto più questa è
radicalmente alternativa alla violenza anche nei mezzi. Käthe
Kollwitz morì all’inizio del 1945, non vide la fine della querra.
Ma le sue opere anche oggi gridano “fine" ad ogni guerra
contro l’umanità, la dignità, la giustizia. Quel piccolo gruppo
in legno scuro di donne appoggiate le une alle altre, che salutano
dolorosamente i loro uomini in partenza per la guerra, emana un lutto
così straziante che non si ha un cuore umano se non ci lascia
determinare ad opporre il no di tutta la propria persona, di tutte le
proprie energie, al male che in Germania in quegli anni si chiamava
nazismo, e che sotto molti nomi e aspetti sempre si ripresenta a
minacciare moralmente prima che fisicamente la vita umana in noi
tutti.
12. Per un giudizio
generale: la Resistenza tedesca come resistenza di coscienze.
Friedrich Muckermann, gesuita, autore di La via tedesca, pubblicò
in Olanda dal 1933 al 1939 una rivista con lo stesso titolo, Der
Deutsche Weg, diretta ai tedeschi, per contestare al nazismo il
monopolio del patriottismo, al quale egli rivendicava (con un
tentativo oggi discutibile più di allora) il fondamento cristiano.
In conclusione del libro, nel 1945, Muckermann scrive: «Ci fu in
Germania un movimento di resistenza che ebbe uno sviluppo sino ad
oggi sconosciuto nell'opinione pubblica mondiale. Questo movimento di
resistenza ha condotto la sua battaglia nel campo essenziale e più
importante: nel campo della libertà di coscienza, che è il
fondamento e la premessa di ogni libertà umana».21
In effetti, la Resistenza tedesca fu una lotta nelle coscienze e
delle coscienze. Lotta nelle coscienze per i militari, che
passarono all'azione contro Hitler e dovettero superare il giuramento
di fedeltà personale, che non era solo un alibi, ma un vero problema
di coscienza, anche riguardo all'uccidere (come sentirono in
particolare Goerdeler e Moltke), cioè all'usare un metodo nazista
per abbattere il nazismo.22
Lotta nelle coscienze per i cristiani ispirati alla tradizione
luterana dell'obbedienza "teologica" al principe, superata
con forza e sforzo interiore dalla Chiesa Confessante con la
Confessione di Barmen.23
Lotta delle coscienze, perché quel milione (o tre milioni,
secondo Vaccarino) di tedeschi chiusi in lager come oppositori
politici, opposero a Hitler invece delle armi, e ben più che le
armi, il rifiuto delle loro coscienze ad obbedire al comando
malvagio. Questo rifiuto è, come ha detto Muckermann, fondamento
della libertà. La quale ha, nelle armi, al massimo uno strumento
molto ambiguo e insicuro, e invece, nella responsabilità delle
coscienze, la sua sostanza.
Colgono meno questo carattere della Resistenza tedesca giudizi come
quelli di Collotti citati sopra al paragrafo 4, o questo di
Salvadori: «Un movimento di resistenza vero e proprio non potè
svilupparsi». «Nessuna forma di opposizione, né direttamente
politica come quella comunista e socialdemocratica, né militare, né
religiosa, riuscì a rappresentare altro che la protesta di una
piccola minoranza del popolo tedesco (...). La macchina del
totalitarismo nazista fu spezzata, essa che aveva quasi tutto
travolto all'interno del paese, soltanto nel corso di una guerra
perduta».24
Un tale giudizio, molto diffuso, che riconosce alla guerra
antinazista tutto il merito e il valore di opposizione efficace al
nazismo, richiede alcune semplici considerazioni:
1) la previsione e avvertimento di Gandhi, che non si sarebbe potuto
vincere il nazismo con la guerra, cioè con metodi simili si suoi,
perché la guerra può essere vinta solo facendosi più spietati e
più crudeli del nemico25,
si è verificata nel fatto che i vincitori di Hitler ne hanno
ereditato lo sterminismo nella misura amplificata del dominio atomico
sull'umanità. La guerra ha distrutto l'impero di Hitler, ma non il
suo spirito. Certamente si deve riconoscere che la cultura politica e
l'evoluzione morale umana non erano in grado allora (come ancora
oggi, ma in presenza di una consapevolezza assai cresciuta) di
opporre alla guerra di Hitler se non altra guerra, ma si deve
ugualmente riconoscere che l'opposizione morale e spirituale dei
resistenti senza violenza batteva vie più antiche e più nuove, più
profondamente contrarie e alternative al nazismo.
