Importante:
vedi Mancini, Amore politico, da p. 171 (nota del 11.2.06)
Relazione di Enrico Peyretti
Convegno di studi - Torino
15-16 dicembre 1999
"Aldo Capitini filosofo
della nonviolenza nel centenario della nascita"
Presento al vostro giudizio
critico questa ipotesi: la "religione aperta" di Aldo
Capitini è oggi ammonimento e ammaestramento per le due principali
linee della nostra cultura riguardo al problema religioso, e cioè
tanto per le tradizioni cristiane, in Italia specialmente la
cattolica, quanto per la tradizione agnostica laica. (Ne scrive in
modo chiaro Antonio Vigilante nel cap. III, La
religione aperta,
del suo libro appena uscito La
realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in Aldo Capitini,
Edizioni del Rosone, Foggia 1999).
Per il cattolicesimo Capitini
è suggeritore di interiorità, di libertà spirituale, di fedeltà
pratica all'amore universale nella nonviolenza attiva. Per il
laicismo - ma qui devo essere più cauto nell'interpretazione -
Capitini propone una maggiore apertura e sensibilità all'invisibile
profondità della realtà umana e cosmica sulla cui estrema
superficie camminiamo noi tutti, con molta più ignoranza e
incertezza che non saperi certi, con un bisogno di ascoltare il
mistero vivo che ci sostiene, ci avvolge e ci interpella, bisogno che
mi pare molto superiore al diritto di disinteressarcene solo perché
la sua inverificabilità coi metri validi nel nostro piccolo raggio
di visuale, lo renderebbe privo di senso.
Scrive Antonio Vigilante
(appena citato per il suo libro): «Tutto il suo pensiero [di
Capitini] è il tentativo di introdurre nella coscienza laica il
paradosso della fede» (Saggezza
e profezia: Aldo Capitini,
file telematico, in corso di pubblicazione, nel settembre 1999, nella
rivista Itinerari).
Qui mi viene all'orecchio una
parola di Capitini profeta (profeta nel senso detto da Bobbio, nella
Introduzione a
Capitini, Il potere
di tutti, La Nuova
Italia 1969, p. 31: non utopista, ma «in quanto vòlto alla realtà
da liberare, proteso verso il futuro», però in modo tale che egli
«comincia subito, qui e ora» ad attuarlo); la parola cioè di
Capitini quando dice:
«Anche chi non sa cosa è la
compresenza, opera in essa, anche il bruco; appunto perché la
compresenza non ha bisogno della consapevolezza attuale dei singoli:
essa poggia su un punto futuro in cui tale consapevolezza ci sarà»
(Scritti filosofici
e religiosi, a cura
di Mario Martini, Ed. Protagon, Perugia 1994, = SFR, p. 372).
Questa mia relazione sarà
largamente incompleta. Nella mia difficoltà di fare una nuova
sintesi dell'idea capitiniana di religione aperta, rimando a questo
scopo, per esempio, al lavoro di Rocco Altieri La
rivoluzione nonviolenta,
Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco
Serantini, Pisa 1998, nei tre capitoli: La
religione come "libera aggiunta"; Elementi di una vita
religiosa; Un'opposizione religiosa al fascismo.
Anche Fabrizio Truini nel suo Aldo
Capitini, Ed.
Cultura della Pace, Fiesole 1989, nel capitolo La
religione della nonviolenza,
ci dà una utile sintesi. Un'altra, sotto il profilo del Principio
perdono, è quella
offerta da Roberto Mancini nel libro Esistenza
e gratuità. Antropologia della condivisione,
Cittadella editrice, Assisi, 1996 (pp. 133-138). Infine, Mario
Martini, introducendo nel secondo volume delle Opere scelte la
raccolta degli Scritti
filosofici e religiosi
(SFR) ci indica i caratteri, i concetti, i contatti, del pensiero
religioso di Capitini.
Toccherò qui soltanto alcuni
pochi grandi temi e risonanze della "religione aperta",
incontrati nella lettura e rilettura di Capitini, e presenterò
qualche semplice riflessione su di essi.
Lo schema della mia
esposizione è questo: 1. L'apertura nella prassi; 2. Un problema e
due rischi; 3. Non legato, ma collegante; 4. Religione come senso
dell'esistenza; 5. Quale Dio? ; 6. Religione e politica; 7. Capitini
evangelico
1. L'apertura nella prassi
Uso alcune espressioni di
Mario Martini (SFR, p. X-XI), per tratteggiare l'atteggiamento
religioso di Capitini:
- apertura, "aggiunta"
metodica, dall'esperienza della realtà alla sua possibile
modificazione;
- perciò "persuasione
nonviolenta" pur nella realtà violenta, e
- "compresenza" di
tutti gli esseri anche minimi, anche invisibili come i morti;
- non soggetto logico, ma
dialogico;
- preminenza non dell'io ma
del tu;
- bontà dell'incremento, che
è valore, rispetto all'insufficienza, che è fatto.
