Gandhi e le religioni
Pubblicato in
“Parolechiave” (parolechiave@fondazionebasso.it),
(nuova serie di “Problemi del socialsimo”), n. 40, dicembre 2008,
monografico su “Nonviolenza”, pp. 23-51
di Enrico Peyretti, 8
marzo 2009
-
Gandhi e le religioni p. 1
-
Badshah Khan, il Gandhi musulmano p. 5
-
Gandhi a Teheran p.4. I cristiani e Gandhi p. 15
I – Gandhi e le religioni
In mezzo alla morte persiste la vita
«…vi
è una forza vivente, immutabile,
che
tiene tutto assieme, crea, dissolve e ricrea.
Questa
forza o spirito informatore è Dio (…).
E
questa forza è benevola o malevola?
La
vedo esclusivamente benevola,
perché
vedo che in mezzo alla morte persiste la vita,
in
mezzo alla menzogna persiste la verità,
in
mezzo alle tenebre persiste la luce».
(Gandhi,
Antiche come le
montagne,
Edizioni
di Comunità, Milano 1965, p. 100).
La cosa strana
"La
cosa strana e' che quasi tutti i fedeli delle grandi religioni del
mondo
mi ritengono come uno dei loro. I jaina mi prendono per un jaina. Molti
amici buddhisti mi prendono per un buddhista. Centinaia di amici cristiani
mi considerano tuttora un cristiano... Molti dei miei amici musulmani
pensano che, sebbene io non mi dica un musulmano, io sia uno di loro in
tutti i miei intenti ed i miei scopi... Tutto questo e' molto lusinghiero
per me e lo considero un segno del loro affetto e della loro stima. Io mi
considero comunque come il piu' umile degli hindu', ma piu' studio l'hinduismo
piu' forte cresce in me la convinzione che l'hinduismo e' vasto quanto
l'universo e che abbraccia tutto cio' che c'e' di buono al mondo".
mi ritengono come uno dei loro. I jaina mi prendono per un jaina. Molti
amici buddhisti mi prendono per un buddhista. Centinaia di amici cristiani
mi considerano tuttora un cristiano... Molti dei miei amici musulmani
pensano che, sebbene io non mi dica un musulmano, io sia uno di loro in
tutti i miei intenti ed i miei scopi... Tutto questo e' molto lusinghiero
per me e lo considero un segno del loro affetto e della loro stima. Io mi
considero comunque come il piu' umile degli hindu', ma piu' studio l'hinduismo
piu' forte cresce in me la convinzione che l'hinduismo e' vasto quanto
l'universo e che abbraccia tutto cio' che c'e' di buono al mondo".
**
Intenderei mostrare qualcosa, in queste pagine, non solo dell’idea
di Gandhi sulle religioni, ma dell’influenza che il movimento
avviato da Gandhi e diffuso nel mondo ha avuto e ha su alcune delle
religioni più diffuse, come l’Islam e il cristianesimo.
Le religioni, per Gandhi, sono prodotti umani nella ricerca della
Verità, perciò tutte imperfette, rivedibili e perfettibili, eppure
tutte vere e benefiche. Gandhi distingue tra le religioni storiche,
positive, e la “vera religione” che le trascende tutte. «Come
un albero ha un solo tronco, ma molti rami e molte foglie, così vi è
un’unica vera e perfetta religione, la quale, passando attraverso
lo strumento dell’uomo, si diversifica in molte»1.
Il tema della “vera religione” ricorre anche nella Bibbia ebraica
e cristiana, ma non solo come opposta a “falsa”, non solo come
religione del Dio vivo a confronto delle idolatrie, quanto nel senso
della religione sincera e operante rispetto a quella formale e
ipocrita, perciò religione vissuta nel fare il bene al prossimo,
specialmente al bisognoso. Per brevità, basti indicare alcuni passi:
«Ciò che il Signore cerca da te è nient’altro che compiere la
giustizia, amare con tenerezza, camminare umilmente con il tuo Dio»
(Michea 6,8); e similmente in Osea 6,6 (citato anche da Gesù in
Marco 12,33): «Io voglio l’amore, non i sacrifici, la
conoscenza di Dio, non gli olocausti». Così Isaia 58,6-7,
Zaccaria 7,8-10 e 8,16-17, Giacomo 1,27, e altri passi, fino a Matteo
25, dove il criterio del giudizio finale sulla nostra vita non sarà
l’aver avuto religione e fede, ma l’aver aiutato i bisognosi.
Frequente è la polemica dei profeti biblici contro la religione del
culto, facilmente soddisfatta di se stessa dimenticando le opere
della giustizia. Nei vangeli, la pace con l’avversario ha la
precedenza sul culto (Matteo 5, 23-24).
E anche il Corano, quando tratta delle differenti religioni, indica
soprattutto questa saggia regola di vita: «Ad ognuno di voi abbiamo
assegnato una via e un percorso. Se Allah avesse voluto, avrebbe
fatto di voi una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel
che vi ha dato. Gareggiate in opere buone: tutti ritornerete ad Allah
ed Egli vi informerà a proposito delle cose sulle quali siete
discordi» (sura 5, v. 48). La soluzione delle differenze teologiche
può essere rinviata, ora si tratta di gareggiare nel fare il bene.
Sappiamo bene che nelle religioni, sia nei testi sacri che nella
pratica storica, ci sono anche tante forme violente. Oggi le
religioni si rendono conto progressivamente di questa loro
ambivalenza, per cui possono produrre sia grande violenza sia grandi
opere di amore e giustizia.2
Autori come Johan Galtung, Ramin Jahanbegloo3
e molti altri vedono in ogni religione forme dure, assolute,
escludenti, ma anche forme miti, includenti, di relazione con le
altre, di impegno per la nonviolenza nel mondo presente. Oggi la
ricerca e le esperienze di dialogo cooperativo tra le religioni per
la pace fanno alcuni passi preziosi.
**
Per Gandhi, dalla sua concezione di religione, discendono alcune
conseguenze:
1. Tolleranza: «Dal momento che noi non penseremo mai tutti
allo steso modo, e che vedremo la verità in maniera frammentaria e
da angoli visuali diversi, la regola d’oro della condotta (...) è
quella della tolleranza reciproca. La coscienza non è la stessa cosa
per tutti. (…) Anche tra le persone più coscienziose vi sarà
sempre posto per oneste differenze di opinione. L’unica possibile
regola di condotta in una società civile è pertanto quella della
tolleranza reciproca»4.
Ma in Gandhi la tolleranza religiosa non è quella scettica,
indifferente, condiscendente; è tolleranza positiva e attiva, è
attento interesse alle altre fedi, è dialogo, è ricerca
morale e collaborazione pratica. Anzi, egli non amava il termine
“tolleranza”, perché «può implicare il presupposto gratuito
della inferiorità delle altre fedi rispetto alla propria». Così
non amava la formula “rispetto della religione”, perché gli
sapeva di condiscendenza. Diceva invece che l’ahimsa
(nonviolenza) «ci insegna a nutrire per le fedi religiose
degli altri lo stesso rispetto che abbiamo per la nostra,
riconoscendo così che anch’essa è imperfetta»5.
È facile tollerare quando la diversità ci risulta stimabile nei
suoi valori. Ma quando dobbiamo riconoscervi un errore teorico o
pratico, che non possiamo condividere né approvare, che fare? Se la
tolleranza, da atteggiamento di condiscendenza e sopportazione di
pensieri e azioni che riteniamo sbagliate e che dobbiamo giudicare
negativamente, riesce a diventare invece tolleranza attiva, cioè
riesce a prendere a cuore e a farsi carico dell’errore che
incontra, perché più dell’errore le importa la persona che erra,
allora tolleranza – dal latino tollere, sollevare6
- significa positiva misericordia. Questa virtù è tutt’altra cosa
da una posizione di degnazione e superiorità: è invece l’atto di
accogliere nel mio cuore la miseria (miseri-cordia) cioè gli
errori, anche la violenza, che trovo nell’altro, fino a sentirmi
corresponsabile del male fatto da altri, e impegnato alla correzione
fraterna, mite e umile. Perciò non posso essere in-tollerante,
perché la misericordia mi fa solidale con lui, nel male da vincere,
nel bene da attuare. Questo atteggiamento è proprio di Gandhi.
2. Farsi carico della sofferenza. Questo è il senso con cui
Gandhi intraprende i suoi digiuni, tesi, come ripete molte volte, a
«risvegliare le coscienze» con l’arma della sofferenza accolta su
di sé, che egli considera «l’arma umana». Nel 1933 diceva: «Se
io digiuno per risvegliare la coscienza di un amico che si trova
evidentemente nell’errore, non esercito su di lui una coercizione
nel senso corrente del termine. (…) Ogni tapas [digiuno per
motivo spirituale] esercita infallibilmente una influenza
purificatrice su coloro per il cui bene è compiuto. (…) Il
satyagraha è stato concepito come una forza in grado di
sostituire la violenza»7.
Quando spiega il senso di quello che sarà l’ultimo suo digiuno,
per ottenere la fine delle violenze tra indù e musulmani a Delhi,
termina così il suo scritto del 18 gennaio 1948 (dodici giorni prima
di venire ucciso): «Il digiuno è un atto di autopurificazione»8.
Se sente di dovere purificarsi dalle violenze in corso è perché se
ne fa carico personale9
e constata che non ha ormai altro mezzo di azione e persuasione –
ma un satyagrahi non deve mai essere privo di risorse - che
mettere in gioco tutto se stesso, disposto a morire «nella pace che
spero mi venga concessa», «se l’alternativa è quella di essere
testimone impotente della distruzione dell’India, dell’hinduismo,
del sikhismo e dell’Islam»10,
che verrebbe dalla divisione religiosa dell’India, quella che poi
in effetti avvenne. «Negli ultimi tre giorni ho meditato a lungo sul
digiuno. La conclusione cui sono giunto mi ha illuminato e mi rende
felice. Nessun uomo, se è veramente puro, ha niente di più prezioso
da offrire della sua vita. Spero e prego di avere in me la purezza
che giustifichi la mia decisione»11.
La nonviolenza è amore attivo – ma Gandhi preferisce il termine
benevolenza perché «la parola amore è stata screditata»12
- e di amore ha bisogno specialmente chi non sa amare.
3. Non proselitismo. Gandhi era contrario a ogni proselitismo
e missionarismo (salvo azioni di carità, di aiuto ai più deboli).
Ammetteva in linea di principio la conversione come approdo autonomo
di una profonda ricerca spirituale personale, però riteneva che per
avvicinarsi il più possibile alla verità bastava che ciascuno
approfondisse la propria fede, per giungere infine a quel centro
comune di tutte le fedi, senza bisogno di conversioni13.
