Sulla
musica
Dico
quello che già sapete
Non
sono un intenditore. Ascolto qualche concerto, accendo musica
classica qualche volta, mentre leggo o scrivo. Durante un concerto
pianistico, appunto, mi interrogo su questo bene, questa bellezza
pungente e consolante che viene a me. E subito non è più, la
musica, fiume di tempo che danza a gocce, scintille, sussurri,
esplosioni, correnti. Scompare, e ancora risuona (ri-suona). Linea
sinuosa senza dimensione nell'udito, dove fluisce, più che parola.
Materia dissolta in spirito, e nuova materia mentale, effetto fisico.
Resta e non resta, perduta non si perde. Il volo d'uccello si vede, e
non lascia segno. Il suono si sente, ti tocca e non ha corpo. È
un'anima, è danza del vento, spirito. Vola via dallo strumento, e se
la ride, e piange perduta. Non la tieni e non la perdi, è aria
scolpita, colore invisibile. Una nota è già l'altra, e non è più.
Ma sono entrambe, sono insieme. Le note perdute fanno collana, sono
un continuum. È scala, scalata, caduta, corsa e silenzio, fatica e
danza, flusso di presenza e assenza. Memoria e sorpresa. È mondo e
non è mondo. Piacere e smarrimento, novità che irrompe, e
nostalgia. Ferisce e guarisce. Accorda e urta. È contraddizione, è
cosa e non è cosa. La parola indica cose, la musica no: invia
sensazioni, ti tocca e non la tocchi. Tra la parola e la musica, si
trova la poesia. Una porta d'uscita e d'entrata, in entrambe le
direzioni.
Il
fascicolo col programma del Conservatorio porta in ultima pagina
cinque definizioni della musica, di Platone, di Johann Sebastian
Bach, di Nietzsche, di Stravinskji, di Elvis Presley. Tutte giuste,
tutte insufficienti. Perciò oso anch'io dire queste ovvietà.
e.
p.
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