- l'atto religioso salvifico
redime i soggetti trascendendo la storia e la natura, ma operando
attivamente qui e ora.
Questo atteggiamento religioso
di vita è apertura all'ulteriorità, al mistero, anche se questo
termine non ricorre in Capitini. Mistero, dal verbo muein,
è ciò davanti a cui ci si trova anzitutto muti;
non l'enigma oscuro, ma una realtà che supera la nostra possibilità
di dirla, eppure chiede di essere pensata e detta. Il mistero è ciò
che non è già tutto circoscritto nel fatto conoscibile e dicibile.
È l'oltrepassamento di sé verso ciò che non si possiede come
nostro, ma che pure è nostro, anzi intimo
(superlativo di
interno,
il cui grado comparativo è interiore);
è nostro, è intimo, perché ci costituisce aperti, attenti, tesi ad
altro, agli altri. Quindi è "apertura". L'apertura è
religione e la religione è apertura.
Aggiunta e apertura non solo
nel pensiero, nell'accogliere nella mia conoscenza qualcosa più
ampio di me e del mondo che vedo; ma apertura e aggiunta nella
«sporgenza della prassi» (La
compresenza dei morti e dei viventi,
Il Saggiatore, Milano 1966, p. 217; cit. in SFR XXV). Infatti, nelle
forme di pensiero con cui Capitini si confronta (storicismo,
marxismo, pragmatismo), egli trova che
«la categoria fondamentale e
implicita è la coscienza del vivente che sa di essere in un mondo
fatto in un certo modo, con cui deve fare i conti. (…) L'inizio
è un sapere, un
accertamento consolidato (o garantito) che il mondo è in un certo
modo. Invece nell'aggiunta l'inizio
è atto verso il
tu-tutti, è prassi. E tutto ciò che viene poi svolto, compreso,
accertato, è costruito sull'atto verso il tu-tutti, che è la
fondamentale apertura alla compresenza» (SFR, 385).
«L'aggiunta non
è una categoria conoscitiva,
rivolta all'evento che sorge e dilegua; è
una categoria pratica,
un vivere una realtà che è in incremento» (SFR, 398; le
sottolineature nei due brani sono mie).
Questo pensiero è biblico ed
evangelico, ed è universalmente religioso: la vera religione è
agire bene, fare il bene, non sta nel pensare giusto o nel culto
dovuto. Un solo richiamo cristiano - che vale per tutti i testi
simili negli scritti ebraici, in quelli cristiani, in quelli di altre
religioni - è in Matteo 25 sul giudizio finale. Chiederanno i
giusti: «quando mai ti abbiamo visto?». Il giudice risponderà:
«Quando avete sfamato, rivestito, ospitato, visitato chi aveva
bisogno». La verità che salva è nell'amore per tutti
(l'unità-amore, dice Capitini), non in una teoria religiosa o
conoscenza teologica. Neppure la fede salva se non è fedeltà,
cioè la "aggiunta", o il frutto, delle azioni
che la attuano. E
azioni di amore dimostrano una implicita disposizione a credere e
pensare che l'amore e non la forza è la legge della vita.
Questa apertura pratica, che
accoglie da fuori di sé la norma della vita giusta e buona, norma
che è dettata dalla presenza dell'altro, dal suo volto, è espressa
in tutte le religioni e le sapienze dalla famosa "regola d'oro".
Ne ho collezionate, un po' alla volta, almeno 25 diverse
formulazioni, da Confucio, al taoismo, a Buddha, all'ebraismo, ai
vangeli, allo hinduismo, al giainismo, allo zoroastrismo, a Seneca, a
Marco Aurelio, all'Islam, a Voltaire, a Kant, a Bahà'ullàh
(fondatore della fede baha'i), al Parlamento delle religioni
mondiali, fino a… Umberto Eco. Comunemente la formulazione più
nota è quella ebraico-cristiana, sia positiva che negativa: «Quel
che desiderate che gli altri facciano a voi, fatelo voi a loro»;
«Non fate agli altri quel che non vorreste fosse fatto a voi». Non
ricordo un passo di Capitini che metta in evidenza questa regola
(trovo un cenno in SFR p. 473, da Religione
aperta), ma tutta
la sua religione etica si fonda nell'apertura all'altro, che diviene
regola del nostro agire.
2. Un problema e due rischi
Tuttavia, vedo un problema,
con due rischi.
Una religione senza l'assoluta
alterità reale di Dio (che è messaggio centrale
nell'ebraismo-cristianesimo e più ancora nell'Islam), senza la
completa dualità Dio-uomo, prima della loro unità, rischia -
nonostante la purezza dell'intenzione - l'idolatria, cioè rischia di
essere una «religiosità che sceglie dèi a propria immagine e
somiglianza» (G. Ravasi, Amore,
non sacrifici, Il
messaggio dei dodici profeti minori, Ed. Paoline 1989, p. 141, su
Michea 5,9-10.12), che esalta al massimo grado di valore alcuni
nostri valori umani, o troppo umani. Per esempio, la "religione
della libertà", o "la religione del lavoro": ottimi
valori la libertà e il lavoro, ma farne una religione (se questo
termine non è usato solo in senso metaforico) non realizza un
rapporto con l'assoluto Altri, bensì una lodevole dedizione ad un
valore umano. Se si rende l'uomo, o una sua opera o dimensione,
valore religioso, ultimo, si limita l'apertura dell'uomo al mistero
vivo, ulteriore. Se non c'è un punto archimedico, un incontro di
altro, davanti e di fronte a noi, una alterità stimolante e
appellante dell'oggetto religioso, la religione può restare nobile
autocontemplazione dell'umano.
