1
Perché
non posso farti del male?
Dialogo interiore
Enrico
Peyretti
22 112 battute
(La
prima parte pubblicata in il
foglio
n. 401, aprile 2013 ; www.ilfoglio.info
)
(la seconda sul 402, la terza sul 403)
«Cercavo
una risposta al mio interrogativo. Ma la risposta al mio
interrogativo non poteva darmela il pensiero: esso è
incommensurabile all'interrogativo. La risposta me l'ha data la vita,
nella mia nozione di ciò che è bene e ciò che è male. Ma la
nozione di ciò non l'ho acquisita con nulla, essa mi è stata data
insieme a tutti gli altri, data,
perché io non potevo prenderla da nessun posto»
(Lev
Tolstòj, Anna Karènina, parte VIII, cap. XII)
(p.
803 ed. Garzanti 1985, vol. II)
1-
Perché non posso fare qualcosa che per te è un dispiacere, un
danno, un male?
2-
Ma è perché mi sei amico, mi vuoi bene.
1-
D'accordo, ovvio. Ma se tu fossi per me uno sconosciuto, un estraneo,
perché non potrei fare un'azione che per me è un vantaggio e per te
è un male? Lasciamo da parte i casi estremi, di necessità, di
impossibilità: siamo due naufraghi, c'è una sola tavola, l'afferro
io prima di te, io mi salvo, tu no. Siamo in un locale incendiato: io
arrivo all'uscita prima di te, perché cammino meglio, non torno
indietro ad aiutarti, mi salvo io e tu no. In questi casi non voglio
farti del male, soltanto non sono abbastanza coraggioso, eroico,
salvando me non voglio la tua rovina. Ma la domanda è un'altra: se
posso fare una cosa per me utile, vantaggiosa, piacevole, o anche
banale, indifferente, ma per te dannosa e dolorosa, perché non posso
farla? Niente mi lega a te se non la comune vita umana, un legame
molto molto largo, a volte insensibile. Perché non posso farla?
2-
Ma perché ci sono delle leggi, c'è un'etica civile.
1-
Certo, ma supponiamo che io riesca a non essere scoperto e punito,
supponiamo che io dica alla mia coscienza: “è un bene per me, io
posso, e basta”.
2-
Se sei religioso, credente, sai che Dio ti vede, e prima o poi ti
chiede conto del male che fai.
1-
Va bene, siamo intesi, ma supponiamo che io non creda in alcun essere
più grande e giusto di noi. Non c'è un giudice, né umano né
divino, delle mie azioni. Le decido solo io. Ora, in quello che
faccio c'è un bene mio con l'effetto diretto di un male tuo. E non
un effetto involontario: il mio bene è frutto del tuo male. Noi due
pensiamo entrambi che non posso farlo. Ma perché? Per quale ragione?
2-
Perché, a parte le leggi, la religione, la morale, abbiamo fatto un
patto, almeno implicito, di convivenza umana, di non danneggiarci a
vicenda, almeno nelle cose più importanti e gravi.
1-
Infatti, c'è questo patto implicito, anche con lo sconosciuto, lo
straniero, l'estraneo. «Pacta
sunt servanda»: bisogna rispettare i patti. Bene. Ma se io ritengo
che, per un mio vantaggio, posso violare i patti, anche se ciò porta
direttamente a te un danno considerevole, e io non rischio nessuna
sanzione, perché non posso farlo? Guarda, non parliamo di bazzecole,
p. es. attraversare col rosso quando non arriva assolutamente
nessuno: violo una regola, ma non faccio male a nessuno. Parlo invece
di cose grosse, gravi. Perché non posso? Perché?
2-
Forse perché il male che fai a me è anche, in qualche modo seppure
invisibile un male che viene anche a te, su di te.