La sua visione di Dio, che può essere ogni cosa in quanto è l’unità
di tutte le cose, e la verità termine unico di tutte le visioni, non
è una tattica per dare ragione a tutti, perché Gandhi afferma di
essere hinduista e di essere felice della sua religione. Però dice
che tutte le religioni sono vere perché hanno un punto di vista
sulla verità. Dichiara che non cambia religione perché è felice di
quello che gli dà la sua, però «l’ahimsa ci insegna il
rispetto di tutte le altre religioni come rispetto la mia, e questo è
un modo di ammettere l’imperfezione della mia religione. La
religione è nell’uomo e l’uomo è imperfetto»14.
Quindi tutte le religioni sono imperfette e tutte sono vere.
Del cristianesimo e dell’Islam diceva: «Considero tutt’e due le
religioni ugualmente vere quanto la mia. Ma la mia mi soddisfa
pienamente (...). La mia costante preghiera è pertanto che il
cristiano e il musulmano diventino un migliore cristiano e un
migliore musulmano»15.
4. Stato laico. Gandhi era per lo stato laico, a differenza di
Jinnah, non religioso, intransigente fautore della secessione del
Pakistan, nel 1947, come stato musulmano. Scriveva: «Se io fossi un
dittatore [cioè, se toccasse a me decidere] terrei la religione
separata dallo stato. Credo ciecamente nella mia religione. Morirei
per essa. Ma è una mia faccenda personale. Lo stato non c’entra.
Lo stato dovrebbe preoccuparsi del benessere temporale, della salute,
delle comunicazioni, delle relazioni con l’estero, della
circolazione della moneta, e così via, ma non della nostra o della
mia religione. Questo è affare personale di ciascuno»16.
Non dimentichiamo che per la convivenza tra le due principali
religioni dell’India, hinduismo e islamismo, per «il suo rifiuto
dell’antagonismo tra le religioni»17,
Gandhi fu ucciso da un fanatico della sua stessa religione.
**
Quale concetto di Dio ha Gandhi? Gandhi crede in una verità
ontologica, cioè dell’essere, e spesso la identifica con Dio, che
chiama con i nomi più diversi, presi da tutte le religioni. Quando
viene ucciso, lo invoca con un nome hindù, «He Ram» (mio Dio).
Questo è il nome della sua religione; ma egli si compiace di
usare tutti i nomi che conosce. In particolare, usa dapprima la
formula «Dio è la verità», poi dal 1929 la inverte e preferisce
la formula «la verità è Dio». Nella prima formulazione vede il
pericolo che ognuno ritenga verità assoluta Dio nel modo in cui è
conosciuto e concepito dalla propria religione. Nella seconda
formula, Dio è quella verità che sta più avanti di tutte le nostre
limitate concezioni.
Quale Dio pensa Gandhi? Non c’è un’unica risposta nella teologia
di Gandhi18.
A volte presenta una concezione trascendente, altre volte la esclude;
nega spesso a chiare lettere la fede in un Dio personale, più spesso
sembra ritenere che non abbia importanza concepire Dio personale o
impersonale.
Cito un testo importante, del 1940: «Per me Dio è Verità e Amore;
Dio è etica e morale; Dio è coraggio. Dio è la sorgente della Luce
e della Vita, e tuttavia Egli è al di sopra e al di là di esse. Dio
è coscienza. Egli è persino l’ateismo dell’ateo... Egli è un
Dio personale per coloro che hanno bisogno della Sua presenza
personale. Egli è incarnato per coloro che hanno bisogno del suo
contatto. È l’essenza purissima. Per coloro che hanno fede, Egli
semplicemente è. Egli è le cose più diverse per le persone più
diverse. Egli è in noi e tuttavia è al di sopra e al di là di
noi»19.
Sembra quindi abbracciare tutti i concetti di Dio. Esprime anche
un’idea panteistica, quando dice che la somma totale di tutto ciò
che vive è Dio. Questa idea si traduce per lui nell’identificazione
con ogni essere vivente, fino a dire: «Per vedere faccia a faccia
l’universale e onnipresente Spirito della Verità si deve essere in
grado di amare il più infimo degli esseri creati come se stessi»20
(ma non troviamo in lui lo scrupolo estremo dei giainisti di non
schiacciare neppure involontariamente un moscerino).
Il credente deve imparare a capire che ai milioni di diseredati, di
disoccupati e di affamati nel mondo «l’unico modo in cui Dio può
apparire è sotto forma di lavoro e promessa di stipendi e di cibo»;
ai poveri del mondo «Dio può solo apparire come pane e burro»21.
La verità
ontologica, per Gandhi, si traduce nella verità morale, che deriva
da quella. Per lui, morale e religione sono spesso sinonimi: l’azione
moralmente giusta e vera è quella tesa a mantenere il più possibile
l’unità del tutto, nella quale egli riconosce la verità che è
Dio. La sua è una teologia etica. Comunque pensiamo o non pensiamo
Dio, siamo in lui se realizziamo la nonviolenza attiva e positiva.
II - Badshah Khan, il “Gandhi musulmano”
Si
è fatto, ormai, il mio cuore
capace
di ogni forma:
per
le gazzelle è un pascolo,
ed
è convento ai monaci cristiani.
Si
fa tempio per gli idoli,
e
Ka’ba ai pellegrini;
tavola
di Torà,
e
libro del Corano.
Seguo
la religione dell’amore:
in
qualunque regione mi conducano
i
cammelli d’amore, là si trovano
la
mia credenza e la mia religione.
(Ibn
Arab,
L’ interprete delle passioni)
Sembra
che Gandhi ispiri la nonviolenza civile e politica alla sua religione
hindù, in un modo che nessun’altra religione avrebbe realizzato
così direttamente. Ma il rapporto di Gandhi con le religioni diverse
si arricchisce col tempo. Una direzione interessante da osservare
(oltre l’influenza sul cristianesimo nel fargli riscoprire aspetti
dimenticati della nonviolenza evangelica) è il rapporto
dell’esperienza e dell’insegnamento gandhiani con l’Islam, oggi
spesso volgarmente visto come una religione violenta, a causa della
sua forma fondamentalista, che però davvero non rende giustizia al
suo spirito, alla sua realtà, alla sua storia.
Il
20 gennaio 2008 abbiamo ricordato i venti anni dalla morte di un
singolare protagonista della nonviolenza, musulmano, contemporaneo e
collaboratore di Gandhi, che lo stimò e ammirò molto. La sua figura
comincia ad essere conosciuta anche da noi.
Qui
presento le grandi linee del libro che ne presenta la vita, lo
spirito e l’opera.22
Di un altro libro più
recente e di mole minore, parleremo subito dopo. 23
**
Abdul
Ghaffar Khan, detto Badshah Khan, il “re dei khan” (1890-1988),
il “Gandhi musulmano”, è ricordato con questi vari nomi. Fu
educatore e leader di una popolazione guerriera e feroce come i
pathan, ovvero pashtun, della Frontiera, la “porta dell’India”
(oggi tra Pakistan e Afghanistan), di religione musulmana, e li
condusse ad adottare la nonviolenza contro le repressioni molto
violente del dominio inglese (vedi Scheda 1). Quella è la terra di
Zoroastro, degli inni vedici, della cultura buddhista, prima che vi
arrivasse l’Islam. Badshah Khan trovò proprio nella sua fede
islamica l'ispirazione alla nonviolenza. La sua figura storica è
importante per sfatare la rozza identificazione odierna tra Islam e
violenza.
È
nota l’osservazione di Gandhi per cui proprio il violento
coraggioso nella difesa del diritto e della dignità è il più
disponibile a capire e vivere la "nonviolenza del forte":
«Mentre non c’è alcuna speranza di vedere
un vile diventare nonviolento, questa speranza non è vietata ad un
uomo violento»24.
Le
tradizioni violente dei pathan poterono mutarsi in energia e coraggio
nonviolenti efficaci.
«Musulmano è
colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e
lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio.
La fede in Dio è amore del proprio compagno». Sono parole di Khan
citate in questo libro (p. 61 della prima edizione). Il giovane
Ghaffar apprese da suo padre Behram Khan lo spirito del perdono,
davvero singolare in quella società in cui il codice della vendetta
era regola di onore. Ghaffar era un ragazzo negli anni della Guerra
della Frontiera, la rivolta dei pathan nel luglio 1897 (raccontata da
Winston Churchill, ventitreenne corrispondente di guerra arruolato
nel 4° ussari), repressa dagli inglesi che distrussero i raccolti,
tagliarono gli alberi (azione feroce di guerra vietata dal Corano),
avvelenarono i pozzi, demolirono le case. Ma fu una vittoria di
Pirro: l’ostilità dei pathan durerà nei decenni, fino ad oggi.
Non lo capì Churchill, ma lo capì Annie Besant, inglese, che già
si batteva per l’autogoverno indiano.
Nel 1879 la Gran
Bretagna aveva imposto la sua influenza sull’Afghanistan, in
funzione anti-russa (la storia si ripete!). Inutilmente l’emiro
afghano aveva ammonito gli inglesi sulla indomabilità dei pathan.
Poco dopo il “giubileo di diamante” della regina Vittoria (giugno
1897), l’impero stava diventando una trappola.
Abdul Ghaffar
musulmano, come Gandhi indù, riceve un’educazione inglese, senza
perdere il cuore della propria tradizione. Dapprima si arruola nelle
“guide”, un corpo scelto a servizio dell’impero, ma poi ne
esce, perché lo indigna il fatto che gli inglesi trattino i pathan
da inferiori. Lavora la terra e osserva le condizioni del suo popolo.
Il suo percorso è simile a quello di Gandhi. Il viceré Curzon
“viviseziona” con le deportazioni la nazione pathan. In queste
condizioni, Abdul Ghaffar apre una scuola nel suo villaggio di
Utmanzai e poi altre nei villaggi vicini, nonostante l’avversione
dei mullah tradizionalisti e gli ostacoli della legge inglese. Ormai
ha scelto la via della riforma sociale educativa per servire il suo
popolo. Si sposa, ha un figlio che lo aiuterà nella sua azione.
Incontra altri leader musulmani impegnati nella promozione culturale
del popolo e si dedica in particolare alle tribù delle montagne,
governate dagli inglesi con durezza, isolamento, umiliazioni. Tra di
loro, in preghiera e digiuno, trova la sua via, che seguirà per
settant’anni: il servire Dio nel servire i poveri, gli ignoranti, i
violenti. Negli stessi anni, Gandhi avvia in Sudafrica il satyagraha,
fino al suo ritorno in India, nel 1914.
Molti indiani
combatterono e morirono per l’impero inglese nella prima guerra
mondiale, ma, nonostante le illusioni, le condizioni dell’India
risultarono più dure di prima. Ghaffar sente parlare di Gandhi e
delle sue campagne, si riconosce nel suo scopo e nei suoi metodi. Tra
il 1915, quando muore improvvisamente la moglie amata, e il 1918,
Ghaffar visita tutti i 500 villaggi delle basse valli della
Frontiera. La gente lo acclama “badshah khan”.