Questo è il rischio della
religiosità, della moralità, laica, umanistica.
All'opposto, la religiosità
"teologica" corre altri rischi. Con l'insistenza sulla
alterità assoluta di Dio rischia di porre Dio stesso in una
lontananza irraggiungibile, fino all'insignificanza reale, e di
pensarlo come incombente e schiacciante l'uomo. Con l'eccessiva
"definizione" di Dio (i "dogmi", da
"insegnamenti" della sapienza dei secoli e delle
generazioni, diventati gabbie costrittive) rischia di farne una
figura astratta e morta, funzionale alle nostre esigenze, se non
semplicemente al potere dell'istituzione religiosa.
Da qui nasce il bisogno giusto
e sacrosanto di liberazione da Dio, di sano a/teismo, che in certi
casi può essere, senza forzatura, interpretato come ricerca del Dio
vero, mediante il ripudio di sue immagini insufficienti.
Ma, ecco forse una via
d'uscita, in ciò che dice Meister Eckhart: «Prego Dio, il Dio vivo,
Altro, che mi liberi da Dio», tanto dal «Dio 'mio' (…) da me
sempre imprigionato nei miei schemi» quanto dal dio soltanto
tremendo e altissimo (citazione che traggo da M.C. Bartolomei, in
Esodo,
n.3/1999, p. 8). Solo Dio ci libera da Dio. Solo Dio ci libera dalle
teologie.
¿Dunque, religione senza Dio?
O religione con troppo Dio?
¿È troppo poco la religione
di Capitini come "apertura" di pensiero e azione, di mente
e di cuore, senza un riferimento a Dio in quanto Altro da me, da noi?
¿Come pensa Dio Capitini?
Per affrontare queste domande,
scelgo e avvicino tra loro due definizioni di religione, una
contemporanea, una antica.
La prima è di Joachim Wach
(sociologo e fenomenologo tedesco) ed è riferita da Armido Rizzi (Il
Sacro e il Senso,
Lineamenti di filosofia della religione, Ldc, 1995, p. 17). Wach
propone quattro criteri per individuare l'esperienza religiosa:
1) si riferisce alla "realtà
ultima", «che tutto condiziona e abbraccia», realtà sovrana
ma non indifferente, non chiusa in se stessa, che anzi si presenta
come volontà di rapporto col soggetto umano;
2) l'incontro con la realtà
ultima chiama in causa tutta
la personalità dell'uomo
nelle varie sue manifestazioni: affettive, intellettuali, volitive;
3) l'esperienza di questa
realtà ultima presenta un'intensità
qualitativamente
superiore;
4) l'incontro con la realtà
ultima non riposa in se stesso, ma ha un carattere interpellatorio,
suscita e attende una risposta,
una reazione attiva da parte del soggetto umano.
Propri del fatto
religioso sono
quindi una struttura
bi-centrica, e una
essenziale reciprocità
dei due centri. La
religione è quindi, in questa visione, un circuito, è dia/logos, ha
termine in altro, Dio per l'uomo, l'uomo per Dio. Non è soltanto
"apertura" senza oggetto, senza termine.
¿La concezione di Capitini è
forse sovracondizionata dalla polemica col cattolicesimo che lui ha
conosciuto (tra parentesi: mutato più dagli anni 50 ad oggi che dal
Concilio di Trento agli anni 50), il quale sovraccaricava l'oggetto
della religione, col peso granitico dei dogmi intesi più come
vincoli che come indicazioni, con le certezze definitorie e
rigidamente spartitorie della teologia, con la quasi divinizzazione
della mediazione sacerdotale e gerarchica? Di fronte a ciò, la
rivalutazione della parte del soggetto
religioso, della sua libertà e apertura, anche in sintonia con tanta
parte del pensiero e della sensibilità soggettivistica e
personalistica contemporanea, era non solo comprensibile, ma
legittima e valida.