1-
Sì, questo è il principio che il pensiero morale, praticamente in
tutte le civiltà umane, ha formulato nella “regola d'oro”, o
anche ha espresso nel detto che “siamo nati gli uni per gli altri”,
“siamo membra gli uni degli altri”. Ma se io decido di superare
questa regola per una mia utilità, e ti faccio un male, perché non
posso? Perché, se io posso farlo fisicamente, non accettiamo che
possa farlo anche moralmente? Perché non accettiamo che quel
principio di reciprocità sia superabile dalla mia volontà? Perché
non accettiamo che quel che posso fisicamente, e mi serve, io lo
faccio e basta? Accettiamo forse che non c'è un problema morale?
Perché invece sentiamo o diciamo che c'è un limite alla mia
volontà? Ma c'è davvero questo limite?
2-
Lo mettiamo noi, questo limite, anche se non sempre lo rispettiamo,
per poter vivere un po' meglio, con più tranquillità, minor
pericolo e paura, in pace con gli altri umani, e chiamiamo umanità
questo limite e direzione delle nostre azioni.
1-
Va bene, ma così non usciamo dal problema. Se io voglio rischiare
sfidando questo equilibrio, se voglio prendere una utilità per me
anche togliendo ad altri, a te, e se ci riesco, posso o non posso? Il
problema è questo: posso di fatto, perché sono forte e impunibile;
ma posso anche moralmente? Che cosa è la morale? È una regola
pratica, di prudenza, come il semaforo, che posso superare quando non
fa male a nessuno? Oppure è una regola che mi ferma, mi chiede di
fermarmi, quando faccio male a qualcuno? Ma ha un fondamento questa
regola? Ha una ragione? Ha un valore? Ha una permanenza? Oppure si
può spegnere o ignorare come il semaforo? Perché non posso farti
del male, quando potrei? La regola di rispettarti, se non me la
impongo da me stesso, per mia sola volontà, non esiste?
2-
Non lo so. Cerchiamolo insieme.
1-
Dunque, non può essere Dio perché non siamo tutti convinti che
esista, che ci veda e ci giudichi, ci guidi. Può esserlo per i
credenti, ma non può essere la regola comune: io posso dire che per
me non esiste. Non può essere la legge posta dall'autorità nella
società, perché posso eluderla. Né Dio né la legge mi fermano, se
sono forte, se posso. Non può essere la regola della reciprocità,
dell'uguaglianza di valore, perché se io non do all'altro il valore
che do a me, posso fare di lui ciò che mi pare, ciò che mi serve.
Può essere forse solo il bisogno che io ho degli altri, prima o poi,
dunque la convenienza a non offenderli affinché non mi offendano.
2-
Questa è già una regola pratica. Ma vale solo relativamente. Se io
sono davvero forte e impunibile, e posso anche imporre agli altri ciò
che voglio che facciano per me, io non devo nulla a loro.
1-
Però questa è una situazione astratta, perché anche il tiranno
dorme, e ha bisogno della protezione di guardie fedeli, obbedienti e
servili, per essere davvero forte. La sua forza non è tutta sua, ha
bisogno degli altri. Anche il violento è vulnerabile. Vedi nella
storia la fine di tanti tiranni. Ma vedi anche quanti di loro hanno
regnato e sono morti ricchi e sicuri nel loro letto. Eppure, parlando
in generale, vediamo che l'unica regola pratica che resiste alle
obiezioni è questo bisogno che ognuno ha degli altri. Una regola
molto debole, però, perché lascia molto spazio al prepotente
violento. Avendo come regola principe la propria volontà, e non la
convenienza comune, il violento può fare all'altro il male che gli
fa comodo. La regola della violenza, nonostante le sue falle che
abbiamo visto, permette di fare il male, lascia tutti gli altri
esposti al male. La regola della reciproca convenienza non regge
davanti al violento fornito di forza.
2-
Ci vuole un principio superiore alla forza usata come violenza.
1-
E quale principio, se non basta Dio, non basta la legge, quasi non
basta neppure la convenienza? Chiediamoci che cosa è un principio.
