Riflessione
Elogio
del corpo
Mi
piacerebbe che uno scrittore, anzi un poeta, scrivesse – e cantasse
– un elogio del corpo. Del nostro corpo vivo e mortale. Un elogio
che restituisca onore al corpo disprezzato e offeso, solo perché
bassa materia, candidato alla morte, alla polvere; oppure perché
ribolle di troppi desideri, desideri di Dio e del piacere; condannato
perché pecca di voglia di conquista e dominio; svalutato perché,
così, meno vale e meglio è sfruttabile, come animale da soma, e
violentabile nell'usarlo come strumento di lavoro.
L'onore
da rendere al corpo umano è anche alternativo a quella idolatria
della forma tutta esteriore, voyeuristica, che condanna tante donne e
uomini a vivere a servizio della propria apparenza, ad affliggersi
per un chilo in più sulla pancia, a soffrire per una ruga maturata
grazie alla vita, a vergognarsi per la forma non scultorea del naso,
a spendere più per vestiti, cosmetici e massaggi che per viaggi,
arte e piaceri intelligenti.
Mi
piacerebbe che tutto il corpo umano,
moltiplicato nei nostri corpi, variati come note musicali, o colori
di pennello, venisse onorato, e non solo nella bellezza e potenza dei
più perfetti, non solo nella grazia del bambino e della bambina, che
è fiore e promessa, ma anche nel tremolare del vecchierello, nelle
rughe sapienti della nonna, nella comunissima figura dello
sconosciuto passante, e anche nella pena del malato terminale.
Non
solo mi piacerebbe, ma, ben di più, l'onore al corpo è necessario
al nostro spirito, allo spirito della nostra società "evoluta"
ma legata come schiava da tanti complessi insani.
OFFESE
BEN STUDIATE
I
corpi vivi sono offesi e martoriati dalla fame, procurata dalla
volontà politica di non distribuire il cibo a tutti, ma farne
speculazione e sequestro per l'abbondanza di alcuni.
Sono
offesi dalle malattie ben curabili ma non curate, perché non
conviene all'industria farmaceutica: meglio far morire loro (bambini
compresi) e guadagnare noi dove vendere medicine rende di più. Così
vendiamo astutamente i rimedi alle malattie di lusso, di chi ha i
soldi per curarsi. Questo offende chi muore ed è vergogna dei corpi
che ritornano in salute.
I
corpi vivi sono offesi e condannati nelle fabbriche di armi, le quali
sono così intelligenti da non saper fare nient'altro che uccidere
corpi vivi, a casaccio, là dove si trovano nel punto da colpire per
i calcoli di guerra. E la mano dell'operaio che fabbrica l'arma, e
l'occhio e la mente dell'ingegnere che la studia e la disegna, e
l'inerzia del cittadino che non si ribella all'industria
dell'omicidio, sono mano, mente, inerzia che ora, tra un momento,
uccideranno popoli innocenti, bambini allevati nella paura, donne
destinate a curare i morituri, prima di morire anche loro.
E
per uccidere ben bene i corpi bisogna distruggere le case, tutte le
strutture, le strade, i ponti, gli acquedotti, le scuole, le piazze e
gli ospedali, i campi e le chiese, e tutto ciò che è il corpo dei
corpi. L'operaio e l'ingegnere delle armi fingono di non sapere che,
nei loro stipendi, mangiano, come jene, la carne di corpi innocenti.
Ed anche il giornalista e il propagandista politico che li rassicura,
o li tiene nell'ignoranza, anche il tecnico che ammira la brillante
soluzione dello strumento più efficace, sono complici e istigatori
del delitto di guerra ai corpi umani. Corpi come il tuo, come questo
mio, che non vogliono altro che vivere.
I
POPOLI SPAZZATURA
Poi,
come una variabile all'uccidere, la fame, l'economia di rapina, la
“inequità”, spazzano via i popoli dalle loro terre, e producono
popoli di profughi, di corpi bisognosi di fuggire, di attraversare
deserti e mari, subito utilizzati a caro prezzo dagli sfruttatori
della necessità, e subito accusati di essere invasori. E le
politiche dei governi vedono solo masse di corpi in fuga, non vedono
il dolore di ognuno di quei corpi, vedono la paura egoista e
ignorante dei propri popoli, e questa vogliono assecondare per
guadagnare voti, molto più che fare un po' di spazio a vite
sradicate dalle economie e dalle armi di quegli stessi governi.
Eppure,
uccidere è meno che torturare. La guerra, la conquista, la
sottomissione, amano più torturare che uccidere. Segnalo il libro di
Simona Meriano, Stupro
etnico e rimozione di genere. Le vittime invisibili
(Ediz. Altravista 2015). Lo stupro fa parte della guerra. Così il
libro di Giovanni De Luna, Il
corpo del nemico ucciso
(Einaudi 2006), mostra che uccidere non basta, è troppo poco, se non
si eternizza la pena inflitta. Ero ancora bambino, a guerra appena
finita. Dal barbiere, in attesa per tagliarmi i capelli, ascoltavo i
discorsi degli uomini. Uno racconta: «Ho
visto io, tagliargli l'uccello» (l'ho ancora nelle orecchie, nel
dialetto locale: «A
'go vist me, tagiarga l'usel»).
Ecco, il nemico vinto deve restare mutilato della virilità, del
piacere, della paternità, e trasmettere la vendetta anche alla sua
donna, come un contagio. Nell'antichità, si racconta di gruppi di
prigionieri accecati, meno uno, che dovrà lui solo guidare la fila
dei condannati al buio perpetuo.