Nel 1919, dopo la
strage di Amritsar, Gandhi prepara la rivolta nonviolenta contro il
dominio inglese. Ghaffar è imprigionato per sei mesi senza processo,
e così tante altre volte. La sua colpa è soltanto educare il
popolo. I genitori lo inducono a risposarsi. Partecipa nel 1920 alla
sessione del Congresso che decide la lotta nonviolenta. Sente come un
dovere sacro la lotta per la libertà. In carcere rifiuta la libertà
condizionata all’impegno di non girare più per i villaggi;
impressiona tutti per la scrupolosa osservanza del regolamento e la
forte capacità di soffrire; rifiuta miglioramenti che potrebbe
ottenere con la corruzione. Un carceriere riconosce che Ghaffar è in
prigione «per conto di Dio». In prigione, incontrando altri
indipendentisti indù e cristiani, impara a conoscere e rispettare le
altre religioni. Intanto, gli muore la madre, che amava molto.
Scarcerato nel 1924, sebbene molto provato dopo tre anni di prigione,
è ormai accolto come un leader dai pathan.
Egli sente più di
tutti la contraddizione intrinseca alla mistica della vendetta e
della violenza, tipica dei fieri pathan, che preferiscono rubare
piuttosto che mendicare, uccidere piuttosto che patire un dolore.
Molte storie di vendette familiari gli dicono che il pathan non è un
assassino irresponsabile, ma la vittima del suo distorto codice
d’onore. Ghaffar comprende che la politica dell’impero inglese ha
buon gioco nel mettere i pathan gli uni contro gli altri: impegnati a
tagliarsi la gola tra di loro non pensano alla libertà. Intuisce che
la violenza pathan è frutto di ignoranza, superstizione e del peso
schiacciante dell’abitudine. Così sprecano il loro coraggio e la
loro forza. Sa che il suo compito è educare, illuminare,
risollevare, ispirare. Insegnerà ai pathan che il vero coraggio è
essere nel giusto. Egli riuscirà in questo perché è un vero
pathan, che può capire nell’intimo i pathan.
Infatti, la
nonviolenza non può essere importata dall’esterno, ma può
crescere solo dall’interno di una cultura, che discute e riforma se
stessa, sulle sue basi positive. Se i pathan capirono la nonviolenza
è perché, sull’esempio di Ghaffar, ne trovarono proprio
nell’Islam alcuni fondamenti morali e spirituali.
Nel 1926 gli muore
il padre e, per una caduta durante il pellegrinaggio alla Mecca, la
seconda moglie, dopo di che egli fa voto di non risposarsi per
dedicarsi interamente al servizio del popolo. Come Gandhi, Ghaffar
valorizza molto il ruolo attivo delle donne nel movimento. Fonda una
rivista in lingua pakhtu, che discute di igiene, temi sociali,
diritti delle donne, dignità del popolo pathan. Egli pratica già la
sostanza del “programma costruttivo” di Gandhi, la parte più
positiva e avanzata della sua azione.
Nel 1928 incontra
Gandhi, ne riceve profonda impressione, e impara da lui la tolleranza
e pazienza che manca nei leader Islamici. Incontra anche Nehru. Si
inserisce nella lotta per l’indipendenza indiana, dando coscienza
politica ai pathan: «Dovete vivere per la comunità. È l’unica
strada che conduca alla prosperità e al progresso» (p. 129).
**
Ci
voleva un esercito, sì, ma di gente libera sia dalla violenza dei
fisicamente forti sia dalla nonviolenza dei moralmente deboli.
Badshah Khan insegnò ai pathan che la massima forma di onore e di
coraggio era affrontare un nemico per una giusta causa senza
indietreggiare e senza imitare con l’uso delle armi la sua
violenza, combattendo anche contro la propria violenza.
Riuscì
così a costituire il primo “esercito” nonviolento della storia
addestrato professionalmente. Tutti i pathan potevano entrarvi,
uomini e donne, purché pronunciassero questo giuramento (per i
pathan giurare impegna la vita):
«Sono un khudai kidmatgar
(servo di Dio), e poiché Dio non ha bisogno di essere servito, ma
servire la sua creazione è servire lui, prometto di servire
l’umanità nel nome di Dio.
Prometto di astenermi dalla
violenza e dal cercare vendetta.
Prometto di perdonare coloro
che mi opprimono o mi trattano con crudeltà.
Prometto di astenermi dal
prendere parte a litigi e risse e dal crearmi nemici.
Prometto di trattare tutti i
pathan come fratelli e amici.
Prometto di astenermi da usi e
costumi antisociali.
Prometto di vivere una vita
semplice, di praticare la virtù e di astenermi dal male.
Prometto di avere modi gentili
ed una buona condotta, e di non condurre una vita pigra.
Prometto di dedicare almeno
due ore al giorno all’impegno sociale».
Questo esercito
volontario e gratuito cominciò con 500 reclute, la divisa era una
camicia rossa (gli inglesi li vedono come infiltrati sovietici), le
funzioni erano aprire scuole, sostenere progetti di lavoro, mantenere
l’ordine nelle assemblee, sviluppare l’autogoverno della società.
Marciando sulle montagne cantavano il loro inno:
«Siamo l’esercito di Dio, /
non ci importano morte o ricchezza, / marciamo, noi e il nostro capo,
/ pronti a morire. / Noi serviamo ed amiamo / il nostro popolo e la
nostra causa. / La libertà è il nostro scopo, / le nostre vite il
prezzo da pagare». (p. 132).
Badshah Khan
diceva a questi “soldati”: «Vi sto fornendo un’arma a cui la
polizia e l’esercito non potranno resistere. È l’arma del
Profeta: la pazienza e la giustizia sono quest’arma. Nessun potere
sulla terra può resisterle». Egli sviluppava così la sabr,
la pazienza, che nel Corano è la virtù centrale nella “guerra
santa” tra il bene e il male che ogni persona ha da combattere nel
proprio cuore, facendone la virtù del nonviolento forte. Così,
sabr, insieme a lâ unf, è il termine che significa
nonviolenza in arabo (p. 135).
Come i coloni
americani nel luglio 1776 a Philadelphia, così, in termini simili,
cinquemila delegati del Congresso a Lahore, il 31 dicembre 1929, e il
giorno dopo assemblee di massa in tutta l’India, dichiaravano se
stessi e tutti gli indiani uomini e donne liberi, da quel momento e
per sempre. Ma aggiungevano: «La strada più efficace per ottenere
la libertà non passa per la violenza. (...) Se riusciamo a ritirare
la nostra collaborazione volontaria con il governo inglese, e siamo
disposti alla disobbedienza civile, compreso il rifiuto di pagare le
tasse, senza compiere violenze neanche se provocati, la fine di
questo dominio disumano è certa».
Nel marzo del
1930, Gandhi, dopo averla annunciata al viceré, guidava la “marcia
del sale”, ribellione nonviolenta al monopolio inglese su un bene
prezioso come l’acqua, nel clima tropicale. Centomila persone,
compreso Gandhi, finirono in prigione. Nella regione della Frontiera
la repressione fu più intensa e brutale, come documentò una
commissione del Congresso. Badshah Khan, col suo “esercito” di
camicie rosse, intensificò l’azione di educazione e organizzazione
nei villaggi, ma fu arrestato dagli inglesi e condannato a tre anni
di carcere.
Manifestazioni
nonviolente di persone disarmate furono investite da carri armati
inglesi nel bazar di Kissa Khani, con quasi trecento morti e altri
feriti, colpiti a sangue freddo tra la folla che rimaneva ferma di
fronte agli spari dei soldati. Il massacro (simile a quello di
Amritsar del 1919) è documentato nei giornali anglo-indiani del
tempo e negli studi di Gene Sharp. Ma tiratori scelti garhwali si
rifiutarono di sparare sulla folla: «Noi non spareremo sui nostri
fratelli disarmati». Solo alcune tribù delle montagne, tra le quali
fu sempre impedito a Badshah Khan di agire, compirono incursioni
violente, mentre Khan era in carcere. Alcuni scrittori inglesi hanno
usato questi fatti per screditare la nonviolenza di Khan. Ma, mentre
le azioni violente furono sgominate dagli inglesi, il movimento
nonviolento cresceva.
Sconcertati dalla
nonviolenza dei pathan, gli inglesi tentavano di spingerli alla
reazione violenta, con provocazioni fisiche umilianti, nel villaggio
stesso di Khan, Utmanzai, offese a cui i “servi di Dio”
resistettero con eroica dignità. La popolazione si aggregava a loro.
La resistenza restava nonviolenta. Alla fine di settembre l’esercito
nonviolento arrivò a contare ottantamila (altre fonti dicono
centomila) volontari, uomini e donne. Dopo l’accordo paritario, che
disgustò Churchill, tra Gandhi e il viceré, accordo che sancì la
tregua, i pathan ottennero con la lotta nonviolenta la parità
politica della loro regione col resto dell’India.
**
Khan,
tornato nella Frontiera, era considerato un santo, era chiamato il
Gandhi della Frontiera, ma reagiva: «Non aggiungete il nome di
Gandhi al mio!». Neppure il titolo badshah gli piaceva: era servo
del popolo, non re. Cede la sua terra ai figli, diventando un fakir,
un senza terra, senza diritto di voto nella jirga. Egli ora è
soltanto un riferimento spirituale. Gira instancabile per i villaggi,
a educare gli ignoranti, avversato dagli inglesi, dai mullah, dai
khan ricchi che non vogliono riforme. Due volte rischia di essere
ucciso. Percorreva fino a quaranta chilometri al giorno. Appena
arrivato in un villaggio, puliva la moschea, stava coi poveri.
Ripeteva: «Abbiamo due obiettivi: liberare il paese; nutrire
l’affamato e vestire l’ignudo». Insegnava l’igiene, la forza,
il disinteresse. Ricordava alle donne la loro parità con gli uomini,
fondata nel Corano.
Quando
gli inglesi proibirono a Khan queste visite, Gandhi protestò, voleva
visitare lui stesso la Frontiera, ma gli fu impedito. Mandò il
figlio Devadas, che constatò la forza e l’ispirazione di Khan. Il
quale disobbedì al divieto e fu arrestato. Violando la tregua, tra
fine del 1931 e inizio del 1932, gli inglesi occuparono Peshawar e
arrestarono anche Gandhi. Un inglese collaboratore di Gandhi, Verrier
Elwin, documenta la persecuzione contro le “camicie rosse”, nella
Frontiera, con metodi feroci e 35.000 arresti, e testimonia
l’attaccamento orgoglioso dei pathan alla nonviolenza. Anche senza
la presenza di Badshah Khan, avevano ormai compreso che la
nonviolenza funziona. Elwin documenta oggettivamente anche alcuni
rari episodi di violenza, da parte di non appartenenti all’esercito
nonviolento. Elwin fu arrestato dagli inglesi ed espulso dalla
provincia.
