domenica 5 novembre 2017

Riflessione
Elogio del corpo
Mi piacerebbe che uno scrittore, anzi un poeta, scrivesse – e cantasse – un elogio del corpo. Del nostro corpo vivo e mortale. Un elogio che restituisca onore al corpo disprezzato e offeso, solo perché bassa materia, candidato alla morte, alla polvere; oppure perché ribolle di troppi desideri, desideri di Dio e del piacere; condannato perché pecca di voglia di conquista e dominio; svalutato perché, così, meno vale e meglio è sfruttabile, come animale da soma, e violentabile nell'usarlo come strumento di lavoro.
L'onore da rendere al corpo umano è anche alternativo a quella idolatria della forma tutta esteriore, voyeuristica, che condanna tante donne e uomini a vivere a servizio della propria apparenza, ad affliggersi per un chilo in più sulla pancia, a soffrire per una ruga maturata grazie alla vita, a vergognarsi per la forma non scultorea del naso, a spendere più per vestiti, cosmetici e massaggi che per viaggi, arte e piaceri intelligenti.
Mi piacerebbe che tutto il corpo umano, moltiplicato nei nostri corpi, variati come note musicali, o colori di pennello, venisse onorato, e non solo nella bellezza e potenza dei più perfetti, non solo nella grazia del bambino e della bambina, che è fiore e promessa, ma anche nel tremolare del vecchierello, nelle rughe sapienti della nonna, nella comunissima figura dello sconosciuto passante, e anche nella pena del malato terminale.
Non solo mi piacerebbe, ma, ben di più, l'onore al corpo è necessario al nostro spirito, allo spirito della nostra società "evoluta" ma legata come schiava da tanti complessi insani.

OFFESE BEN STUDIATE
I corpi vivi sono offesi e martoriati dalla fame, procurata dalla volontà politica di non distribuire il cibo a tutti, ma farne speculazione e sequestro per l'abbondanza di alcuni.
Sono offesi dalle malattie ben curabili ma non curate, perché non conviene all'industria farmaceutica: meglio far morire loro (bambini compresi) e guadagnare noi dove vendere medicine rende di più. Così vendiamo astutamente i rimedi alle malattie di lusso, di chi ha i soldi per curarsi. Questo offende chi muore ed è vergogna dei corpi che ritornano in salute.
I corpi vivi sono offesi e condannati nelle fabbriche di armi, le quali sono così intelligenti da non saper fare nient'altro che uccidere corpi vivi, a casaccio, là dove si trovano nel punto da colpire per i calcoli di guerra. E la mano dell'operaio che fabbrica l'arma, e l'occhio e la mente dell'ingegnere che la studia e la disegna, e l'inerzia del cittadino che non si ribella all'industria dell'omicidio, sono mano, mente, inerzia che ora, tra un momento, uccideranno popoli innocenti, bambini allevati nella paura, donne destinate a curare i morituri, prima di morire anche loro.
E per uccidere ben bene i corpi bisogna distruggere le case, tutte le strutture, le strade, i ponti, gli acquedotti, le scuole, le piazze e gli ospedali, i campi e le chiese, e tutto ciò che è il corpo dei corpi. L'operaio e l'ingegnere delle armi fingono di non sapere che, nei loro stipendi, mangiano, come jene, la carne di corpi innocenti. Ed anche il giornalista e il propagandista politico che li rassicura, o li tiene nell'ignoranza, anche il tecnico che ammira la brillante soluzione dello strumento più efficace, sono complici e istigatori del delitto di guerra ai corpi umani. Corpi come il tuo, come questo mio, che non vogliono altro che vivere.

I POPOLI SPAZZATURA
Poi, come una variabile all'uccidere, la fame, l'economia di rapina, la “inequità”, spazzano via i popoli dalle loro terre, e producono popoli di profughi, di corpi bisognosi di fuggire, di attraversare deserti e mari, subito utilizzati a caro prezzo dagli sfruttatori della necessità, e subito accusati di essere invasori. E le politiche dei governi vedono solo masse di corpi in fuga, non vedono il dolore di ognuno di quei corpi, vedono la paura egoista e ignorante dei propri popoli, e questa vogliono assecondare per guadagnare voti, molto più che fare un po' di spazio a vite sradicate dalle economie e dalle armi di quegli stessi governi.
Eppure, uccidere è meno che torturare. La guerra, la conquista, la sottomissione, amano più torturare che uccidere. Segnalo il libro di Simona Meriano, Stupro etnico e rimozione di genere. Le vittime invisibili (Ediz. Altravista 2015). Lo stupro fa parte della guerra. Così il libro di Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso (Einaudi 2006), mostra che uccidere non basta, è troppo poco, se non si eternizza la pena inflitta. Ero ancora bambino, a guerra appena finita. Dal barbiere, in attesa per tagliarmi i capelli, ascoltavo i discorsi degli uomini. Uno racconta: «Ho visto io, tagliargli l'uccello» (l'ho ancora nelle orecchie, nel dialetto locale: «A 'go vist me, tagiarga l'usel»). Ecco, il nemico vinto deve restare mutilato della virilità, del piacere, della paternità, e trasmettere la vendetta anche alla sua donna, come un contagio. Nell'antichità, si racconta di gruppi di prigionieri accecati, meno uno, che dovrà lui solo guidare la fila dei condannati al buio perpetuo.
Il vero obiettivo della guerra di conquista o di vendetta, più che la terra, sembrano essere i corpi, maschi e femmine, che della terra sono la fioritura viva. L'arte della guerra si è evoluta fino al raffinato terrorismo, il cui scopo è colpire alcuni per sottomettere tutti col terrore. Costa poco e rende molto. Gli ultimi hanno imparato dai primi. Cos'altro sono i bombardamenti aerei, scoperta del Novecento, anche democratico, se non terrorismo?