2) quel giudizio di Salvadori appare meno illuminato e
chiaroveggente di quelli che riconoscono e valorizzano più della
guerra, in un bilancio umano profondo e di lunga prospettiva, il moto
di coscienze, pur minoritario e nell'immediato sconfitto e
fisicamente soppresso, che fu la Resistenza tedesca.
3) quel giudizio però pone giustamente il problema dell'efficacia
irrinunciabile: l'opposizione ad un potere iniquo deve proporsi di
sostituirlo, non soltanto di giudicarlo, né soltanto di negargli la
collaborazione e l'obbedienza personali senza che questi rifiuti lo
svuotino e lo facciano cadere. Oltre la testimonianza si deve cercare
il risultato storico. Certamente. Ma l'efficacia delle lotte
nonviolente26
- come quella di ogni tipo di lotta e di impresa importante - non è
soltanto quella immediata (che pure in alcuni casi storici si è
avuta: per esempio nell'opposizione degli insegnanti norvegesi alla
nazificazione della scuola27),
ma è anche quella profonda, che agisce a lungo nel tempo successivo
col porre le premesse di esperienza, le premesse teoriche,
soprattutto le premesse morali per la lotta alla violenza senza
ripetere la violenza. Lo vediamo dal fatto che, se il nazismo avesse
avuto di fronte soltanto una opposizione violenta (fallita e
soppressa in Germania e in ciò esauritasi, a differenza della
opposizione morale), il giudizio su di esso sarebbe più appannato
risolvendosi quasi in un confronto di forze brute. E tale è infatti
quel giudizio per chi vede la storia come uno scontro di forze
materiali, di violenze che si giustificano a vicenda, e non dei
valori umani contro le negazioni dell'umanità. La disumanità della
violenza risalta invece quando la fronteggia l'umanità più pura,
più tesa a liberarsi da ogni offesa e danno ad esseri umani, fossero
pure colpevoli.
Questa efficacia morale, di esempio, incoraggiamento, stimolo, direi
che è assicurata sempre all'azione nonarmata mossa da volontà di
nonviolenza, dalla ricerca di liberarsi anche dalla propria violenza.
La morte dei fratelli Scholl e dei loro compagni, per esempio, è un
fallimento nell'immediato, ma è una forza operante ed efficace nel
trasmettere ad ogni tempo e luogo umano la forza del rifiuto della
tirannia disumana. Questa forza è l'anima e la ragione di ogni
ricerca doverosa di effettiva e rapida demolizione politica di un
potere ingiusto. Senza quella forza, la più potente forza materiale
non cambia veramente le cose in meglio: può cambiare gli occupanti
del potere senza affatto renderlo più giusto, meno violento.
Abbondano le prove storiche. La disposizione al sacrificio della
propria vita (anche chi usa le armi può essere ucciso, e gli occorre
questa disposizione) non è rinuncia all'efficacia attuale, ma
affermazione dell'efficacia certa dei fini più umani. Non è da
calcare la distinzione weberiana tra etica dei fini, delle intenzioni
da un lato, e ricerca responsabile del risultato dall'altro lato: nel
concreto, escluse le posizioni estreme, chi agisce con un senso
morale umano persegue entrambe le cose. L'importante è che, se viene
a mancare il risultato, non manchi la chiarezza del fine e la forza
dell'intenzione. Il fine e l'intenzione potranno trovare in altra
circostanza, per mano di altri, la loro realizzazione, mentre non è
vero il contrario: un risultato concreto e vantaggioso ottenuto in
contraddizione con quelli che erano i fini e le intenzioni pure
originarie dell'agente, non è un risultato positivo, perché ha un
valore statico ed ambiguo, non dinamico. Altra cosa è il risultato
parziale, sulla linea dei fini maggiori, cioè quello che Gandhi
chiamava il "nobile compromesso". L'importante è che tanto
il risultato, piccolo o grande, quanto il sacrificio, indichino
chiaramente il fine maggiore. In tal caso, una efficacia c'è.
