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09 05 Ignorantia
initium sapientiae
Mi
sono chiesto se c'è un rapporto di significato tra il “so di non
sapere” di Socrate (Apologia VI b,c,d) e il “initium sapientiae
timor Domini” (Bibbia, Salmo 111, vv. 9-10; Proverbi 7 – 10 ).
Ne ha scritto bene Augusto Cavadi in “Filosofia e teologia”,
2012, 2.
Che
cosa vuol dire “timore di Dio”? Se volesse dire paura, non
sarebbe una gran sapienza quella che nasce da lì. Più seriamente,
nel senso biblico più puro, vuol dire avvertire il mistero
indicibile di Dio, vuol dire il senso delle proporzioni tra me e
lui, che non temo come un gigante minaccioso, ma intuisco come un
Vivente di una vita indescrivibilmente più viva della mia. Entrare e
procedere in questo sentire è forse la “docta ignorantia”
(Agostino, Bonaventura, Cusano e altri), ma con portata non tanto
intellettuale quanto vitale: sento che sono davanti ad un Presente
che mi intimidisce senza umiliarmi, mi mette tenera soggezione ma non
mi abbassa nella sottomissione, sono davanti al Santo che ammiro ma
non si allontana da me così difettoso, non si mette ad
irraggiungibile frustrante altezza. Come Giobbe in fondo alle sue
sventure, chiudo la bocca ma non perdo il riferimento vitale al
Vivente. Non so, eppure so molto bene. Non ho il sapere che definisce
e inquadra, con spirito di possesso, ma nasce in me la fiducia, che è
più intelligente e lungimirante del sapere. Che ne sa il bambino
della sua mamma, carezze e latte? Non ne sa nulla ma sa che c'è, e
se la perdesse sarebbe perduto lui.
Invece,
il dubbio cartesiano mi pare una via assai meno saggia. Di mestiere
fa il controllore sul tram: “vediamo se hai diritto di viaggiare,
anzi di esistere”. Sembra dirmi: “squalifico tutto, poi vediamo
se qualcosa si salva perché si impone; ecco, il primo sono io, poi
vediamo se c'è altro”. Filosofia dell'ombelico e della solitudine,
dell'autosufficienza e dell'onnicontrollo, degenerazione del senso
critico (non vorrei offendere Cartesio), non filosofia dello sguardo
aperto, perché nel corpo sono più belli e intelligenti gli occhi
dell'ombelico. Il quale è pure ben degno, è la firma di nostra
madre, e di tutte le generazioni di cui io sono qui l'ultimo. Certo,
gli occhi non vedono tutto, ma, collegati al cuore, attendono la
luce. Sono fatti per la luce. E per gli occhi degli altri, che
attendono i nostri.
Se
intendiamo bene il “timore di Dio”, come l'acuta intelligente
interrogativa irritante ignoranza di Socrate, ci troviamo
incoraggiati a pensare e conversare tra noi per imparare. C'è tanto
da imparare. L'inizio è nel bambino al primo giorno di scuola, anzi,
di vita, e tutti siamo sempre quel bambino invecchiato, grazie a Dio.
E. P.
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