UNA MADRE FEROCE
E bisognerebbe restituire la verità agli uccisi dalle guerre, poi rinchiusi in figure, eroiche o pietose, di pietra o di bronzo, nei monumenti eretti ai caduti in guerra, uccisi in osceno sacrificio dalla madrepatria, una madre maschia e feroce. In nessun piccolo paese manca questa pubblica ipocrisia. Se potessero parlare ci accuserebbero: «Ci hanno mandato i capi a uccidere e a morire, che è morire in entrambi i casi. Voi e noi non abbiamo legato le mani dei nostri capi quando compivano questo delitto. Voi avete sofferto e pianto per noi, quando partivamo da casa per non tornare, o per tornare sporchi nell'anima, ma, dopo, non avete ancora eliminato dalla vostra società il rito selvaggio nel quale siamo stati uccisi in sacrificio a false divinità. Su questi monumenti ci figurate come vostri eroi e difensori, e invece qui i nostri finti corpi sono usati per confermare che la morte governa la vita, perché a loro, ai padroni della morte, è questo che interessa. Ma noi vi parliamo dalle nostre vere tombe, dalla terra dove siamo dispersi, dall'abisso del nostro dolore, dalla solitudine e dal tradimento del nostro popolo che siete voi, di ieri e di oggi. Vi accusiamo di sapere ancora pensare possibile la guerra».
La politica capace di guerra offende e non difende i corpi. Ma si fa pagare e ringraziare come se li difendesse (lo dice anche il vangelo: Luca 22, 25 ss, che propone l'alternativa: «Tra voi non così»).

LA RELIGIONE CONTROLLA
Ma la religione che non è vangelo disprezza i corpi, li incolpa, li controlla fin dentro le camere delle coppie. Riduce tutte le relazioni dei corpi a legge e a centimetri, che scruta con occhio morboso. C'è un Manuale dei confessori (I peccati del sesso e la sensualità proibita nella dottrina di Dio), di mons. Bouvier, 1837, che sarebbe comico se non fosse orrendamente offensivo delle persone umane, macellate da un occhio che ne odia la vita. Cose superate? La ribellione a queste cose ha rivendicato con rabbia la giusta libertà, ma ha davvero imparato che la libertà viva e rispettosa della vita è più difficile del legarsi al carro della legge?
Bisognerebbe che il corpo venisse onorato tutto intero, con delicatezza e gusto della bellezza, senza bandire le "pudenda", le parti dette vergognose, senza le quali non siamo umani, non siamo terra che riflette cielo, carne che percorre il tempo anelando a sopravanzarlo sempre, a imitazione dell'infinito giro del sole, del cielo intero. Che il corpo venga onorato nei piedi, materialoni, e non solo negli occhi tutti luci e anima; materialoni generosi che percorrono il mondo e ci fanno fratelli maggiori e più liberi delle piante più maestose. Che venisse onorato il corpo, in tutti i suoi organi specializzati e versatili, perché sa comunicare – può comunicare - con gli altri corpi vivi, umani, animali, persino vegetali e minerali, con la terra intera, perché lui stesso è terra più viva. Perché comunica in quella misteriosa estatica avventura della congiunzione d'amore di due corpi in uno, quando siamo rapiti in un assaggio di felicità, sempre di nuovo sfuggita più avanti di noi e anche rimasta nel più intimo di noi.
E che venisse onorato, il corpo, anche quando si fa specchio di altri corpi, nell'attore che si svuota di sé per incarnare prodigi e tragedie di altre vite, e fa rispettabile prostituzione del proprio viso, voce, arti, per dare ad altri ciò che da soli non trovano, che è carità costosa, una specie di morte e reincarnazione.

IL CORPO INTERO
Che venga onorato il volto, il viso, l'organo in cui più si vede e più si fa vedere (ma sa anche celare e falsare) dello spirito che abita la nostra carne. Il volto che colma l'attesa del solitario, che sa anche essere feroce e imperante, che sa ascoltare e guardare, farsi specchio di carne per l'altro volto, quando gli occhi sanno stare negli occhi, senza invadere, senza abbandonare. Vetta e abisso, il volto.
Mi piacerebbe che un poeta... ma già lo ha scritto un coro di poeti giovani, sulla soglia della vita, o maturi ben esperti di vita, nel biblico Cantico dei Cantici. Una musica di cui conviene poco parlare (anche se letture e commenti sono e saranno infiniti), e di più ascoltare insieme in silenzio, perché stilla latte e miele di felicità raggiunta, di nuovo sfuggita, infinitamente cercata, e imprime il dolore che è l'ombra della felicità, rivela l'indicibile mistero che siamo, spiriti frementi avvinghiati alla nostra carne, al corpo che va onorato, sacramento delle cose in noi più divine, tanto che Dio lasciò i cieli lontani per avere un corpo come questi nostri, mio e tuo, corpi che l'odio e la guerra straziano, che l'amore e la pace onorano, e fanno talora felici, suggerendo alle nostre labbra una parola divina: sempre.

e. p.

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