Chi
siamo?
Quando
l'intelligenza
è pericolosa
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8.600 battute
«Se
tutti pensassimo che le persone più intelligenti non reclamano il
diritto di governare (….) o che i più intelligenti di tutti
fossero quelli che si ritirano a meditare e poi tornano a portare la
pace e l'illuminazione, avremmo ancora paura dei robot più
intelligenti di noi?». Conclude così il suo articolo, La
ragione dei forti,
Stephen Cave, filosofo britannico, direttore a Cambridge di un centro
per il futuro dell'intelligenza (Internazionale,
7 aprile 2017, da Aeon,
Regno Unito).
Egli
dice che «l'intelligenza è un concetto politico». In tutta la
storia occidentale, le persone considerate meno intelligenti sono
state dominate, schiavizzate (e persino mangiate, se includiamo gli
animali non umani). Per Platone, e già per Socrate, il massimo
valore umano è il pensiero. Solo un filosofo è in grado di
stabilire il giusto ordine delle cose, perciò di governare. Per
Aristotele alcuni per nascita sono destinati alla soggezione, altri
al comando, ed è l'elemento razionale che contraddistingue chi
comanda. Nella filosofia occidentale, fino ad oggi, l'intelligenza si
identifica con l'uomo maschio, istruito, europeo, che ha diritto di
predominare sulle donne, sulle classi inferiori, sui non civilizzati,
sugli animali. Il dualismo dominante/dominato sembra ovvio e
naturale. Per Cartesio animali e natura, non avendo intelligenza,
erano puri strumenti. Per alcuni evoluzionisti, bisognava impedire ai
meno intelligenti di riprodursi. Ma, aggiungiamo noi, i “maestri
del sospetto” hanno messo in dubbio che l'intelligenza sia la più
alta e libera qualità umana. Don Milani ha denunciato bene quanto la
scala sociale determina il successo scolastico, che fa sembrare
intelligenti i ricchi e stupidi i poveri. Ma già un messaggio antico
suggerisce che il massimo valore umano non è il pensiero acuto o
scaltro, ma la capacità di amare, aiutare, sollevare il tuo
prossimo, perciò la vita che ti trovi vicina. È più importante
analizzare e capire, o fare e dare ciò che è giusto? Daremo
responsabilità di guida della nostra società, del vivere insieme,
piuttosto a chi è giusto o a chi è intelligente, parla brillando,
seduce le voglie più correnti?
Dal
momento che l'intelligenza ha giustificato privilegi e predominio,
ora ci terrorizza l'arrivo di robot superintelligenti, che si
solleveranno contro di noi, cacceranno noi intelligenti in fondo
alla scala sociale, ci schiavizzeranno. Ma tutto ciò non sta già
avvenendo con lo “choc tecnologico”, che annulla posti di lavoro,
sostituito dalle macchine, e ci toglie ruoli umani intelligenti? Ci
perderanno di più, in questo processo, i dominatori di oggi o i
condannati a lavori passivi? Saremo capaci di mantenere
l'intelligenza creativa? Il punto forse è proprio questo: quale
intelligenza umana?
L'intelligenza
usata per comandare è più che altro astuzia e carattere imperativo,
che viene scambiato per visione chiara e decisa. Ma questa qualità è
molto ambigua: si impone ad alcuni, mentre si rende strumento utile a
giochi più freddi e nascosti. Tipico il comando militare. Si parla
di persone che hanno la “virtù del comando” perché si fanno
obbedire, e non sanno di obbedire essi stessi, come soldatini di
piombo, alla politica che li usa. Ma anche l'uomo politico che
esibisce sicurezze e promesse certe, e non si rende conto di essere
una rotella di una macchina che gli sfugge.
Allora
sarà intelligente chi decide i grandi disegni strategici, chi vede
gli interessi della propria nazione (We
first)?
Se intelligenza è veder chiaro, vedere “dentro” le cose, qual è
l'intelligenza dei potenti? Sono potenti perché intelligenti, o sono
creduti intelligenti perché sono potenti? Le politiche degli imperi,
degli stati, nella storia hanno davvero visto e fatto quel che
rendeva più felici i popoli? In qualcosa forse sì, ma a quali e
quanti prezzi?
Allora
forse sono intelligenti i pensatori critici, i filosofi, che non si
impegnano nell'agire, ma giudicano chi agisce, e tutta la realtà. Il
loro pensiero è importante, va ascoltato perché non si fermano alla
superficie delle cose. Forse sono loro i capaci di intus-legere,
leggere dentro, arrivare alle essenze, oltre le apparenze. Però,
presto ci accorgiamo, ascoltandoli, che le loro visioni, i loro
pareri e consigli sono i più disparati: tot
capita, tot sententiae.