Dunque, la Resistenza tedesca è stata, come scrive Hans Mommsen,
«un atto di autodifesa morale»,28
una resistenza dello spirito.
Quando leggiamo l'ultima lettera di Helmuth James von Moltke alla
moglie, dell'11 gennaio 1945, dodici giorni prima di essere
impiccato, in cui racconta il suo processo e la condanna a morte, ci
pare di leggere gli antichi Atti dei martiri. Il presidente del
"Tribunale del popolo", Roland Freisler (lo stesso feroce
giudice che aveva condannato il gruppo della Rosa Bianca), gli chiede
retoricamente: «Da chi prende ordini lei? Dall'aldilà o da Adolf
Hitler? (...) A chi va la sua fedeltà e la sua fede?».29
Il delitto di Moltke è il non essere tutto di Hitler. Egli scrive
alla moglie che è felice di essere condannato «non come
protestante, non come latifondista, non come nobile, non come
prussiano, non come tedesco (...) bensì come cristiano e
assolutamente nient'altro». Davanti al potere assolutamente
prevaricante, che pretende adorazione divina, si alza la resistenza
della coscienza. Colpiscono, in questa nostra ricerca, le parole di
Freisler quando accusa Moltke, protestante, per i contatti col
gesuita Alfred Delp30:
«Un padre gesuita, e proprio con lui lei va a discutere i problemi
della resistenza civile!».31
Un documento, forse il più grande per profondità, di questa
resistenza dello spirito, sono le pagine di Dietrich Bonhoeffer,
pubblicate in apertura delle sue lettere dal carcere e scritte nel
194332.
13. Dedica al Resistente
Ignoto
Dedichiamo questo sguardo, molto incompleto e correggibile, sulla
Resistenza civile al nazismo da parte di cittadini tedeschi, al più
sconosciuto e disconosciuto, al più offeso e calpestato - perchè
diversi di loro furono offesi e sono disconosciuti 33
anche nella democrazia, dopo la caduta del nazismo - tra quanti
tedeschi opposero alla violenza nazista l'insorgere della loro
coscienza. Infatti, l'oscurità di questo "Resistente Ignoto"
è più luminosa dei lampi mortali del nazismo, e il suo rifiuto ha
costruito la Germania umana tra i popoli umani, per molto più che
mille anni, non soltanto meglio e più veramente di ogni superbia e
violenza che essa abbia prodotto, ma anche meglio e più solidamente
di ogni ricchezza ed influenza che essa oggi produce.
Se la Resistenza tedesca è stata soltanto un moto di coscienze è
stata molto, non poco. E non è un caso, probabilmente, che, negli
anni '80, gli anni della montata dello sterminismo atomico, il
movimento per la pace abbia avuto in Gerrmania forse il suo luogo più
vivo. Forse non è un caso che le manifestazioni popolari tedesche
per la pace, cioè per la «incapacità strutturale di aggressione»34,
siano state, tramite la televisione, modello e proposta delle
tecniche di rivoluzione nonviolenta che, nell'Europa dell'est, hanno
delegittimato e fatto cadere senza violenza i regimi autoritari35.