2-
Direi che è qualcosa che ci precede: un inizio, e noi sappiamo di
non essere l'inizio, ma iniziati, derivati, nati da altri,
fisicamente e culturalmente. Un principio è qualcosa che non è
derivato da una dimostrazione, da un ragionamento, e semmai imposta
un ragionamento. Un principio è qualcosa che non pongo io, perché
allora sarebbe un prodotto nostro: nel caso, sarebbe quella
convenzione, alleanza, che abbiamo visto non garantisce appieno dalla
forza prepotente.
1-
E cosa può essere quel principio? Dio non basta, perché non è
principio riconosciuto da tutti. Non basta la legge, perché si può
eluderla. Neppure la convenienza, che è semmai un derivato, non un
principio: siamo qui, vogliamo vivere, mettiamoci d'accordo su quel
che ci conviene, riconosciamolo insieme, dunque non facciamoci del
male. Ma poi, nel caso, la mia convenienza può essere nel danno tuo.
La convenienza è ballerina. Sì, ci vuole un “principio”, un
dato precedente alle nostre volontà, buone o cattive, egoiste o
altruiste, moderate dalla convenienza o scatenate dall'interesse.
2-
E cosa c'è di precedente? Andiamo nella metafisica? Siamo creati,
nel senso che siamo fatti in quel modo, da cui non si esce, che un
dio ha voluto e stabilito per noi?
2
- Prima di ogni accordo, siamo degni
1-
Nel recensire il mio libretto Il
bene della pace
(apparso in una collana di etica della editrice Cittadella)
Massimiliano Fortuna, amico severo, scrive che io riterrei la
verità (qui si tratta della verità morale) una “scoperta”,
quindi data nella realtà esterna all’essere umano, e non una
“costruzione”, dunque fondata su delle convenzioni, interna al
linguaggio e alle culture degli uomini, come ritengono vari filosofi
oggi. In quel libretto io sarei convinto dell’esistenza di «valori
inscritti, per così dire, nella natura, che rappresentano dei binari
imboccando i quali l’umanità si muove in direzione di un
progressivo aumento del bene della pace nella storia». Così
sottovaluterei «la storicità delle culture umane» e adopererei «in
termini assoluti, e dunque astorici, un concetto come “coscienza”».
Abbiamo ripreso in altri momenti una riflessione non così rigida
sulla “natura umana”, anche a proposito del linguaggio e del
significato della Pacem
in terris.
2-
Dobbiamo proprio opporre così tanto natura stabile e convenzione
storica?
1-
Merita pensarci un po' di più. La pura convenzione, se non sbaglio,
non difende dal male che possiamo farci. Infatti, leggi, diritto
umanitario, accordi internazionali, non evitano del tutto
delinquenza, corruzione, violenza, guerre, perciò dolori tanti e
vari. Rafforziamo la cultura della parità di valore, il valore delle
convenzioni, e certamente sarà un bene per la buona convivenza. Ma
l'obiezione, anche filosofica, non è superata: perché, potendo, non
posso violare l'accordo? Se non devo rispondere ad altri, ad un
“principio” che non pongo io, ma solo a me stesso, perché non
potrei? Hans Küng,
citato in quel libretto (p. 37), scrive: «Perché
un delinquente (nel caso che non corra alcun rischio) non deve
uccidere i suoi ostaggi? Perché un dittatore non deve fare violenza
a un popolo? Perché un gruppo economico non deve sfruttare il
proprio paese?». È la stessa nostra domanda.
Küng
risponde: «L'incondizionatezza
del dovere non può essere giustificata dall'uomo, in molti modi
condizionato, ma soltanto da qualcosa di incondizionato».
2-
Allora, dobbiamo ricorrere ad un concetto di natura umana fissa, non
evolutiva? Alla volontà di Dio? Ad un principio categorico della
ragione? Solo un'idea metafisico-religiosa della nostra umanità ci
può salvare dalla nostra disumanità?