Tuttavia rimane la domanda,
per capire la religione di Capitini: ¿la aggiunta
è opera nostra,
azione umana di autosuperamento, oppure è incontro con Altri,
avvento di Altri da oltre l'uomo? Confesso che non ho ben capito:
forse Capitini vuol dire entrambi i movimenti, che in termini
cristiani classici potremmo dire: la grazia e le opere, da una parte
l'azione donativa e gratuita di Dio, dall'altra l'apertura,
accoglienza, corrispondenza e risposta attiva dell'uomo. ¿L'apertura
di Capitini è una pre-condizione alla religione-rapporto tra il
soggetto umano e la realtà ultima? ¿Cioè, pur lasciando in ombra
il polo divino, egli, con l'insistenza sulla apertura dell'uomo e
della realtà stabilisce un fondamento senza il quale nessuna
affermazione del divino è veramente religiosa e pratica? ¿È, la
religione di Capitini, quel ponte tra laicismo e religiosità, tra
l'umanesimo agnostico su Dio, perciò monopolare, e l'antropologia
religiosa essenzialmente bipolare? ¿È quel ponte improprio all'uno
e all'altra, ma anche proprio all'uno e all'altra, che dicevamo
all'inizio? Un ponte, infatti, è di entrambe le sponde e non
appartiene a nessuna delle due.
¿Ma oggetto
della religione che cosa è per Capitini? ¿Non è altro che la
compresenza,
cioè l'insieme corale e con/vivo di tutti i viventi, da Dio al morto
più dimenticato fino all'ultimo animale, l'insieme nel quale il
soggetto
è totalmente ricompreso? quindi oggetto
nella sua religione
è la contemplazione attiva e operosa di un'appartenenza senza
alterità? Ma non è anche essenzialmente quella di Capitini la
religione del Tu,
che conduce il
libero religioso a passare dall'io autocentrato ad una vita
bi/centrata?
Su questa base si deve negare
che la religione di Capitini sia soltanto soggettiva per il fatto che
non accentua l'alterità della "realtà ultima" o realtà
divina. La sua è stata detta una «teologia del tu»
(Fortunato Pasqualino, in Il
nostro tempo, 3
novembre 1968). È una religione preminentemente etica, attuata nella
pratica, non è però un'etica teologica (un dover-essere e
dover-fare che discenda dalla parola o dalla luce di Dio) quanto,
direi, una teologia
etica: ciò che si
può incontrare e vivere dell'assoluto, lo si incontra e lo si vive
nel comportamento etico, nell'apertura al tu/tutti. Se Dio c'è,
vivente e altro da noi, l'apertura al tu è apertura a lui, anche
quando non lo conosciamo e non lo possiamo affermare.
Il pensiero della «compresenza
dei morti e dei viventi» Capitini lo definisce una «metafisica
pratica» (SFR 325). Egli appartiene quindi, in un modo tutto suo, al
movimento di pensiero delle etiche dell'alterità, per le quali è il
volto e la presenza dell'altro che ci detta il dovere morale;
movimento di pensiero che ha l'espressione più forte e compiuta in
Emmanuel Levinas, la cui filosofia è stata definita «alterità e
trascendenza» (G. Ferretti, La
filosofia di Levinas,
Rosenberg & Sellier, 1996), dove "trascendenza" non
dice una sostanza al di là del mondo, secondo il senso metafisico
classico, bensì un'originale relazione di natura etica in cui il
soggetto è implicato e trasceso (cfr Ferretti, op. cit. p. 145 e
115-116 nota), cosicché l'etica è per Levinas la "filosofia
prima" (cfr Ferretti, pp. 37,102,103,119,127,153), come era la
metafisica per Aristotele.
Ancora, si può difendere la
religione di Capitini dall'accusa di soggettivismo se la si
confronta, vedendone tutta la distanza, con certe forme religiose
oggi in voga, quali l'arcipelago della new age o next age, che Armido
Rizzi descrive bene: «una religiosità tutta centrata sulla
percezione dei propri vissuti come unico fondamento veritativo della
propria esperienza religiosa» (in Servitium,
quaderni di ricerca spirituale, n. 125, settembre-ottobre 1999,
Prospettive su Gesù,
p. 6). La religione di Capitini non è un raffinato attrezzo
interiore per stare
bene, ma l'esigenza
più intima di fare
bene; non è
autocentrata, ma rivolta al tu nell'apertura essenziale e intima.
3. Non legato, ma
collegante
Vediamo l'altra definizione
che annunciavo di religione, quella antica che si legge in Aulo
Gellio (scrittore latino del II sec. dopo Cristo, autore di una
raccolta di citazioni da testi di età repubblicana). Gellio
riferisce questo detto: «Religentem esse oportet, religiosus nefas»
e così lo spiega: "religioso", con significato passato, è
colui che si è rapportato ad un dato originario come oggetto reso a
noi disponibile; "religente", con significato
attivo-presente, è colui che attivamente sempre di nuovo si collega
all'originario, ma in
atto (cfr M. C.
Bartolomei, Intersezioni
tra Scrittura e interpretazione: la Bibbia,
Cuem, Milano 1990). Religioso direbbe anche passività, legame.
Religente direbbe attività unificante, collegante. Sembra di sentire
una interessante sintonia con l'idea capitiniana di religione come
atto e attività, nel collegamento all'unità corale e costruttiva di
valori, di tutti gli esseri.
