lunedì 3 luglio 2017

Sulla musica
Dico quello che già sapete
Non sono un intenditore. Ascolto qualche concerto, accendo musica classica qualche volta, mentre leggo o scrivo. Durante un concerto pianistico, appunto, mi interrogo su questo bene, questa bellezza pungente e consolante che viene a me. E subito non è più, la musica, fiume di tempo che danza a gocce, scintille, sussurri, esplosioni, correnti. Scompare, e ancora risuona (ri-suona). Linea sinuosa senza dimensione nell'udito, dove fluisce, più che parola. Materia dissolta in spirito, e nuova materia mentale, effetto fisico. Resta e non resta, perduta non si perde. Il volo d'uccello si vede, e non lascia segno. Il suono si sente, ti tocca e non ha corpo. È un'anima, è danza del vento, spirito. Vola via dallo strumento, e se la ride, e piange perduta. Non la tieni e non la perdi, è aria scolpita, colore invisibile. Una nota è già l'altra, e non è più. Ma sono entrambe, sono insieme. Le note perdute fanno collana, sono un continuum. È scala, scalata, caduta, corsa e silenzio, fatica e danza, flusso di presenza e assenza. Memoria e sorpresa. È mondo e non è mondo. Piacere e smarrimento, novità che irrompe, e nostalgia. Ferisce e guarisce. Accorda e urta. È contraddizione, è cosa e non è cosa. La parola indica cose, la musica no: invia sensazioni, ti tocca e non la tocchi. Tra la parola e la musica, si trova la poesia. Una porta d'uscita e d'entrata, in entrambe le direzioni.
Il fascicolo col programma del Conservatorio porta in ultima pagina cinque definizioni della musica, di Platone, di Johann Sebastian Bach, di Nietzsche, di Stravinskji, di Elvis Presley. Tutte giuste, tutte insufficienti. Perciò oso anch'io dire queste ovvietà.
e. p.


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