Alcuni ci convincono, tutti insieme rischiano di renderci scettici.
Ad un certo punto, la forza del pensiero si confessa debole. E chi
può giudicare qualcosa senza esporre al giudizio se stesso? Vale
davvero la nostra intelligenza più critica e profonda?
Ci
troviamo nei pasticci. Chi non ha studiato i grandi pensatori quasi
non ha diritto di prendere la parola, perché è ingenuo, non è
“critico”. Chi appartiene alla classe intellettuale interviene
con sicurezza, parla su tutto, mette un po' a tacere gli altri, poi
scopriamo che fa anche lui errori sonori, e causa conseguenze
infelici. Dobbiamo non fidarci della nostra testa? Che vuol dire:
agire a naso, di pancia. Anche naso e pancia sanno sbagliare
solennemente.
È
intelligente la modestia. Sapere che è necessario agire, ma evitando
il più possibile di produrre conseguenze irreparabili, avviando solo
processi correggibili. Ritorna Socrate: intelligenza è sapere di non
sapere. Siamo noi consapevoli di agire incisivamente sul mondo e
sulla vita, ignorando molto degli effetti della nostra azione? Questo
raccomandava sempre il saggio Nanni Salio. Non per nulla la violenza
produce l'effetto più irreparabile e più stolto che si possa
immaginare, e la ricerca nonviolenta è l'agire più intelligente,
nel tempo lungo.
Dunque,
che farne e che dirne della nostra intelligenza? E, peggio, che
pensare dei robot così intelligenti da non interrogarsi sulla loro
intelligenza , come noi stiamo cercando di fare sulla nostra?
C'è
un punto di Raimon Panikkar che qui vorrei richiamare: l'intelletto
scarnifica e seziona la realtà, nell'intento di penetrarla la
divide, la perde nella specializzazione utilitaria. Panikkar arriva a
dire che «la scienza moderna è perversa», perché non è comunione
con la realtà, ma solo la quantifica e la usa, non la conosce (si
veda meglio in Ecosofia:
la nuova saggezza,
Cittadella, Assisi 1993, pp. 21 e ss.).
Non
sarà la bontà, cioè l'approccio favorevole alla realtà e alla
vita, la vera intelligenza, cioè conoscenza e comprensione vitale,
la vera con-vivenza? Non sarà meglio essere sempliciotti, persino un
po' scemi a confronto coi furbi, piuttosto che distruttivi,
dominatori, cattivi? Non è forse intelligente quella esultanza
evangelica (Matteo
(11,25): «Ti
benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai
tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai
rivelate ai piccoli»? Gli intellettuali, chi lavora con
l'intelletto - come presumiamo di fare anche noi su queste pagine,
che offriamo a (pochi) lettori – sono o possono essere davvero gli
illuminati che suggeriscono o insegnano la via alla società, a chi
si sporca le mani nelle decisioni? Tornando allo spunto di Stephen
Cave da cui siamo partiti in questo girovagare, non può essere che i
più intelligenti siano tra noi quelli che contemplano
e meditano, che così meglio “intuiscono” (intus
ire, entrare)
e “sentono” la realtà e l'esistenza, per partecipazione più che
per analisi e presa? Non sarà che la conoscenza per immedesimazione
(l'affetto, la vicinanza, l'ascolto dell'eco poetica e l'abbraccio
delle cose) sia la più vera, la più vicina al vero? E la più vera
“filosofia” sarà più nel desiderio e brama (e orgoglio) di
sapere, oppure nel saper amare, nella scienza vissuta dell'amicizia
(sofofilia)?
A
proposito di intellettuali (intelligenti di mestiere): fanno simpatia
quando discutono sui giornali, nei libri, in tv, per capire un po' di
più, per intaccare le conclusioni coi dubbi euristici, che aprono
confini e strade, non i dubbi scettici, scoraggianti. Non fanno
simpatia quando vogliono (o credono di) “avere” ragione. Si
agitano in schermaglie con fioretti acuminati per conquistare una
verità, che ne esce pesta e ferita. La ragione posseduta è come un
amore violento: non è amore, e perde l'amata/o. La gara a chi è più
furbo con le parole e più sorprendente coi ragionamenti, è
piuttosto penosa, non aiuta l'intelligenza degli spettatori. La
ragione è quel “lumicino” modesto che diceva Norberto Bobbio,
non è uno strumento potente, tanto meno un'arma. Bene i sapienti,
grazie, ma chi davvero mi è maestro e genitore, chi mi aiuta a
vivere e mi conforta (mi dà forza), è chi, con la sua vita,
distribuisce un po' di bene attorno a sé.
E.
P.
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