La definizione di Aulo Gellio
è un modo interessante di affrontare l'essenziale ambiguità della
religione tra sistema chiuso e dominato, ed esperienza aperta e
liberante. Ora, Capitini, come riformatore ed eretico intensamente
religioso, vive proprio il problema di affrontare l'ambiguità
implicita nell'avventura religiosa: alienazione e assoggettamento
riduttivo dell'uomo, o apertura che incrementa l'umanità? Capitini è
persuaso di una religione "apertura" e "incremento",
ma, nella particolare temperie della cultura teologica,
dell'istituzione ecclesiastica, dell'opinione religiosa popolare con
cui ha a che fare concretamente, non può che sentire di dover
ridurre gli elementi oggettivi ed esaltare quelli soggettivi,
correndo il rischio di fare svanire l'alterità di Dio, che è
aspetto essenziale del cristianesimo, con cui più direttamente si
confronta.
4. Religione come senso
dell'esistenza
Nel lavoro già citato di
filosofia della religione, Armido Rizzi suggerisce, come proposta
propria, di «tradurre l'esperienza del sacro in termini di Senso del
mondo e dell'uomo» (p. 20), assumendo qui "senso" nel
contesto non del linguaggio (discorso sensato) quanto dell'azione:
azione per un fine, un obiettivo, uno scopo, quindi azione sensata; e
non un'azione particolare, ma la totalità dell'agire umano nel
mondo, quindi l'esistenza umana sensata. Cosicché Rizzi può dire:
«La religione è l'affermazione che la realtà non è puramente
casuale, non è assurda, ma dotata di un "perché" che ne
giustifica l'esistenza» (op, cit., p. 21).
Questa "affermazione"
non occorre che sia teorizzata, se è affermata nei fatti. La
"persuasione" di Capitini (parola che egli sceglie a
preferenza di "fede", forse anche per un condizionamento
polemico) è questa convinzione profonda e operante, per la quale la
piccola vita personale ha senso, rientra in un insieme dotato di
bellezza e valore, totalmente amabile fino al sacrificio personale,
pur se ancora in cammino faticoso e tribolato; una realtà di fatto
che può e merita di essere svolta verso la «realtà liberata». Una
delle parole più belle con cui Capitini dice questa persuasione
intima e pratica è, secondo me, questo passo famoso:
«Io non dico: fra poco o
molto tempo avremo una società che sarà perfettamente nonviolenta,
regno dell'amore che noi potremo vedere con i nostri occhi. Io so che
gli ostacoli saranno sempre tanti, e risorgeranno forse sempre, anche
se non è assurdo sperare un certo miglioramento. A me importa
fondamentalmente l'impiego di questa mia modestissima vita, di queste
ore e di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della
storia il peso della mia persuasione, del mio atto, che, anche se non
è visto da nessuno, ha il suo peso alla presenza e per la presenza
di Dio. E penso: forse dovrà essere sempre così, vi sarà sempre
questa lotta, questa affermazione fatta in un modo o in un altro; ma
se sono veramente un persuaso religioso, in questa stessa lotta, in
questa stessa affermazione, sento una serenità superiore, una
presenza che mi redime dalla mia finitezza. E pur essendo vòlto
infinitamente agli altri, prima del loro persuaderli - che può
essere tanto difficile e impedito dal loro stesso agire o dalla mia
inettitudine - l'atto religioso vale in intimo, come dedizione e come
celebrazione redentiva» (Elementi
di un'esperienza religiosa,
ristampa anastatica Cappelli 1990, pp. 115-116).
Mi pare davvero il manifesto,
o l'inno, o anche la preghiera eucaristica - vale a dire di
rendimento di grazie - di una vita persuasa, cioè felice di tutta la
felicità possibile nel mondo, perché sente di valere, di essere nel
bene, nonostante la piccolezza e debolezza e manchevolezza di cui è
consapevole. E' così che la vita ha valore, quindi è salva, è
guarita, è riscattata da tutte le sue miserie, banalità,
insignificanze, fallimenti, cadute, crisi di oscurità, smarrimenti,
e da tutte le sue perplessità.
Questa è religione che salva,
è salvezza religiosa, non è religione alienante. Perché siamo
perduti quando viviamo per nulla, e siamo salvi quando abbiamo senso,
quando viviamo con un senso, anche quando moriamo con un senso e uno
scopo. Allora, benché sia interessante e anche importante
confrontare e discutere le diverse concezioni religiose, valutare se
e quanto Capitini abbia capito il cristianesimo, se lo ha visto solo
nella versione che aveva di fronte, senza cercarlo nelle sue fonti
più genuine, e studiare il suo rapporto con le religioni non
cristiane, è però ben più importante - specialmente oggi che il
dialogo iniziato tra le diverse religioni è tra i segni più
positivi del nostro tempo - cogliere in un "libero religioso"
la forza, salvatrice dall'assurdo dell'esistenza, che è in ogni
atteggiamento di apertura e, direi io, di invocazione religiosa,
prima e sotto e nell'intimo di ogni formulazione di credenza.