Intanto,
Khan fu detenuto per tre anni senza processo, in isolamento, lontano
dalla Frontiera, soffrendone nella salute. Rilasciato nel 1934, ma
bandito dalla Frontiera, Khan accettò l’invito di Gandhi e andò a
vivere a Wardha, il suo ashram nell’India centrale. Gandhi era
concentrato nel suo “programma costruttivo”: dopo aver insegnato
come combattere in modo nonviolento, ora il compito più arduo era
insegnare a vivere in modo nonviolento. Affascinato da Khan, chiese
al suo segretario, Mahadev Desai, di stenderne una biografia, con una
sua prefazione. Desai scriveva di Khan: «La cosa più grande in lui
è la sua spiritualità, il vero spirito dell’Islam, la
sottomissione a Dio».
Il
fratello di Khan, Saheb, aveva una moglie inglese. Una volta Gandhi
chiese se si era convertita all’Islam. Khan gli rispose: «Sarai
sorpreso, ma non saprei dirti se è musulmana o cristiana. Per quanto
ne so, non si è mai convertita, è assolutamente libera di seguire
la sua fede. Un marito e una moglie dovrebbero poter seguire ciascuno
la sua fede». Gandhi era d’accordo, ma osservò che la maggior
parte dei musulmani non pensava così. Khan lo sapeva bene, ma disse
che nessuno conosce il vero spirito dell’Islam, e che «tutte le
fedi sono ispirate quanto basta a coloro che vi aderiscono. Il Corano
dice che in molti modi Dio manda messaggeri in tutte le nazioni» (p.
174).
In
seguito, Badshah Khan va a Calcutta, parla ai musulmani del Bengala,
li invita a formare un movimento di combattenti nonviolenti e ad
aiutare i villaggi poveri. Partecipa con Gandhi alla sessione annuale
del Congresso, a Bombay, nell’ottobre ’34, durante la quale
racconta agli indiani cristiani l’esperienza dei khudai khidmatgar,
e parla al Club per l’unità delle donne. Accusato per frasi
“sediziose” pronunciate a Bombay, nel suo racconto del massacro
di Kissa Khani, in dicembre Khan è di nuovo arrestato. Su consiglio
di Gandhi, che non lo voleva in prigione, accettò a fatica di
difendersi affermando che non intendeva usare espressioni sediziose,
ma fu ugualmente condannato a due anni di carcere duro, in
isolamento. Ne soffrì nuovamente nella salute. Rilasciato nel luglio
’36, tornò da Gandhi. Nel gennaio ’37, nelle prime elezioni dei
consigli legislativi, il fratello Saheb viene eletto primo ministro
della Frontiera e revoca il bando inflitto a Khan, accolto nella sua
terra da immenso affetto popolare. La lotta nonviolenta dei pathan
aveva ottenuto un parziale autogoverno.
In
ottobre Nehru visitò la Frontiera, e nel ’38 lo stesso Gandhi,
finalmente, accolto da folle composte, non sfrenate, nelle uniformi
rosse. Egli constata l’amore che lega Khan al suo popolo, al quale
ha insegnato la “forza vera” (queste parole potrebbero tradurre
“satyagraha”). A Mardan un corpulento pathan dice a Gandhi: «Noi
siamo ignoranti, siamo poveri, ma non ci manca niente, perché tu ci
hai insegnato la lezione della nonviolenza». Gandhi voleva studiare
meglio l’esperienza dei khudai khidmatgar, e tornò in ottobre ad
incontrarli. Disse loro che non bastava la resistenza passiva se si
fossero sentiti più deboli per il fatto di non usare le loro armi
tradizionali, e che dovevano invece sentirsi più forti, altrimenti
era meglio tornare alle armi. Ma «voi avete una forza spirituale
tale da proteggere non solo l‘Islam ma anche altre religioni».
«Rimuovere la violenza dal proprio cuore non è solo la capacità di
controllo della collera, ma il completo sradicamento della collera.
Realizzare la nonviolenza significa conoscere Dio, sentire in sé la
sua forza. Chi ha rinunciato alla violenza dovrebbe pronunciare il
nome di Dio ad ogni respiro». Egli, disse Gandhi, lo faceva da
vent’anni, anche nel sonno (p. 190). Sappiamo che, quando fu
ucciso, spirò invocando «He Ram!».
Gandhi
girò per tutta la regione insieme a Khan. Questi riconosceva che la
collera dei pathan era solo repressa, ed era turbato dalla quantità
di rivalità fra tribù e famiglie. Ora bisognava esercitare i
volontari nel Programma costruttivo, la nonviolenza positiva: filare
e tessere, l’igiene, l’educazione di base, l’hindostano come
lingua nazionale unificante.
**
Nel
1939 scoppia la seconda guerra mondiale: l’India è coinvolta senza
consenso. Il Congresso delibera che un’India libera e democratica
sosterrebbe volentieri le altre nazioni libere contro l’aggressione,
ma non senza un chiarimento, che però gli inglesi rinviano a dopo la
guerra. Intanto, essi scavano divisione tra indiani indù e
musulmani, per dominarli meglio. Il Congresso voleva l’indipendenza,
la Lega musulmana lo status di dominion entro l’impero. Nel 1940
Alì Jinnah proponeva uno stato musulmano. Richiesto di unirsi alla
lotta, in quanto musulmano, contro il «dominio indù», Badshah Khan
rifiutò. Invitò la Lega a cacciare gli inglesi e poi vivere
insieme, indù e musulmani, come avevano fatto per secoli. Quelli
della Lega chiamarono Khan indù, con l’intenzione di offenderlo.
Davanti
all’ipotesi di attacco esterno all’India, il Congresso dapprima
si allontanò da Gandhi e dalla nonviolenza, ma Khan fu duro nel
riaffermare il metodo di «servire Dio e l’umanità offrendo le
proprie vite senza ucciderne alcuna». Intanto, egli continua
l’addestramento attivo nel Programma costruttivo, avvia scuole
femminili, cosa rara tra i musulmani. Racconta come da giovane aveva
tendenze violente e, sull’insegnamento di Gandhi, abbia dovuto
«rifare se stesso». Simili trasformazioni, talora faticose, aveva
indotto anche in altri, come nel fuorilegge omicida Murtaza Khan,
che, scontata la condanna, era diventato un comandante dei khudai
khidmatgar. Poi finì di nuovo in prigione, ma questa volta come
“servo di Dio”, per la libertà della sua gente.
Nel
luglio 1942 Gandhi rivolge ormai agli inglesi una sola richiesta:
«Quit India» (lasciate l’India). Viene arrestato. Khan e il
fratello parlano contro lo sforzo bellico. Alla fine dell’anno sono
in prigione 60.000 indiani. Con i leaders del Congresso in prigione,
esplode la violenza in tutta l’India, ma non nella Frontiera, dove
aveva agito da educatore Badshah Khan.
Dopo
la guerra, l’Inghilterra si avvia a riconoscere l’indipendenza,
ma c’è contrasto tra Congresso e Lega musulmana, su chi dovrà
avere il potere. Gravi violenze scoppiano tra indù e musulmani.
Gandhi e anche Khan, addolorati, si recano nelle regioni più
infuocate per pacificare gli animi con la preghiera e il digiuno e
dimostrare la fratellanza reciproca. La violenza contagia ora anche
la Frontiera, dove 10.000 khudai khidmatgar proteggono indù e sikh,
(cioè le persone di altra religione, capacità che Gandhi aveva
visto in loro) con la loro presenza disarmata. Il Congresso si
rassegna alla richiesta della Lega, di uno stato musulmano separato.
Solo
Khan e Gandhi si opposero, con ragione perché la violenza segnò
ancora l’agosto 1947, quando si incrociarono due migrazioni di
quindici milioni di persone, con violenze che fecero 500.000 morti.
Rimase un’eredità di violenza e paura. Khan e i suoi soldati della
nonviolenza resteranno in balia dei ministri musulmani, che da anni
li ostacolavano. Gandhi promette di andare in Pakistan, senza
riconoscere la frontiera, a costo della vita. Di Khan dice: «La sua
agonia interiore mi spezza il cuore».
Nel maggio ’47,
Gandhi aveva tentato, parlando con tutti, di evitare la spartizione.
Frena gli indù eccitati, difende la bontà dell’Islam
distinguendola dai musulmani violenti. Prega con una preghiera tratta
dal Corano. Khan è con lui, angosciato per il futuro. Si separano
quando Gandhi parte per Calcutta, Khan per la Frontiera.
**
Il 15 agosto 1947
avveniva in pace e amicizia il passaggio delle consegne tra l’ultimo
viceré inglese, Lord Mountbatten e il nuovo governo indipendente
dell’India, guidato da Nehru. Gandhi, e quanti lo seguirono,
avevano realizzato il prodigio storico di trattare gli avversari con
rispetto, e anche amore, nel tempo stesso in cui rifiutavano
caparbiamente il loro dominio. Avevano combattuto senza armi e
avevano conquistato la libertà e la pace. Ma purtroppo non c’era
la pace interna. Le violenze tra indù e musulmani spinsero Gandhi ad
un digiuno «fino alla morte» nel gennaio 1948: la paura degli
indiani di perdere “Bapu”, il Mahatma, ottenne la cessazione dei
massacri. Gandhi voleva andare a piedi in Pakistan, attraverso il
Punjab, la regione che aveva visto le maggiori violenze. Ma fu
ucciso, con una Beretta italiana, nel pomeriggio del 30 gennaio 1948,
da un fanatico indù.
Un referendum,
nella Frontiera, doveva scegliere tra Pakistan e India. Badshah Khan,
per evitare violenze e divisioni tra i villaggi per molte
generazioni, consigliò ai khudai khidmatgar di astenersi, così la
Frontiera andò al Pakistan. I khudai khidmatgar assicurarono la loro
lealtà al nuovo stato. Khan chiese un’autonomia per la regione dei
pathan, ma per questo fu accusato di tradimento e condannato a tre
anni di carcere duro, prolungati a sette, e poi subito di nuovo
incarcerato. I khudai khidmatgar furono messi al bando e distrutte le
loro sedi.
Ucciso Gandhi,
incarcerato Khan, i due più grandi uomini di Dio di tutta l’India
erano stati sacrificati in nome della religione. Khan, in un
intervallo di libertà, fondò il primo partito socialdemocratico del
Pakistan. Egli trascorse in carcere trent’anni, un terzo della sua
vita, e sette in esilio, ospite politico del governo afghano, ma non
cessò mai di sostenere i princìpi dell’amore e del servizio,
senza rancore per nessuno. Nel 1962 fu dichiarato “prigioniero
dell’anno” da Amnesty International.