1-
Non so. Vedo però che, per esempio, nel linguaggio di Giovanni XXIII
nella Pacem
in terris,
il riferimento alla natura umana («un
ordine voluto da Dio»),
ben più che un'affermazione teorica anti-evoluzionismo, è un
appello a ciò che accomuna gli esseri umani. Così si può
interpretare, al di là del linguaggio: vuol dire l'unità umana,
fondamento necessario della pace. Ha una funzione analoga al
convenzionalismo, ma più forte, più impegnativa, più rassicurante
contro violenze e guerre: siamo tutti esseri umani, tutti
uguali per dignità naturale. Questo concetto di dignità è molto
ricco: non è un puro dato di fatto, non è una convenzione, ma una
dinamica, un movimento; è un obiettivo che ha una vera base di
realtà eppure va continuamente cercato e raggiunto. Essere degni
implica sia un fatto reale, sia un diritto da realizzare. È un
concetto e un linguaggio dinamico, evolutivo. La dignità si ha già,
e non si ha ancora nei fatti se non viene onorata. Eppure, se viene
offesa, non è distrutta, permane al di là dell'offesa. Tu sei degno
del mio rispetto, ma se ti offendo, sei degno come prima. La dignità
è una inviolabilità morale, anche nell'ucciso. La violenza è
inutile contro la dignità.
2-
Vedo che, nella sua recensione, Massimiliano Fortuna cita (per
tenere aperto il dibattito) Telmo
Pievani per il quale la specie umana è un frammento di natura che
all’interno dell’evoluzione ha elaborato, o meglio sta provando a
elaborare, un esperimento di fratellanza democratica e di giustizia
sociale, del quale non trova una matrice preformata in una “natura”
originaria che lo precede. Secondo Pievani «autentico è l’uomo
che in questa condizione di consapevolezza [la radicale contingenza
della nostra presenza] vive per la giustizia, per l’uguaglianza nei
diritti, per il bene e la solidarietà, e proprio nel fare
unilateralmente questa scelta rinuncia all’idea che l’essere
naturale presupponga in quanto tale l’etica». Dunque l'etica è
tutta costruita, non trovata.
1-
È
bene che il ventaglio del dibattito sia aperto, e muova l'aria a
tutti i venti, sicché ognuno possa trovare quello che lo fa meglio
respirare. E possa anche proporlo agli altri, se convince, se (più
mitemente) persuade. Proporre, in libertà di pensiero, non è
predicare dall'alto, anche se Massimiliano Fortuna ritiene di trovare
nel libretto recensito un tono «parenetico
e omiletico, vale a dire di esortazione alla rettitudine e di
ammonimento morale».
Ora, se in un pensiero come quello di Pievani «l'essere
umano naturale non presuppone l'etica»,
cioè se l'uomo vivente non riconosce un principio di dovere e
non-dovere, a lui precedente, da seguire, realizzare, e anche
affinare, correggere, sviluppare (l'etica di Aristotele è stata
corretta senza rinnegarne il nocciolo), e se l'etica invece è tutta
costruita successivamente e mutevolmente, allora (è questo il mio
timore, vedete se è giusto) un principio così debole del nostro
cammino morale avvicina la fine del cammino morale stesso. Senza un
principio non derivato, un postulato all'origine delle conseguenze,
non ci sarebbe alcuna morale, alcuna regola comune di comportamento.
Ci sarebbero dei comportamenti soggettivi, con regole soggettive, non
valutabili. Se quel mio comportamento ti fa male, non hai una ragione
comune a noi due per denunciarlo. Si può chiedere: perché, per
Pievani, sarebbe «autentico» l'uomo che, nel corso dell'esperimento
morale, «vive per la giustizia, l'uguaglianza, il bene, la
solidarietà?». Sono più che d'accordo con lui (col quale feci anni
fa un sereno dibattito nel Palazzo Ducale di Genova), ma devo
chiedere: se non c'è un criterio previo per dire autentica una
scelta, non sarebbe «autentico» uomo anche quello che fa scelte del
tutto opposte (non giustizia, non uguaglianza, non solidarietà)?