Per fugare l'equivoco che solo
una religione costituita dia senso all'esistenza, riporto questa
considerazione su fede e credenza da Raimon Panikkar, filosofo e
teologo indiano-catalano, in qualche modo sia indù che cristiano, il
quale incarna nella sua persona la «fecondazione reciproca» delle
culture e delle religioni:
«La fede
è la costitutiva apertura
dell'uomo verso la trascendenza. È la consapevolezza di essere
in/finito, non/già/finito, e dunque di poter crescere. Ogni uomo è
aperto a questo "più". È un'apertura esistenziale, di cui
ogni uomo è capace. L'atto di fede, che salva, è l'atto con cui
l'uomo si riconosce non/finito, non perfetto. Ogni uomo, poi, cerca
di far cristallizzare questa visione in proposizioni, in
formulazioni. Queste sono le credenze,
diverse dalla fede,
anche se la fede che non si esprime in credenze può restare vaga,
inefficace» (miei appunti da una conferenza tenuta da Panikkar a
St.Jacques d'Ayas, in Val d'Aosta, nell'ottobre 1992).
Ogni credenza seria esprime la
via della salvezza. Ci sono più modi di dirla, di comprenderla e di
esprimerla, ma la salvezza è unica, è la fede/apertura. Vorrei per
un momento, come in una nota a margine, rivalutare un poco, in
confronto con la "persuasione" di Capitini (è noto che
egli trae il termine da Michelstdaedter, che lo oppone a "rettorica",
insincerità), il termine "fede", che ha una eco
profondissima nella storia spirituale. Sospettato dalla cultura
razionalista, quasi che significasse solo (come di fatto pure è
talvolta inteso) rinuncia alla ragione, consegnata al sonno della
sottomissione ad un'autorità; imbrigliato in una interminabile e
inestricabile discussione tra fede e ragione; a me pare che il
termine "fede", nella tradizione viva del linguaggio e
dell'esperienza biblica, abbia i significati principali di fiducia,
ascolto, appoggio, comunicazione, affidamento. Cioè, di "apertura"
esistenziale e pratica, di pensiero e di azione.
L'amore umano è fede,
fidanzamento. Fede è anche ciò che stiamo facendo in un convegno
come questo, dove ascoltarci e accoglierci non è certo rinuncia a
pensare e ripensare; dove recepire a cuore aperto l'insegnamento
della vita e della riflessione di Capitini è dargli fiducia e farci
orientare sulla vie da lui percorse, perché hanno una luce di vero e
di bene, senza affatto rinunciare alla fatica di trovare ciascuno la
strada propria. Questa è fede umana, componente essenziale di ogni
nostra comunicazione, pena il solipsismo conoscitivo. La fede
religiosa è analoga, né identica, né equivoca. La parola che
cogliamo come veniente più dall'alto, più dal profondo, merita una
fede maggiore delle parole che corrono tra noi, merita un affidamento
completo. Ma non c'è alternativa tra fede e ragione. Non si tratta
di questo. L'alternativa
è tra fiducia e sfiducia.
Anche la ragione funziona con la fiducia: lo stesso dubbio critico
più vigilante e controllato non avrebbe senso senza la fiducia di
potere correggere e migliorare le nostre conoscenze, i nostri criteri
d'azione. Senza fiducia (o fede) non c'è vita, né conoscenza, né
azione. La fiducia è apertura, la quale poi, nella verifica non
sperimentale, né solo razionale, ma esistenziale vissuta, del valore
ricevuto e accolto, diventa persuasione intima.
5. Quale Dio?
«Dio non è certamente [per
Capitini] il "totalmente altro" dell'ultima teologia
evangelica [Karl Barth], né il "mysterium tremendum" del
numinoso e del sacro» (Martini, SFR, XII). Capitini scrive: «La
tramutazione, la presenza, la realtà religiosa, la novità, non sono
più oggetto di speranza, ma noi siamo in esse» (Il
problema religioso attuale, Guanda
1948, p. 113, cit. da Martini, SFR, p. XII). Qui sembra che Capitini
propenda verso quell'annullamento della distanza tra Dio e noi che è
proprio dell'esperienza mistica, e sembra così che approcci la
grande tensione "già e non-ancora" risolvendola tutta nel
"già", al limite del panteismo, a rischio di consacrare
totalmente proprio quella realtà presente che pure egli sente e
afferma spesso da non accettare, da superare e da liberare. Il brano
citato continua poco oltre: «Dio si è tramutato e da sovrano
assoluto si fa persuasore intimo, da onnipotenza si fa libera
aggiunta, da persona si fa anonimo, da trascendenza si fa presenza
dell'Uno-Tutto» (ibidem). (Questo termine Uno-Tutto lo correggerà
poi in Uno-Tutti). Qui dunque ha detto di Dio: «Da persona si fa
anonimo». Ma nel suo primo libro, parlando della "vicinanza di
Dio", dice che Dio «non è persona tra
le persone, ma persona per
le persone» (Elementi
di un'esperienza religiosa,
ristampa Cappelli 1990, p. 46). «Dio non ha più nome perché si dà
ai nomi, dall'intimo» (Il
problema religioso attuale,
cit., p.41). Anche nella Bibbia Dio non ha nome (il suo nome è: ci
sono, ci sarò; sarò con te; cfr Esodo
3,14) , ma è evidentemente persona, cioè vita, pensiero, volontà,
amore, relazione, azione, ciò che non è il dio aristotelico.