Alla sera della
sua vita si accingeva a ricostruire ciò per cui aveva vissuto e che
aveva visto distruggere da dietro le sbarre della prigione. Diceva
che non cercava riposo in questa vita. «Si impara molto dalla scuola
della sofferenza. Mi chiedo cosa sarebbe stato di me se avessi avuto
una vita facile e non avessi avuto il privilegio di gustare le gioie
della prigione e tutto ciò che essa significa» (p. 231).
Easwaran, l’autore
della biografia, paragona questi uomini a Francesco d’Assisi: come
Francesco, alla fine della vita, vide vacillare e dissolversi ciò
che aveva avviato spendendosi totalmente, movimento che però in
seguito continuò a scuotere il genere umano, così è dell’opera
di Gandhi, la cui alternativa nonviolenta risalta sempre di più, a
fronte dei fallimenti pazzeschi della politica violenta, e così è
anche di Badshah Khan, che va dimostrando la profonda consonanza
dell’Islam vivo e in ripresa, con la nonviolenza.
Ciò che Gandhi ha
fatto nell’hinduismo e Martin Luther King nel cristianesimo, Abdul
Ghaffar, Badshah Khan, sta facendo nell’Islam, lungo le linee
profonde di cammino degli spiriti e della storia umana.
III – Gandhi a Teheran
Il
libro già indicato del filosofo iraniano Ramin Jahanbegloo 25,
Leggere Gandhi a Teheran, tocca i temi dello “scontro di
civiltà”, di nonviolenza e democrazia, del contributo della
filosofia gandhiana al dialogo tra civiltà, quindi tratta
direttamente il nostro problema su Islam e nonviolenza, esamina
l’idea indiana di secolarismo e si chiede, appunto, se un Gandhi
musulmano è possibile.
È evidente che il
titolo dato al saggio avvicina il nome di Gandhi al regime
integralista e giudicato minaccioso oggi vigente in Iran, come a
sfidare la possibilità di un Islam nonviolento proprio a confronto
di fenomeni duri come quel regime. C’è stato chi ha immaginato,
dopo l’11 settembre, persino un dialogo tra Gandhi e Bin Laden. 26
Per
Jahanbegloo, il fenomeno del cosiddetto «scontro di civiltà» è
solamente uno «scontro di intolleranze». «L’intolleranza verso i
musulmani va di pari passo con la demonizzazione dell’Occidente da
parte dei fondamentalisti islamici» (p. 28). L’Autore illustra
bene il «paradigma di Cordoba» (che potrebbe essere un altro titolo
di questo libro), cioè i sette-otto secoli di convivenza civile,
culturalmente molto fiorente, tra cristiani, ebrei e musulmani in
Andalusia.27
Viene da immaginare cosa potrebbe essere oggi o domani l’Europa se,
grazie alle migrazioni di popoli, potesse riprodursi un tale
paradigma. Bisogna sperarlo e prepararlo, anche se «il nostro mondo
offre ben pochi esempi all’altezza della esperienza andalusa».
Certo,
come l’Occidente dovrà abbandonare la profezia malefica dello
scontro di civiltà, così «l’Islam dovrà riscoprire la propria
tradizione di scambio e dialogo con altre realtà culturali e
religiose». «È nelle
dinamiche di civilizzazione dell’esperienza andalusa, dunque, che
va ravvisato il nucleo filosofico della nonviolenza nell’Islam».
Il guaio è la diffusa «tendenza a paragonare gli ideali della
propria fede con le pratiche di quella altrui, e viceversa». Ecco
allora l’assoluta necessità del dialogo perché un nuovo paradigma
di Cordoba possa essere costruito, cioè «il coraggio di immergersi
in una profonda esperienza interreligiosa con le diverse tradizioni
contemplative del mondo. L’aspetto contemplativo della religione,
infatti, è sempre latore di un sentimento di umiltà», perciò di
rispetto e di nonviolenza (pp. 24-27).
In
questo nostro problema, l’importanza e la necessità di ascoltare
la lezione di Gandhi sta nel fatto che la nonviolenza non può essere
«intesa come pura strategia di convenienza», ma va praticata anche
«dinanzi a idee o azioni che disapproviamo o addirittura
consideriamo odiose», così come la libertà di espressione esiste
soltanto se vale per «quanti propugnano idee che non condividiamo».
Soltanto, «non si può né si deve tollerare l’offesa alla natura
umana«», cioè agli esseri umani. La via per opporsi «all’inumano»
è il dialogo nonviolento. Jahanbegloo propone una «tolleranza
dialogica», diversa da una «tolleranza dialettica»: solo la prima
riconosce l’altro in noi stessi e così «rende possibile
comprendere visioni del mondo diverse dalla propria», perciò il
dialogo tra culture (pp. 30-31). Questa è una caratteristica
dell’autentica civiltà indiana e dunque dell’insegnamento di
Gandhi.
«Il
mondo è eterogeneo, ed è fondamentale rispettare le diversità».
«Lo scopo ultimo non è necessariamente il raggiungimento di un
accordo tra individui di idee radicalmente diverse, bensì la
scoperta di un senso di empatia e solidarietà verso il mondo e gli
esseri umani». «L’essenza del dialogo sta nella capacità di
considerare se stessi dalla prospettiva dell’altro». Ciò
richiede una «analisi decostruttiva volta a epurare gli aspetti
violenti e distruttivi della propria coscienza e cultura». Questa
idea di «convivenza dialogica», di «dialogo nonviolento tra
culture», la riconosco affine all’idea di Raimon Panikkar,
insistente sulla «pace come pluralismo»,28
e all’idea espressa dal vescovo della pace, Tonino Bello, di
«convivialità delle differenze».29
La
premessa, infatti, è che «la dignità umana ha una portata tale da
non poter essere ingabbiata in un’unica cultura». Ora, l’apporto
attuale di Gandhi, dice bene Jahanbegloo, ben più che la sola
opposizione e alternativa alla violenza fisica, sta nella sua lotta
all’intolleranza, che è la violenza culturale, instillata nelle
menti e installata nelle strutture. Uguale, egli dice, è l’opera
di Abdul Ghaffar Khan, il “Gandhi musulmano”, la cui «fede nella
verità e nell’efficacia della nonviolenza scaturiva dal profondo
della sua esperienza di fede Islamica», e la cui vita «dimostra
tuttora che è possibile conciliare l’identità musulmana e la
pratica della nonviolenza», forte e attiva, come è stata, in campo
cristiano, l’esperienza di Martin Luther King. Tutti questi
promotori di pace e giustizia nonviolenta non si chiedevano soltanto
«in che cosa credere, bensì cosa fare delle proprie credenze», se
cioè usarle come verità opposte e armate, o cammini differenti
verso il rispetto e l’amore costruttivo tra gli esseri umani (pp.
33-37).
Sorvolerei
sulla parte del libro di Jahanbegloo (cap. 3, pp. 54-73) che sviluppa
il contributo che la diffusione della nonviolenza, intesa come
autodisciplina e servizio empatico, può dare alla costruzione di una
democrazia umanistica e partecipativa, in cui ripercorre le grandi
linee dell’apporto di Gandhi, le sue fonti ispiratrici, il suo
Programma costruttivo. Oggi «non può darsi cultura della democrazia
senza dialogo interculturale» (p. 70). Sorvolo anche sulla parte
relativa agli apporti pratici della filosofia gandhiana al dialogo
tra le civiltà: la sua tempestiva (proprio cento anni fa, in Hind
Swaraj 30)
e preveggente teoria critica della civiltà occidentale, il suo
pensiero sul rapporto diritti-doveri, come sulla libertà e sulla
verità. Per Gandhi «la civiltà va misurata in termini di progresso
morale» (p. 72). Nel quinto capitolo, su secolarismo e
secolarizzazione nel mondo Islamico, l’Autore osserva che i due
esempi principali di secolarizzazione (Turchia di Kemal Atatürk, e
Iran dello scià Reza Pahlevi), adottando il modello francese della
laicité repubblicana, piuttosto monolitico ed esclusivista,
contrario alla religione, invece del modello di secolarismo indiano
(di Gandhi, Nehru, Azad, Ambedkar, Roy, Vivekananda, Aurobindo,
Radhakrishnan), che rispetta e dà pari opportunità a tutte le fedi,
hanno provocato una reazione fondamentalista nell’Islam. Oggi le
società islamiche hanno bisogno di «elaborare un concetto
alternativo di secolarismo (come quello indiano) e non semplicemente
un’alternativa ad esso», che le fa ricadere nel fondamentalismo
(pp. 91-101).31
Segnalo
piuttosto ciò che l’Autore scrive a proposito del mondo musulmano:
molti attivisti e intellettuali musulmani hanno oggi «l’opportunità
di unirsi in un fronte comune, al fine di esplorare alternative
nonviolente alla violenza globale che contrassegna la nostra epoca».
E ciò non solo grazie alla fede, che l’Islam ha in comune con
Gandhi, nella «infallibile assistenza di Dio» a chi lotta per la
giustizia, ma anche perché nella stessa tradizione islamica si
trovano ispirazione ed esperienze storiche di nonviolenza attiva. Qui
Jahanbegloo ricorda di nuovo la lunga profonda azione di Badshah
Khan, che già conosciamo (pp. 49-53). Riprende poi (nel cap. 4, pp.
74-90) la raffigurazione dell’Islam, dopo l’11 settembre 2001,
nei media internazionali, nel concetto che ne ha avuto Bush e in
alcune espressioni di Benedetto XVI, come «una religione della
violenza». Non si tratta di contrapporre un’apologia dell’Islam
come «una religione della pace». Nessuna delle grandi religioni è
immune, nella sua storia, da episodi, anche numerosi, di violenza.
Così è dell’Islam, del quale però abbiamo già ricordato il
“paradigma di Cordoba”, e possiamo ricordare aspetti simili
nell’impero ottomano (p. 79).
È
un fatto, però, scrive Jahanbegloo, che oggi «la civiltà Islamica
sembra aver perduto la bussola». Non ha soltanto dimenticato il suo
antico splendore, ma «ha perso anche la capacità di comprendere le
ragioni e i meriti di un passato così glorioso». Da creatori e
promotori, come furono nella storia, i musulmani si sono ridotti a
consumatori di idee (pp. 79-80). A ciò si aggiunge che «la maggior
parte degli occidentali sa poco o nulla dell’Islam e, pertanto,
formula giudizi e impressioni sulla base delle immagini più
ripugnanti, esotiche e scioccanti che giungono dal mondo musulmano»
(p. 78).