«Autentico» è l'uomo che realizza più veramente, nel modo
migliore, un modo di essere con gli altri? Ma se non c'è un modo più
vero, misurato su un metro non improvvisato a posteriori, allora non
è «autentico» anche l'ingiusto, chi disconosce l'uguaglianza e la
solidarietà? La pura convenzione mi obbliga davvero se riconosco
nell'altro, col quale mi impegno, un valore precedente alla mia
volontà e libertà: è la sua dignità inviolabile, che io lo voglia
o meno. Mi torna martellante la domanda: perché non posso farti del
male? Perché non posso essere ingiusto con te, durante questo
esperimento morale tutto aperto? Oppure hai già dei criteri di
«autenticità» (almeno alcuni, essenziali)?
3
- Per nascita, siamo degni
2-
Gandhi diceva che non può essere nonviolento chi non crede in Dio.
Quindi si poneva in quella morale tutta oggettivistica, esterna, non
costruita storicamente dall'uomo, negata da certo pensiero morale
contemporaneo?
1-
Traduciamo questo pensiero di Gandhi. Per lui “Dio” significava
l'unità profonda di tutti gli esseri. Diceva che non si può essere
nonviolenti se non si coglie e non si rispetta la sacralità
inviolabile di tutto ciò che è, almeno di tutto ciò che vive. Poi
sappiamo che Gandhi non era un assolutista: riconosceva il caso
sciagurato in cui per evitare un male peggiore può essere doveroso,
fino ad uccidere, fare un male più limitato. Muller corregge Gandhi:
non si tratta di un dovere ma di una tragica necessità: «la
necessità di uccidere non sopprime affatto il comandamento di non
uccidere».
2-
Allora, l'unità tra noi, impegnativa e obbligante, vera difesa e
vera sicurezza, è riconosciuta come un “principio” che precede e
regola le nostre azioni, oppure è “costruita” nel nostro
progressivo civilizzarci, nel farci “cittadini” gli uni degli
altri? Un altro autore citato da M. Fortuna è Rorty,
secondo il quale «l’obiettivo primario della solidarietà fra
uomini – il non infliggersi vicendevolmente dolore – non può
sperare di fondarsi su un “dover essere” intrinseco a una
supposta essenza umana, ma semmai su un consenso intersoggettivo che
si crea nel “gioco” delle circostanze storiche».
1-
Intanto,
possiamo osservare che farci concittadini pacifici è già un bel
passo, è il passo degli stati democratici (in quanto sono anche
eticamente universalisti, e non negano al di fuori dei confini i
diritti umani che affermano all'interno), eppure è qualcosa di meno
del riconoscerci “membra gli uni degli altri” in tutta intera la
famiglia umana (come insiste l'antica sapienza richiamata dalla Pacem
in terris).
La democrazia nonviolenta non si limita al “decidere contando le
teste invece di tagliarle”: è molto di più! Ora, se la regola del
non offenderci è tutta e solamente “costruita” dobbiamo temere
che possa essere allo stesso modo “decostruita”, smontata,
distrutta! Una democrazia, relativamente buona, come la Repubblica di
Weimar, si suicidò con l'uso forzato degli stessi mezzi democratici,
e distrusse il patto di cittadinanza “costruendo” l'ideologia
delle due specie: i super-ruomini e i sotto-uomini, la razza con
diritto e la razza senza diritto. Contro questa ideologia della
“costruzione etica limitata e selettiva” reagì, dopo il 1945, la
stagione storica dei “diritti umani”, non costruiti, ma
riconosciuti e affermati come spettanti a tutti per nascita, cioè
per natura: «Tutti
gli esseri umani nascono
liberi ed eguali in dignità e diritti» (Dichiarazione Universale
dei diritti umani, 1948).
2-
Allora,
una buona volta, perché non possiamo farci del male?
1-
Perché,
direi, entriamo nell'esistenza con una finalità identificata con
l'esistenza stessa, non ad essa sovrapposta: esistiamo col fine di
favorire in tutti i suoi valori e sviluppi ciascuno l'esistenza
dell'altro, degli altri. Siamo «autentici»
tanto quanto cerchiamo e perseguiamo questo scopo. Così direi io.