¿Quel che abbiamo sentito
significa che per Capitini Dio non è persona? ¿Allora, Dio anonimo,
impersonale, risolto tutto nella corale compresenza dei viventi, come
una forza senza volto, un elemento comune a tutti, senza le facoltà
proprie dell'essere persona? Neppure questo, mi pare. Dio non è il
"totalmente altro", ma neppure la "natura naturans"
tutta immanente. Sembra che in Capitini Dio conservi, nella vicinanza
intima, la sua realtà propria e differente dall'uomo: egli vuole
evitare una concezione religiosa che ne faccia un oggetto alto,
staccato, definito e idolatrato, eppure scrive che «il cambiamento
dovrà apparire come operato da Dio stesso, e non come compiuto dalla
forza limitata dell'uomo, egualmente assurda sia nel pretendere di
"decapitare" quanto di "costruire" Dio (…). Dio
non può essere né costruito né distrutto. E allora una
tramutazione non può essere autentica se non compiuta al di là di
queste operazioni, cioè se non riconosciuta come opera di Dio
stesso» (Il
problema religioso attuale, Guanda
1948, pp. 36-37). In un passo come questo, Capitini non identifica
Dio con lo spirito dell'uomo, perché Dio opera prima e distintamente
dall'uomo. Dunque, Dio è Altri. Così come, parlando della preghiera
(in modo anche polemico verso la religione tradizionale), conclude
così: «Nell'intimità, che è dualità, sono udito» (Elementi
di un'esperienza religiosa,
ristampa Cappelli 1990, p. 57).
Qui Dio non è identificato
semplicemente con l'intimo umano, con la coscienza. Anche in pagine
precedenti (p. 48; 50) ricorre il termine "dualità; dualismo",
che mi pare significhi, nel contesto, alterità, non identità tra
l'io finito e Dio; non un'alterità esterna, trascendente, ma intima;
intimità, ma non identità. Anche nelle prime righe del paragrafo
subito seguente "Premio e pena", sembra di cogliere questa
idea di una dualità intima: nell'intimo la verità (Dio) mi giudica,
mi è testimone.
Attraverso le pagine
capitiniane, di una teologia non costruita di geometriche
definizioni, ma calda di afflato etico attivo, di unità-amore,
sembra di leggere anche quella che, in termini cristiani, è la
teologia dello Spirito Santo: lo spirito, cioè il sentimento stesso
di cui vive Dio, effuso da Cristo nei cuori, ad animarli dall'intimo,
sicché san Paolo può dire: «Vivo non più io, ma vive in me
Cristo» (lettera ai
Galati 2,20). In
una parola, Capitini dice di sé: «Questa unità monoteistica non la
sto a descrivere e teorizzare, ma la vivo concretamente: la teologia
è teogonia in atto, da vivere» (Elementi
di un'esperienza religiosa,
ristampa Cappelli 1990, p. 41).
Io non sono sicuro di avere,
in questi pochi cenni, compreso la teologia di Capitini. Mi pare che
una sua preoccupazione sia di rompere l'individualismo di una
appartenenza pigra e formale ad una istituzione religiosa e
dottrinale, che fornisce un concetto definito di Dio, per trovare Dio
«lentamente, attraverso crisi (…) in un'intimità maggiore di
prima» (Elementi…
p. 41). Un altro intento di Capitini è quello che Martini (SFR, p.
XXVIII) chiama "universalistico" meglio che "ecumenico".
Forse questo intento spiega la presenza di aspetti diversi e anche
opposti nel pensiero religioso di Capitini, quasi per cercare una
base comune a tutte e oltre tutte le religioni.
Uno dei motivi della rottura
di Capitini col cattolicesimo fu la concezione rigida dell'inferno,
di un dio che condanna i peccatori impenitenti all'inferno eterno,
ribadita da Pio XII e presente in certe tradizioni protestanti
addirittura nella forma della doppia predestinazione, (la libertà
arbitraria riconosciuta a Dio, per esaltarne l'assoluta grandezza e
diversità, di salvare o dannare chi lui vuole, "ante praevisa
merita)". Tutte queste idee, se non sbaglio, sono oggi molto
discusse in ogni ambito cristiano pensante.