Davvero,
la costruzione di pace tra le civiltà umane vive oggi un momento
difficile. Per questo Jahanbegloo insiste nel denunciare l’ignoranza
che l’Occidente, ma anche l’Islam, ha di quelle componenti, non
solo in tempi storici lontani, ma pure in tempi a noi vicini, di
nonviolenza musulmana, e torna a richiamare, oltre Abdul Ghaffar Khan
(ovvero Badshah Khan), l’ancora meno noto Maulana Abul Kalam Azad.32
Questi
teorizza «l’unicità della religione» e l’accoglienza verso
fedi diverse; dalla misericordia e dal perdono divino (centrali nel
Corano) trae l’esigenza della misericordia e del perdono tra gli
uomini. Egli scrive: «La verità ha molteplici sfaccettature e il
conflitto e l’odio sorgono perché gli individui rivendicano il
monopolio della verità e della virtù». «L’umanità è un unico
popolo e un’unica comunità, esiste un solo Dio per tutti gli
uomini e, per tale ragione, essi devono servirlo assieme e vivere
come membri di un’unica famiglia». Pensieri come questi sono
fondamenti spirituali della concezione e della pratica positivamente
nonviolenta delle relazioni umane. Il presidente indiano Zakir Husain
(1897-1969) così parlò di Maulana Azad: «Il più importante
servizio reso da Maulana è stato insegnare ai popoli di qualsiasi
religione che questa ha due nature. La prima divide e crea odio.
Questa è la natura fasulla. L’altra, il vero spirito della
religione, avvicina i popoli e favorisce la comprensione. Essa
risiede nello spirito di servizio, nel sacrificio di sé al prossimo,
e implica la fede nell’unità, nell’essenziale unità delle
cose». Vi riconosciamo esattamente lo spirito di Gandhi.
Davvero
Maulana Azad e Ghaffar Khan rappresentano, in quanto personaggi
eminenti, la realtà ben più estesa alla base dell’Islam
nonviolento. E tuttavia il mausoleo di Azad, davanti alla moschea
Jama Masjid, a Delhi, è piuttosto dimenticato dai musulmani. «Il
mondo islamico non potrà più partorire nuovi Azad e Ghaffar Khan?».
Intanto, sappiamo di filoni nonviolenti oggi presenti nel mondo
islamico, anche in Iraq.33
Poi, Jahanbegloo vede necessario e possibile che i musulmani
riscoprano «la propria civiltà, affinché possano debellare la
piaga culturale del fondamentalismo e tornino ad essere, in virtù di
un’analisi critica dell’Islam, protagonisti della storia
universale» (pp. 84-88).
È
compatibile il credo islamico con le società multiculturali? Bhikhu
Parekh (v. nota 26) risponde che i musulmani accentuano il
multiculturalismo dove sono minoranza e non lo tollerano dove sono
maggioranza (p. 80). Mi viene facile osservare che esattamente così
si sono comportati in genere i cristiani, specialmente i cattolici,
fino alla importante accettazione della libertà di coscienza nel
Concilio Vaticano II. Perché ciò non potrebbe avvenire nell’Islam,
realtà così complessa ed eterogenea non riducibile ad un’unica
posizione? In realtà, ciò comincia ad avvenire nell’Islam
europeo.34
Ma l’Occidente continua ad ignorare la nonviolenza islamica antica
e recente, e persino la spiritualità della mitezza, centrale nella
corrente mistica del sufismo.
Le
conclusioni del filosofo iraniano su nonviolenza e Islam sono queste:
«Nella lotta nonviolenta i valori musulmani non sono certo assenti».
«La comunità internazionale non può più ignorare che l’Islam
offre realmente una soluzione pacifica alle piaghe della società».
Molti operatori della cultura e della religione islamica dispongono
di valori e modelli pratici per «unire le proprie forze a quelle dei
non musulmani e mettersi alla ricerca di alternative nonviolente alla
conflittualità globale del nostro tempo». I musulmani hanno
bisogno, per affrontare la loro sfida (una sfida che riguarda tutte
le culture), di «considerare l’altro non dalla propria
prospettiva e tradizione religiosa, ma adottando un approccio
interreligioso e interculturale», instaurando così un dialogo con
diverse tradizioni e orizzonti, che nulla toglie alla fedeltà alla
propria tradizione. Su questo banco di prova «la tolleranza e la
nonviolenza dell’Islam vengono sottoposte all’esame dei fatti»
(pp. 89-90).
«Un
Gandhi musulmano è possibile?» si chiede in chiusura Jahanbegloo.
La sua risposta è positiva. Il terrorismo odierno è sprigionato da
una quantità di fattori, ma viene associato quasi solo all’Islam e
ai musulmani. La violenza estrema e inedita dell’11 settembre,
terribile simbolo dell’attacco all’Occidente, vendetta sul suo
dominio, ha provocato la risposta tutta e solo militare degli Usa,
che a sua volta ha alimentato il terrorismo islamico, nell’ideologia
dello “scontro di civiltà”. Con ottica ristretta, non si è
visto altro che violenza nella storia dell’Islam, e si è
dimenticato che nessuna religione, cristianesimo compreso, è immune
da violenza di matrice religiosa. Imparare la storia dell’Islam
nonviolento aiuterebbe l’Occidente a capire e a migliorare il
mondo. L’“esercito” nonviolento di Abdul Ghaffar Khan, si
ispirava direttamente alla religione Islamica. Ghaffar Khan
considerava l’Islam una religione della nonviolenza, al contrario
dei fondamentalisti di oggi. Ma il Pakistan ufficiale ha dimenticato
questo suo Gandhi musulmano, lo ha imprigionato ancora per quindici
anni, sospettato come antislamico dai musulmani ortodossi perché
aperto alle religioni (proprio come Gandhi). Il suo movimento di
elevazione sociale è stato soppresso. Eppure, egli è tuttora una
«importante fonte di ispirazione per tutti i musulmani convinti che
l’Islam sia in grado di sottrarsi alla follia del terrorismo e del
fanatismo» (p. 111).35
Se diciamo che tocca ai giovani musulmani, in ogni parte del mondo,
considerare questa potenzialità di civiltà e di pace propria
dell’Islam, non pretendiamo certo di dare alcuna lezione, ma
affermiamo soltanto quel compito che è di ogni cultura, di ogni
religione, per assicurare un futuro al mondo, e un futuro più
giusto.
Qualcuno potrebbe
giudicare ottimista questo libro di Jahanbegloo su Islam e
nonviolenza. A me pare che non nasconda affatto problemi e
difficoltà. Illudersi è un errore, ma errore pari e contrario è
scoraggiare le speranze e soffocare le possibilità, ignorandole.
Invece di fare soltanto previsioni più scure o più chiare, merita
lavorare e collaborare in modo costruttivo (vedi Scheda 2).
IV – I cristiani e Gandhi
Quale è stata e
quale è l’influenza di Gandhi sui cristiani? È abbastanza
conosciuto e ammirato, ma quanto tra i cristiani è arrivato del suo
stimolo a scoprire e praticare la nonviolenza?
Il più noto
lottatore nonviolento cristiano, Martin Luther King, della chiesa
battista, ne ricevette sicuramente un influsso essenziale, eppure in
forme proprie originali, non imitative. 36
Tento ora una
interpretazione d’insieme, a rischio di sommarietà, della
posizione dei cristiani sulla nonviolenza. Evidentemente, l’argomento
merita una ricerca molto più ampia e approfondita.
*
Mi
sembra che, sulla nonviolenza, i cristiani siano divisi, nel passato
e nel presente, almeno su tre posizioni:
1)
Quelli (ministri nella loro chiesa, oppure laici) che leggono nei
testi sacri e nella tradizione l’immagine di un Dio giustiziere e
punitore, di cui magari pretendono e presumono di attuare essi stessi
il giudizio nella storia, individuando e sradicando l’errore e il
male con ogni mezzo: l’autorità dottrinale, il potere politico e
giudiziario, la diplomazia, la pressione economica, la propaganda e,
se occorre, anche mediante una violenza bellica che ritengono, per
questo motivo, “giustificata” e anche meritoria, osando
addirittura rivestirla di valore messianico. Lo abbiamo visto fino ai
nostri giorni, e non solo nel passato. Il precetto, centrale nel
vangelo, di amare i nemici viene spiritualizzato, relegato nella
morale privata e messo fuori dalla vita pubblica. Ma scrive
Jean-Marie Muller: «Quando la religione ha benedetto la violenza, la
violenza non è diventata sacra, ma la religione è diventata
sacrilega»37.
2)
Quelli che sentono nell’appello evangelico e nello Spirito di
Cristo la chiamata all’amore universale, fino ai nemici, da
realizzare anche nella storia, con la gestione positiva e costruttiva
dei conflitti. Essi sono consapevoli della presenza del male, ma si
impegnano a contrapporvisi non con mezzi uguali o simili, ma con
spirito, mezzi e fini profondamente alternativi e creativi. Questi
cristiani ricevono da Gandhi uno stimolo a riscoprire la nonviolenza
evangelica sentita dai cristiani delle origini, poi accantonata dopo
il compromesso costantiniano con l’impero.
3)
Quelli che rimangono incerti, e sono la massima parte dei cristiani:
da una parte non approvano la violenza, la condannano in linea di
principio; approvano e sostengono l’azione mite e giusta; ma,
dall’altra parte, poiché, per la loro sensibilità religiosa e
morale, hanno una consapevolezza dolorosa del male del mondo e lo
condannano, si rassegnano ad accettare che, nei conflitti acuti,
siano inevitabili mezzi violenti per opporsi ad azioni violente, e
che ciò possa e debba essere tristemente giustificato, tollerato, a
causa dell’imperfezione del mondo, come inevitabile e necessario.
Forse è qui il maggiore problema nel rapporto tra cristiani e
nonviolenza. A me pare di vedervi una debolezza di giudizio e di
azione, causata dal turbamento del male, affrontato con una
tiepidezza di spirito, né caldo (appassionato, innovatore) né
freddo (cinico, disperato)38.
In realtà, davanti allo scandalo doloroso del male, la reazione
forte e positiva è proprio quella che troviamo nei maestri della
nonviolenza attiva, Gandhi, King, Capitini: né ottimismo ingenuo,
né, tanto meno, rassegnazione, e neppure imitazione dei mezzi per
opporvisi, ma costruttiva indignazione sofferta, che, come è stato
detto del grande spirito di Etty Hillesum, «trasforma il dolore in
forza»39.
«La nonviolenza non è in Capitini uno sguardo che forza la realtà
ad essere buona, ma è la forza con cui il dolore del mondo viene
attraversato senza essere razionalizzato, per scoprire che proprio
l’impossibilità di spiegarlo ci dice che altrove sono le parole
con cui rintracciare la nostra origine»40.