2-
Albert Schweitzer
sintetizzava l'etica nel “rispetto per la vita” (venerazione,
riverenza, nell'originale tedesco).
1- Mi pare poco intelligente
l'obiezione di Christoph
Türcke, che sono vita anche quei batteri patogeni all’annientamento
dei quali Schweitzer ha dedicato gran parte della sua esistenza. La
difesa di una vita umana a più ricche dimensioni può dovere, per
necessità, eliminare altre vite: è il problema (comunque non
tranquillo) già visto in Gandhi.
2-
Perché dici poco intelligente?
1-
L'intelligenza grande è sapienza: è assai più che analisi,
argomentazione, dimostrazione. Questo è lavoro minuto e prezioso
dell'intelletto (che rischia di “trapanare” la realtà, ridurla a
concetto univoco, più che abbracciarla e lasciarsi abbracciare, dice
Panikkar) , ma l'intelligenza legge intimamente la realtà plurale
quando si fa sapienza, quando raccoglie tesori essenziali,
riconducibili ad un nucleo di luce, da tutto il pensiero, da tutta
l'intuizione umana, e da tutte le attese e le domande umane. Ho visto
da ultimo un maestro di questa “sapienza alunna di sapienze”, in
Pier Cesare Bori, dopo gli altri più noti sapienti della storia
umana.
2-
Perché, dunque, chiediamocelo sempre di nuovo, perché non posso
fare il male, e neppure restituire male per male?
1- Arriverei a questa che mi
pare una traccia verso una possibile risposta: perché siamo
costituiti dal Bene per il Bene. Lo scrivo maiuscolo perché è il
barlume di ciò che non sappiamo dire, ma possiamo cogliere come
qualità, tensione, compimento essenziale e profetico dell'esistenza.
Noi, più che pensarlo, respiriamo il Bene, senza il quale
soffocheremmo rapidamente. E lo respiriamo anche solo come ricerca e
desiderio costitutivo, nonostante tutte le cadute, le contraddizioni,
le smentite, le falsità, i tradimenti, le malvagità che ci sono nel
mondo e di cui tutti portiamo qualche responsabilità.
2- Appunto: il male. Il male
non inficia questa prospettiva dell'essere nati dal Bene per il Bene?
1- Il male è la grande
domanda, legata a quella postaci qui, su cui ci stiamo arrabattando.
Supponendo che io abbia un po' capito perché non posso farti del
male, rimane il male oggettivo: quello (come insisteva Bobbio) patito
da Giobbe il giusto, non quello compiuto da Caino fratricida per
invidia; quello della natura, non quello fatto da noi. Tutta la
fatica umana, di mente e di vita, non riuscirà a rispondere alla
domanda sul male. Forse una giusta strategia, nel vivere e nel
pensare, è non farsi risucchiare nelle sue spire, sia pratiche sia
teoriche. Non opporsi al male col male, non entrare nel suo gioco: in
questo senso il «non
resistere al malvagio (o al male)» era per Tolstoj il cuore del
vangelo. Non bloccare il pensiero su questa domanda, ma aggirarla
come un nemico da vincere con l'astuzia: capire il male senza
capirlo; scavalcarlo col patirlo senza accettarlo; non subirlo ma non
combatterlo a modo suo; resistergli con un altro linguaggio di lotta
che lui non sa capire. Questa è, appunto, la lotta e la forza della
nonviolenza, come pensiero e come azione. E intanto, nella vita
vissuta, mettere bene dove c'è male. Seppellire il male nella
misericordia e nel perdono, anche politico. Non solo non posso farti
del male, ma devo, quanto mi è possibile, darti bene senza attendere
restituzione. Più che capirlo, il male è da vincere col bene. Il
bene è favorire e sostenere la tua libera vita, la libera vita di
tutti. Qui comincio a intravvedere perché non posso farti del male,
anche quando mi sarebbe possibile e utile: la ragione è che sono
occupato a fare il tuo bene, che è pure il mio, e tu altrettanto a
me, che è pure il tuo bene.
Enrico Peyretti, 21 febbraio
2013
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