Enrico Peyretti (enrico.peyretti@gmail.com)
Appendice - Riferimenti attuali (2000) in Germania sulla
Resistenza antinazista:
1 - DRAFD, Deutsche in der Résistance, in den Streitkräften der
Antihitlerkoalition und der Bewegung Freies Detschland (Tedeschi
nella Resistenza, nelle forze armate della coalizione antihitleriana,
nel movimento Libera Germania). Telefono sede centrale di Berlino:
0049/30/509.88.52. Contatto diretto con un partigiano del DRAFD:
Peter Gingold, Reichsforststrasse 3, D-60528 Frankfurt, tel
0049/69/672.631
2 - Bundesvereinigung Opfer der NS Militärjustiz (Associazione
vittime dei tribunali militari nazisti), Freidrich Humbert Strasse
116, D-28758 Bremen, tel 0049/421/622.073, fax 621.422. Contatto
diretto con il presidente Ludwig Baumann, Aumunder Flur 3, D-28757
Bremen, tel 0049/421/66.57.24
3 - Antikriegsmuseum, Friedensbibliotek, Bartolomäuskirche,
Friedensstrasse 1, D-10249 Berlin, tel 0049/30/508.12.07
4 - Mahn- und Gedenkstätte für die Opfer der
Nationalsozialistischen Gewaltherrschaft (ammonimento e memoria per
le vittime del dominio nazista), Mühlenstrasse 29, D-40591
Düsseldorf
1
L. Caracciolo, Gli uomini del 20 luglio, in L'Indice,
n.7, 1988, p.23, citato da Jens Petersen, La resistenza tedesca
vista dall'Italia: il giudizio dei contemporanei e degli storici,
in La Resistenza tedesca 1933-1945, a cura di Claudio Natoli,
Franco Angeli, Milano 1989, p. 263.
2
Peter Hoffmann, Tedeschi contro il nazismo. La Resistenza in
Germania, Il Mulino, Bologna 1994 (1988), pp. 7-8.
3
Massimo L. Salvadori, Storia dell'età contemporanea,
Loescher, Torino 1976, pp. 745-746, 911.
4
Jacques Sémelin, Senz'armi di fronte a Hitler, La Resistenza
civile in Europa, 1939-1943, Ed. Sonda, Torino 1993 (1989), p. 171.
5
Peter Hoffmann, op. cit., pp. 72 e 174-178.
6
David Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler,
Mondadori, Milano 1997.
7
Enzo Collotti, La Germania nazista, (dalla Repubblica di
Weimar al crollo del Reich hitleriano), Einaudi, Torino 1962, pp.
273-305. Dello stesso autore utilizzo in parte anche l'articolo Per
una storia dell'opposizione antinazista in Germania, in Rivista
storica del socialismo, gennaio-aprile 1961, pp. 105-137, che
contiene più ampie referenze bibliografiche.
8
Cfr Peter Hoffmann, op. cit., p. 147.
9
Giorgio Vaccarino, Storia della Resistenza in Europa, 1938-1945,
Feltrinelli, Milano 1981, parte prima, pp. 17-152.
10
Solo Vaccarino, a quanto mi risulta, dà questa cifra, che invece è
di un milione per Salvadori (nell'edizione scolastica 1978, p. 365,
non nell'opera maggiore, in cui parla solo di «decine di migliaia
di quadri», op. cit., p. 743) e per Claudio Natoli (Introduzione a
La Resistenza tedesca, 1933-1945, cit., p. 21).
11
Cfr Peter Hoffmann, op. cit., p. 173-174.
12
Cfr Giorgio Vaccarino, op. cit., pp. 106 e 108.
13
Jacques Sémelin, op. cit., pp. 120-129, 171-172.
14
Paolo Ghezzi, La Rosa Bianca, ed. Paoline, Cinisello Balsamo
1994.
15
«Principalis actus fortitudinis est sustinere». «Sustinere est
difficilius quam aggredi», Tommaso d'Aquino, Summa Theologica,
IIa-IIæ, q. 123, art. 6.
16
Ho sviluppato questa ricerca in un capitolo dal titolo provvisorio
Quelli dell'ultima ora, per un lavoro collettivo ancora
inedito sulle forme di resistenza nonviolenta al nazifascismo.