6. Religione e politica
Come Gandhi (si veda almeno
Teoria e pratica
della nonviolenza,
Einaudi 1996, p. 31) Capitini collega religione e politica, senza
paura degli equivoci tipici della storia europea ed italiana,
derivanti dal fatto che la religione vi appare principalmente come
una istituzione sociale, con una sua potenza, in competizione con
l'istituzione politica, lo stato. Ma se religione è persuasione e
movimento intimo, non intimistico, allora essa rifluisce in frutti di
dedizione al tu-tutti nella vita e nell'azione della comunità
politica, senza rivalità istituzionali. Leggiamo Capitini:
«Per essere veramente
religiosi bisogna passare per la vita pubblica. Si può anche essere
stiliti o eremiti per riordinare la propria vita interiore, ma poi
bisogna fare vita pubblica, e solo su questa sorge la vita religiosa
che porta aperture e aggiunta» (Il
potere di tutti, La
Nuova Italia 1969, p. 385, cit. da Rocco Altieri, Aldo
Capitini e la nonviolenza nell'incontro tra religioni orientali e
occidentali, in
Nonviolenza e
giustizia nei testi sacri delle religioni orientali, Atti
del convegno della Facoltà di Lettere dell'Università di Pisa,
24-26 maggio 1995, a cura di Caterina Conio e Donatella Dolcini, ed.
Giardini, Pisa 1999, pp. 303-312).
Ma nella concezione di
Capitini, è noto, la vita pubblica non è soltanto, e non è per lui
personalmente, politica nelle istituzioni del potere, bensì
partecipazione di tutti, dal basso, a costruire tutti insieme
l'orientamento generale, attraverso il "potere di tutti",
là dove i valori ideali e morali possono influire meglio nelle
scelte politiche. Si sa che l'opposizione di Capitini al fascismo fu
opposizione religiosa, come egli dichiara e ricorda più volte.
Recentemente, commemorando a Torino il grande vescovo brasiliano
Helder Camara, morto il 28 agosto 1999, Ermis Segatti osservava che
l'Europa ha vissuto grandi istanze di libertà, ma senza coniugarle
con l'ispirazione religiosa, come invece è avvenuto nell'America
Latina. Ecco un altro sintomo, dal mondo extra-europeo
(latino-americano questo, asiatico in Gandhi), di un rapporto tra
religione e politica nel quale Capitini ha, tra noi, un ruolo
originale.
7. Capitini evangelico
¿Post-cristiano? ¿Oppure
davvero evangelico? ¿«Cristiano senza chiesa», come diceva di sé
Silone? (Introduzione a L'avventura
d'un povero cristiano,
Mondadori 1968). Capitini non è cristiano nel senso proprio del
termine: cristiano è chi, sulla parola e per la testimonianza di
Gesù di Nazareth, tramandata nella tradizione della fede, crede che
Gesù è vero Dio e vero uomo, e crede nella intima uni-trinità di
Dio rivelata da Gesù. Questo, nella religione aperta di Capitini,
non c'è. Ma c'è molto di quanto di più essenziale Gesù ha
insegnato con i fatti e con la sua vita; c'è molto di ciò che è
salvezza dell'esistenza umana, secondo l'annuncio evangelico. In
Capitini c'è la nonviolenza, che è amore senza condizioni: non il
sentimento d'amore della piena concordia (i cuori insieme), ma la
volontà di bene anche per l'avversario e per chi ti è nemico. Io
credo che la nonviolenza attiva, la ricerca di trasformazione e
soluzione non distruttiva e non offensiva dei conflitti umani, dal
micro al macro, sia la forma laica, attuale, dell'amore fattivo
esteso fino ai nemici, e che questo amore - che noi ci pensiamo o no,
che noi lo riconosciamo o no come tale - sia il più grande segno di
Dio nella vita umana. Dio non agisce miracolisticamente, ma nella
comparsa di novità che salvano dal male: l'amore fino ai nemici è
questa novità, questa guarigione profonda, questa liberazione dai
demòni che ci rendono omicidi. Capitini ha vissuto e detto questo,
ha accolto in pieno la novità evangelica senza l'interpretazione
teologica - del resto non trascurabile ma preziosa, io credo, per lo
stesso vivere in modo evangelico - che tutte le chiese cristiane
concordemente ne hanno sempre dato. Capitini cristiano
pratico nel rifiuto teorico,
potremmo dire.
Amare chi non ti ama, avere
l'«iniziativa assoluta» (termine di Capitini), porre l'atto, dare
più che ricevere, non uccidere e non offendere, non mentire, sperare
l'insperabile, non rassegnarsi al potere del male, perdonare,
attendere e preparare la «realtà liberata», vedere la fecondità
della sofferenza accettata (Capitini usa spesso il termine di "croce"
per dire il prezzo meritevole da pagare nella lotta nonviolenta):
tutto ciò è vita evangelica, vissuta negli spazi della "lieta
notizia", ed è essa stessa una lieta notizia, un "evangelo"
per chi la incontra.
Ciò sia detto, ovviamente,
non per annettere Capitini ad una chiesa e ad una credenza che ha
avuto motivo di rifiutare, ma per riconoscere in lui lo stesso flusso
di verità e di bene che un cristiano trova nell'ascoltare e seguire
Gesù di Nazareth. Tutto ciò è motivo di lieta gratitudine, di
allargamento del cuore e della speranza, è "religione aperta".
Enrico Peyretti
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