I
cristiani del secondo tipo (se vale un poco questo schema), cioè i
cristiani persuasi e impegnati nella nonviolenza attiva, che scelgono
i metodi di lotta politica nonviolenta, fanno questa scelta per
ragioni razionali e morali, per una più effettiva e reale giustizia
nei rapporti umani, per non collaborare ma ridurre la mole di
sofferenza che i metodi violenti scaricano addosso all’umanità più
povera. Ma fanno questa scelta anche per ragioni precisamente
cristiane, derivanti dalla fede cristiana. Ha detto bene Enzo
Bianchi: «Oggi più che mai la chiesa gioca la sua fedeltà al
Signore e misura la capacità di testimoniare l’Evangelo e di
rispondere ai drammi della storia nella compagnia degli uomini,
proprio sulla dottrina e sulla prassi della pace. Questo significa
che la pace è dono di Dio e compito profetico dei cristiani nello
stesso tempo»41.
Queste ragioni di fede animano in modo laico la prassi nonviolenta,
che dunque i cristiani possono condividere con chiunque ne è
persuaso senza che condivida la loro fede.
*
È
stato
individuato un cammino della chiesa dal neutralismo alla nonviolenza.
Alberto
Melloni, storico del cristianesimo contemporaneo, della scuola
bolognese di Giuseppe Dossetti, ha posto la questione della pace –
di «una sintesi sulla pace» - nella lista d’attesa di un futuro
concilio.
42
Egli osserva che, nel Novecento, i papi e i cattolici hanno compiuto
alcuni passi: sono passati dal neutralismo, che non metteva in
discussione la teoria della guerra giusta, alla mediazione (risultata
fallimentare), ad una lettura teologica e profetica della pace.
Questo terzo passo lo ha compiuto papa Giovanni XXIII nella enciclica
Pacem
in terris,
1963, con una posizione più chiara di quella espressa dal Concilio
Vaticano II. 43
Un ulteriore passo, che in realtà è ancora in via di compimento,
sarebbe la «irruzione della nonviolenza come chiave di soluzione
adottata a livello di massa dai cattolici e non solo da loro» (e qui
Melloni cita M. L. King e Desmond Tutu). Sulle “nuove guerre” a
cavallo del cambio di millennio, papa Wojtyla (Giovanni Paolo II) e
molti capi di chiese hanno dimostrato che «l’impegno cristiano per
“sfilare” dai contrasti militari ogni motivazione religiosa è
stato inflessibile». Io aggiungerei che, pur in questo innegabile
forte impegno, ci sono state delle oscillazioni, almeno nel papa e in
alcune posizioni cattoliche, nel togliere ogni giustificazione alla
guerra. 44
Melloni osserva che la chiesa (cattolica, ma anche altre chiese) ha
resistito bene al «tentativo osceno» di «usarla come collante di
un’identità occidentale»: fino dal 1986, con la preghiera
interreligiosa di Assisi, ha prevenuto la guerra di religione e di
civiltà contro l’Islam. Scrive Melloni: «Se oggi la civiltà
occidentale non è disposta a entrare nella spirale suicidaria della
sicurezza a costo della vita, se non è disposta al sacrificio delle
proprie libertà in cambio di una pace che non c’è, lo deve anche
alla chiesa». Il cristianesimo «ha già salvato l’Occidente» col
suo «essere più mediterraneo e più mondiale di ogni altro segmento
della cultura». Per dimostrarsi oggi non solo pacifica e pacifista,
ma anche nonviolenta, la chiesa cattolica – continua Melloni –
dovrebbe non solo chiedere perdono (come fece col mea
culpa
di papa Wojtyla nella quaresima del 2000, anno giubilare, per le
colpe di «taluni figli della chiesa»), ma dovrebbe concedere
perdono: «A chi guardi e viva la vita cristiana oggi sembra evidente
che la chiesa non perdona». Da qui Melloni trae il titolo del suo
libro: chiesa madre e matrigna. «In una chiesa senza perdono
l’immagine di Gesù tende necessariamente a scivolare in una
caricatura dolorista, a puntellarsi col senso del magico». «Il Gesù
del Vangelo (…) è un Gesù che perdona. Perdona e cammina».45
Ora, lo spirito di perdono, certo non semplicista e sottomesso,
significa, nei conflitti tra gruppi umani, la lotta nonviolenta, che
cerca tanto la giustizia quanto la riconciliazione con l’avversario.
Nella
misura in cui le chiese cristiane, nel loro cuore, stanno
effettivamente compiendo un simile cammino, lo devono certamente alla
memoria evangelica che è la loro sostanza, e ai movimenti che la
vanno riscoprendo, nonostante tutti i limiti, ma lo devono anche allo
stimolo e all’esempio alto che, nel pieno del Novecento
insanguinato, Gandhi ha dato loro con la sua «forza
di amare».
****************
Scheda 1
Impossibile
la guerra “civilizzata”
C’è
sempre chi dice che la nonviolenza gandhiana ebbe gioco facile con
gli inglesi che sono dei gentiluomini, ma non può funzionare in
altri conflitti. Oltre gli esempi già riferiti, ricordo l’esempio
che mi ha colpito nel libro di Easwaran, Badshah
Khan il Gandhi musulmano
(nell'edizione italiana, Sonda, Torino, 1990, a pp. 14-15): con i
pathan "selvaggi" gli inglesi ritenevano impossibile la
"guerra civilizzata" e necessaria la punizione collettiva
dei civili; il bombardamento aereo di obiettivi civili fu praticato
dagli inglesi, ben prima dei tedeschi a Guernica, su Kabul e Jalabad
nel 1919 dalla Royal Air Force (L. Dupree, Afghanistan,
Princeton University Press, Princeton 1980, p. 442), e su villaggi
della Frontiera (O. Caroe, The
Pathans: 550 B.C. - 1957 A.D.,
St Martin's Press, New York, 1958, p. 408; Caroe fu l'ultimo
governatore della Frontiera prima dell'indipendenza e scrive dei
pathan con comprensione, rispetto e affetto; il suo libro è il più
completo sui pathan, benché filobritannico).
Alla
conferenza sul disarmo aereo, Ginevra 1933, non la Germania ma la
Gran Bretagna si oppose alla proposta di bando del bombardamento
aereo su civili !!
Si veda anche, in questo blog, la recebsione del libro di Drewermann .
************
Scheda
2
Tra
le molte (sempre insufficienti) indicazioni su Islam e nonviolenza,
segnalo:
-
dal mio libro La
politica è pace,
Cittadella, Assisi 1998, le pagine 124-135 (Islam
e pace; Studi
su Islam e nonviolenza;
Uomini di pace
nell’Islam) con i
relativi rinvii, che oggi sono da aggiornare.
-
gli atti ancora inediti di un convegno su “Islam,
violenza, nonviolenza”,
del Centro Studi Sereno Regis, di Torino (www.serenoregis.org),
dell’11 novembre 2000.
-
alcune voci della bibliografia storica Difesa
senza guerra,
reperibile in rete.
-
il libro di Chaiwat Satha-Anand, Islam
e nonviolenza, Ed.
Gruppo Abele 1997. L'autore,
studioso thailandese, musulmano, in questo libro sostiene la speciale
attitudine della cultura Islamica all'azione nonviolenta (nonostante
i fenomeni contrari, vistosi ma limitati); inoltre, narra ed analizza
(pp. 24-31) un'azione nonviolenta nel Pattani (Thailandia) nel 1975.
- Mahmoud Mohamed Taha (1909 o
1911-1985), Il
secondo messaggio dell'Islam,
Emi, Bologna 2002. Taha, detto “il Gandhi del Sudan”,
imprigionato dagli inglesi, fu condannato e impiccato come eccessivo
riformatore dell’Islam. Il nuovo messaggio è per lui quello della
prima fase del Profeta, alla Mecca, libero dalle compromissioni con
le esigenze politiche del periodo di Medina, perciò più spirituale
e teso alla pace del musulmano «con sé stesso, con il suo Signore,
con ogni essere e ogni cosa».
- Nella citata bibliografia in
rete si trovano indicazioni sulla resistenza nonviolenta al dominio
serbo, da parte della popolazione albanese del Kossovo, prima della
sciagurata guerra del 1999, popolazione in gran parte musulmana. Così
sulla resistenza civile della popolazione al terrorismo Islamista in
Algeria. Sulla lotta nonviolenta palestinese, certo parallela a forme
violente, sono ormai reperibili molte informazioni, da Mubarak Awad,
al caso tipico del villaggio di Bil’in, alle associazioni
familiari miste palestinesi-isaraeliane, in particolare Parent’s
Circle (di genitori di vittime in entrambi i popoli).
***
***
NOTE
1
Gandhi in From
Yeravda Mandir,
Ahmedabad 1935, p. 55, citato da Pontara in Il
pensiero etico politico di Gandhi,
saggio introduttivo a Gandhi, Teoria
e pratica della nonviolenza, Einaudi
1996, p. CXLI (in una traduzione modificata rispetto a Gandhi, La
forza della verità,
Sonda 1991, vol. I, p. 480). Avverto qui che preferisco scrivere
“nonviolenza” in parola unica, anche correggendo la grafia di
titoli e testi citati, per seguire l’insegnamento di Capitini,
ormai accolto largamente, almeno in lingua italiana, che vuole
evidenziare il senso positivo del concetto, sebbene includente il
rifiuto della violenza.
2
Mi permetto di indicare, come spunti da rielaborare, Dieci
tesi su religioni, violenza, nonviolenza,
che ho pubblicato in Quaderni
Satyagraha, n. 3,
giugno 2003, pp. 93-96. Indico anche Quaderni
Satyagraha n. 12,
luglio 2007 “L’11 settembre di Gandhi”.
3
Di Galtung indico soprattutto Pace
con mezzi pacifici,
Esperia 2000; di Jahanbegloo, filosofo iraniano docente in Canada,
abbiamo in italiano Leggere
Gandhi a Teheran,
Marsilio 2008. Di questo Autore, sul punto delle forme rigide o
morbide di religioni, si veda p. 76
4
Gandhi,
Young
India,
23 settembre 1926, in Search
of the Supreme,
Ahmedabad 1931, vol. III,
p. 39, citato da Pontara, Il
pensiero etico politico di Gandhi,
cit., p. CXLII.
5
Gandhi, La
forza della verità,
cit., vol. I, p. 479, citato da Pontara, Il
pensiero etico politico di Gandhi,
cit., p. CXLII.
6
Cfr i miei
articoli I discepoli
di Cristo si fanno carico del mondo,
in Servitium,
n. 121, su La
tolleranza,
gennaio febbraio
1999, pp. 61-72 e Tollerare,
cioè farsi carico,
in Esodo,
Anno XXI, n. 1, gennaio-marzo 1999, pp. 6-11.
7
Gandhi, Teoria
e pratica della nonviolenza,
cit., p. 189-190.
8
Ivi, p. 194.
9
Cfr Balducci,
Gandhi,
Ediz. Cultura della Pace 1988, pp. 22-23.
10
Gandhi, Teoria e
pratica della nonviolenza,
cit., p. 193.
11
Ivi, p. 192.