17
Per il medesimo lavoro ora citato, ho raccolto questi casi nel
capitolo provvisoriamente intitolato Molti Schindler: dunque si
poteva resistere al nazismo
18
Leandro Castellani, La grande paura, Storia dell'escalation
nucleare, Prefazione di Carlo Bernardini, ERI, Torino 1984, pp.
96-106.
19
Thomas Powers, La storia segreta dell'atomica tedesca,
Mondadori, Milano 1994 (1993), pp. 503-509.
20
V. Semelin, op. cit., pp. 51, 53-54, 95, 202
21
Friedrich Muckermann, La via tedesca, Morcelliana, Brescia
1947 (1945), pp. 99-100. Il libro è presentato da Mario
Bendiscioli, che fin dal 1935 scriveva in Italia sulla resistenza
religiosa al nazismo in Germania (cfr p. 6 della Presentazione).
22
Cfr, sul problema di coscienza relativo all'uccidere Hitler, la mia
recensione del libro citato di Hoffmann, in Servitium, n.
102, nov.-dic. 1995, fascicolo "Resistenza al male", pp.
117 e 119-120.
23
Cfr Giorgio Vaccarino, op. cit., pp. 90 e 93, che cita Sergio
Bologna, La Chiesa Confessante sotto il nazismo: 1933-1936,
Feltrinelli, Milano 1967.
24
Massimo L. Salvadori, Storia dell'età contemporanea, cit.,
p. 911, pp.745-746.
25
Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino
1996, p. 249.
26
Su questo argomento cfr il mio articolo Quale efficacia nelle
azioni nonviolente?, in Azione Nonviolenta, ottobre 1993,
pp. 22-24.
27
Cfr Sémelin, op. cit., p. 86-89.
28
Hans Mommsen, La Resistenza tedesca 1933-1945. Formazione,
profilo sociale e condizionamenti strategici, in La
Resistenza tedesca 1933-1945, a c. di C. Natoli, cit., p. 35.
29
Helmuth James von Moltke, Futuro e resistenza (dalle lettere
degli anni 1926-1945), Morcelliana, Brescia 1985, p. 208.
30
Alfred Delp, membro del Circolo di Kreisau, ucciso il 2 febbraio
1945. Di lui si può vedere Gesammelte Schriften, Aus dem
Gefängnis, Frankfurt/M, 1984. Un bel capitolo dedicato a Delp è in
Thomas Merton, Fede e violenza, Prefazione di Ernesto
Balducci, Morcelliana, Brescia 1965, pp. 41-75.
31
Helmuth James von Moltke, op. cit., p. 202.
32
Dietrich Bonhoeffer, Dieci anni dopo. Un bilancio sul limitare
del 1943, in Resistenza e resa. Lettere e scritti dal
carcere, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1989, pp. 59-74.
33
Soltanto il 29 maggio 1998, mentre sono in treno, in viaggio verso
la Germania, leggo su giornali italiani e tedeschi la notizia che il
Bundestag ha approvato il giorno precedente, a stragrande
maggioranza, una legge che annulla «tutte le sentenze emesse tra il
1933 e il 1945 che offendono l'elementare idea del diritto». Questa
legge riabilita quasi 500.000 persone, tra cui oppositori politici e
disertori, ma è criticata come tardiva e compromissoria, perché
non dà alcun riconoscimento positivo agli atti di opposizione
politica e di rifiuto di combattere la guerra nazista, ma si limita
a dichiarare illegittime le sentenze imposte dalla dittatura
nazista.
34
Questa formula era usata dai pacifisti tedeschi negli anni '80. Cfr
il mio articolo Idee per la pace, resoconto del convegno
fiorentino di Testimonianze, in il foglio n. 131,
dicembre 1985.
35
Cfr Giovanni Salio, Il potere della nonviolenza, Ed. Gruppo
Abele, Torino 1995, cap. 1 Cosa è successo nel 1989?
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