Il
vero obiettivo della guerra di conquista o di vendetta, più che la
terra, sembrano essere i corpi, maschi e femmine, che della terra
sono la fioritura viva. L'arte della guerra si è evoluta fino al
raffinato terrorismo, il cui scopo è colpire alcuni per sottomettere
tutti col terrore. Costa poco e rende molto. Gli ultimi hanno
imparato dai primi. Cos'altro sono i bombardamenti aerei, scoperta
del Novecento, anche democratico, se non terrorismo?
UNA
MADRE FEROCE
E
bisognerebbe restituire la verità agli uccisi dalle guerre, poi
rinchiusi in figure, eroiche o pietose, di pietra o di bronzo, nei
monumenti eretti ai caduti in guerra, uccisi in osceno sacrificio
dalla madrepatria, una madre maschia e feroce. In nessun piccolo
paese manca questa pubblica ipocrisia. Se potessero parlare ci
accuserebbero: «Ci
hanno mandato i capi a uccidere e a morire, che è morire in entrambi
i casi. Voi e noi non abbiamo legato le mani dei nostri capi quando
compivano questo delitto. Voi avete sofferto e pianto per noi, quando
partivamo da casa per non tornare, o per tornare sporchi nell'anima,
ma, dopo, non avete ancora eliminato dalla vostra società il rito
selvaggio nel quale siamo stati uccisi in sacrificio a false
divinità. Su questi monumenti ci figurate come vostri eroi e
difensori, e invece qui i nostri finti corpi sono usati per
confermare che la morte governa la vita, perché a loro, ai padroni
della morte, è questo che interessa. Ma noi vi parliamo dalle nostre
vere tombe, dalla terra dove siamo dispersi, dall'abisso del nostro
dolore, dalla solitudine e dal tradimento del nostro popolo che siete
voi, di ieri e di oggi. Vi accusiamo di sapere ancora pensare
possibile la guerra».
La
politica capace di guerra offende e non difende i corpi. Ma si fa
pagare e ringraziare come se li difendesse (lo dice anche il vangelo:
Luca 22, 25 ss, che propone l'alternativa: «Tra
voi non così»).
LA
RELIGIONE CONTROLLA
Ma
la religione che non è vangelo disprezza i corpi, li incolpa, li
controlla fin dentro le camere delle coppie. Riduce tutte le
relazioni dei corpi a legge e a centimetri, che scruta con occhio
morboso. C'è un Manuale
dei confessori (I peccati del sesso e la sensualità proibita nella
dottrina di Dio),
di mons. Bouvier, 1837, che sarebbe comico se non fosse orrendamente
offensivo delle persone umane, macellate da un occhio che ne odia la
vita. Cose superate? La ribellione a queste cose ha rivendicato con
rabbia la giusta libertà, ma ha davvero imparato che la libertà
viva e rispettosa della vita è più difficile del legarsi al carro
della legge?
Bisognerebbe
che il corpo venisse onorato tutto intero, con delicatezza e gusto
della bellezza, senza bandire le "pudenda", le parti dette
vergognose, senza le quali non siamo umani, non siamo terra che
riflette cielo, carne che percorre il tempo anelando a sopravanzarlo
sempre, a imitazione dell'infinito giro del sole, del cielo intero.
Che il corpo venga onorato nei piedi, materialoni, e non solo negli
occhi tutti luci e anima; materialoni generosi che percorrono il
mondo e ci fanno fratelli maggiori e più liberi delle piante più
maestose. Che venisse onorato il corpo, in tutti i suoi organi
specializzati e versatili, perché sa comunicare – può comunicare
- con gli altri corpi vivi, umani, animali, persino vegetali e
minerali, con la terra intera, perché lui stesso è terra più viva.
Perché comunica in quella misteriosa estatica avventura della
congiunzione d'amore di due corpi in uno, quando siamo rapiti in un
assaggio di felicità, sempre di nuovo sfuggita più avanti di noi e
anche rimasta nel più intimo di noi.
E
che venisse onorato, il corpo, anche quando si fa specchio di altri
corpi, nell'attore che si svuota di sé per incarnare prodigi e
tragedie di altre vite, e fa rispettabile prostituzione del proprio
viso, voce, arti, per dare ad altri ciò che da soli non trovano, che
è carità costosa, una specie di morte e reincarnazione.
IL
CORPO INTERO
Che
venga onorato il volto, il viso, l'organo in cui più si vede e più
si fa vedere (ma sa anche celare e falsare) dello spirito che abita
la nostra carne. Il volto che colma l'attesa del solitario, che sa
anche essere feroce e imperante, che sa ascoltare e guardare, farsi
specchio di carne per l'altro volto, quando gli occhi sanno stare
negli occhi, senza invadere, senza abbandonare. Vetta e abisso, il
volto.
Mi
piacerebbe che un poeta... ma già lo ha scritto un coro di poeti
giovani, sulla soglia della vita, o maturi ben esperti di vita, nel
biblico Cantico dei Cantici. Una musica di cui conviene poco parlare
(anche se letture e commenti sono e saranno infiniti), e di più
ascoltare insieme in silenzio, perché stilla latte e miele di
felicità raggiunta, di nuovo sfuggita, infinitamente cercata, e
imprime il dolore che è l'ombra della felicità, rivela l'indicibile
mistero che siamo, spiriti frementi avvinghiati alla nostra carne, al
corpo che va onorato, sacramento delle cose in noi più divine, tanto
che Dio lasciò i cieli lontani per avere un corpo come questi
nostri, mio e tuo, corpi che l'odio e la guerra straziano, che
l'amore e la pace onorano, e fanno talora felici, suggerendo alle
nostre labbra una parola divina: sempre.
e.
p.
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