Rilevo in queste parole un’assonanza evangelica: «Nessuno ha un
amore più grande di questo: dare la vita per gli amici» (vangelo
secondo Giovanni 15,13)
12
Ivi, p. 187.
13
Cfr Pontara, Il
pensiero etico politico di Gandhi,
cit., p. CXLII-CXLIII. Si vedano in Balducci, Gandhi,
cit., pp. 17-23, fonti e significati di questa posizione gandhiana
sulle religioni.
14
Gandhi, La forza
della verità,
cit., vol. I, p. 479-480.
15
Pontara, Il pensiero
etico politico di Gandhi,
cit., p. CXLIII.
16
Ivi.
17
Balducci, Gandhi,
cit., p. 5.
18
Si veda Gandhi,
La forza della
verità, cit. , pp.
501-523.
19
In Harijan,
23 marzo 1940, citato da Pontara in Il
pensiero etico politico di Gandhi,
cit., p. CXL.
20
Gandhi, Teoria e
pratica della nonviolenza,
cit., p. 31.
21
Young India,
15 novembre 1931; cfr Giuliano Pontara, La
personalità nonviolenta,
Ed. Gruppo Abele, 1996, p. 60.
22
Eknath Easwaran,
Badshah Khan, il
Gandhi musulmano
(traduzione di Lorenzo Armando, Ed. Sonda, Torino 1990 (originale
1984), pp. 250). È
uscita presso lo
stesso editore una seconda edizione di questo libro, nel 2008, di pp.
213, con prefazione di Elvio Arancio e Luisa Mondo (in cui si
ritrovano tratti del presente testo, finora inedito, circolato
nell’ambiente nonviolento, ora da me rivisto e aggiornato in questo
articolo) e una postfazione di Nanni Salio.
23
Ramin
Jahanbegloo, Leggere
Gandhi a Teheran,
Marsilio 2008, pp. 111.
24
Gandhi, Antiche
come le montagne,
Ed. Comunità, Milano 1965, p. 168; citato da Jean-Marie Muller, Il
principio nonviolenza. Una filosofia della pace,
Pisa University Press 2004, p. 271.
25
Jahanbegloo è
studioso di Isaiah Berlin, sul quale ha pubblicato Conversations
With Isaiah Berlin
nel 1992 (vedi anche La Stampa, 30 gennaio 2009, p. 37). In Iran è
stato in prigione cinque mesi nel 2006, oggi lavora in Canada alla
Toronto University.
26
Thich Nhat Hanh,
monaco vietnamita, maestro zen,
nel libro Nel
rifugio della mente. La risposta zen al terrorismo,
Mondadori, Milano 2007, include l’intervista immaginaria Che
cosa direi a Osama Bin Laden,
(diffusa in rete nel sito
http://www.esserepace.org/traduzioni.html#),
segnalata da Nanni Salio nell’intervento Nonviolenza
versus terrorismi
(in: L’11
settembre di Gandhi. La luce sconfigge la tenebra,
in Quaderni
Satyagraha,
LEF, Firenze 2007, pp. 87-98). Un altro testo anch’esso
immaginario Bin
Laden incontra Gandhi,
di Bhikhu Parekh, un grande studioso indiano del pensiero gandhiano,
è nello stesso numero di Quaderni
Satyagraha,
pp.77-85).
27
Il volume di
Francisco A. Muñoz, Mario Lòpez Martìnez (eds.), Historia
de la Paz. Tiempos, espacios y actores,
Instituto de la Paz y los Conflictos, Editorial Universidad de
Granada, 2000, è un lavoro pionieristico nella costruzione di una
specifica storia della pace, che percorre, attraverso i tempi e le
culture umane, soprattutto le idee, situazioni, strutture,
protagonisti di relazioni pacifiche tra differenti popoli e civiltà.
Il capitolo 6 è dedicato a Convivencia
de cristianos y musulmanes en la Frontera de Granata
(pp. 189-228). Nonostante il materiale già raccolto qui, i curatori
avvertono che gli archivi spagnoli hanno ancora documenti da
esplorare su quel periodo, trascurato dagli storici. Mi permetto un
aneddoto: anni fa, in un convegno sulla pace in un paese maghrebino,
sentendo parlare sia l’arabo sia lo spagnolo andaluso, notai
somiglianze di pronuncia di alcune lettere. Lo dissi ad un
convegnista di Granada, che mi rispose: «Ochocientos años
conviviendo, somos arabos!».
28
Vedi specialmente
Raimon Panikkar, La
torre di Babele. Pace e pluralismo,
Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1990; Pace
e disarmo culturale,
Rizzoli, Milano 2003.
29
Antonio Bello,
Scritti di pace,
Tipografia Mezzina, Molfetta 1997, passim.
30
L’opuscolo
gandhiano, del 1909, tradotto nelle edizioni del Movimento
Nonviolento nel 1984, col titolo Civiltà
occidentale e rinascita dell’India,
sta per essere ripubblicato da Gandhiedizioni, di Pisa:
www.ganchiedizioni.com
. Su questo scritto di Gandhi si è svolto, nei primi mesi di
quest’anno, un seminario nel Centro Studi Sereno Regis di Torino,
www.serenoregis.org
31
Osservo
a questo punto, a proposito dell’Iran, che è la patria di
Jahanbegloo, che egli non cita, come esempio di nonviolenza Islamica,
la rivoluzione popolare che scacciò lo scià nel 1979. Su questa
rivoluzione nonviolenta, posso segnalare: - Il n. 22 della collana
Quaderni della DPN, col titolo Resistenze
civili: le lezioni della storia
(ed. La Meridiana, Molfetta 1993, pp. 163) è la traduzione della
seconda edizione 1989 di Les
leçons de l'histoire. Résistances civiles et défense populaire
non-violente,
in Les dossiers
de Non-violence Politique,
n. 2, che illustra ampiamente numerosi casi storici di lotte
nonviolente, tra cui anche Iran 1978-79. La traduzione italiana
purtroppo esclude anche le tre ampie pagine 81-83 della rivista
francese che descrivono il sollevamento popolare in Iran 1978-1979,
il quale, opponendosi senz'armi all'esercito (in quel tempo il quinto
al mondo per potenza) per lunghi mesi, portò infine alla cacciata
dello Scià senza compiere alcuna violenza, sebbene col sacrificio di
centinaia di vittime della repressione. Solo dopo il ritorno
dell'ayatollah Khomeiny dall'esilio in Francia ci furono violenze
civili e statali.
- David Morrison, Philip
Taylor, Shastri Ramachandaran, Media,
guerre e pace, Ed
Gruppo Abele, Torino 1996. Nella seconda parte del libro (I
mezzi di comunicazione come risorsa per la pace),
Ramachandaran, nel paragrafo I
mezzi di comunicazione dei popoli
(pp. 132-146), esamina in breve, sotto questo specifico aspetto, il
caso Iran 1979, insieme a vari altri casi storici. Sull'Iran,
l'Autore scrive: «La più sorprendente rivoluzione basata sui mezzi
di comunicazione del popolo – la cosiddetta "stampa di bazar"
- per ironia qualificata "anti-moderna” è l' esperienza
iraniana» (pp. 138-139).
- Mouna Naïm, La
fuite du chah d'Iran,
su Le Monde,
18 gennaio 1999, e col titolo Vent'anni
dopo, su
Internazionale,
19 febbraio 1999.
- Sulla vicenda iraniana ha
scritto anche Ryszard Kapuściński, Shah-in-shah,
Feltrinelli 2001. Questo autore polacco, dalle ampie intelligenti
conoscenze e prospettive sulla pluralità delle civiltà umane, parla
della rivoluzione nonviolenta iraniana anche in L’altro
(Feltrinelli 2007,
pp. 49-50). Unico scrittore occidentale presente a Teheran in quei
giorni, era sorpreso dalla disattenzione di tutti gli altri per quel
fenomeno.
32
Maulana Abul
Kalam Muhiyuddin Ahmed (1888 - 1958) fu uno studioso musulmano e un
importante leader politico del movimento di indipendenza indiano,
sostenitore dell’unità tra indù e musulmani, contro la divisione
dell’India. Collaborò
con Gandhi, anche nella Marcia del sale, e presiedette una sessione
del Compresso.
Dopo l'indipendenza,
divenne ministro della pubblica istruzione del governo indiano.
Egli è comunemente
ricordato come Maulana Azad, aveva adottato Azad (libero), come nome
di scrittore.
33
Vedi la relazione
di Martina Pignatti, del 14 gennaio 2009, nel Centro Studi Sereno
Regis, di Torino, nel sito:
http://admin.peacelink.it/articles/article.php?w=articles&id=28918&p=1
34
Cfr Tariq
Ramadan, Islam e
libertà, Einaudi
2008 e tanta altra letteratura simile.
35
L’ambasciatore Roberto Toscano, nella prefazione al libro di
Jahanbegloo, ricorda che nel febbraio 2008 un partito democratico e
nonviolento ha avuto una schiacciante vittoria elettorale sul partito
fondamentalista, nel nord-ovest del Pakistan. Leader del partito
affermatosi è un nipote di Abdul Ghaffar Khan (p. 13).
36
Ne ho scritto in
Martin Luther King e
Gandhi, intervento
nelle iniziative delle Chiese Battiste in Piemonte per il 40°
anniversario della morte di Martin Luther King, Torino, 11 aprile
2008, ora nel sito
http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti
37
Jean-Marie
Muller, Il principio
nonviolenza. Una filosofia della pace,
prefazione di Roberto Mancini, traduzione di Enrico Peyretti; Pisa
University Press, 2004, p. 170.
38
Cfr Apocalisse 3,
15-16.
39
Nadia Neri,
Un’estrema
compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del lager,
Edizioni Bruno Mondadori, Milano, 1999, pp. 5, 124, 142 e passim.
40
Federica Curzi,
Vivere la
nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini,
Cittadella editrice, Assisi, 2004, pp. 9-10.
41
Enzo Bianchi, in
AA. VV. La pace,
dono e profezia,
Edizioni Qiqaion, Magnano, 1991, p. 5.
42Alberto
Melloni, Chiesa
madre, chiesa matrigna. Un discorso storico sul cristianesimo che
cambia, Einaudi,
Torino, 2004
43
Concilio Vaticano II, 1962-1965, Costituzione Pastorale La
Chiesa nel mondo contemporaneo,
Parte II, cap. V, nn. 77-90.
44
Si vedano: Giuseppe Mattai, Bruno Marra, Dalla
guerra all’ingerenza umanitaria,
Sei, Torino, 1994; Massimo Toschi, L’angelo
della pace. Il Vangelo nel tempo della guerra,
Quaderni di Missione
oggi,
info@saveriani.bs.it (articoli dal 1993 al 2002).
45
Le citazioni dal libro indicato di Melloni sono tratte dalle pagine
135 (le prime due), 137, 139, 140, 141, 143.
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