30 marzo 2018 - Venerdì santo
La liturgia del
venerdì santo mi ha toccato particolarmente, quest'anno. La
seguo fin da piccolo. Allora, prima della riforma, era in
latino, incomprensibile, ma il significato ce lo spiegavano
bene, lo capivamo. La croce è uno strumento per uccidere nel
modo più tormentoso. La forca, al confronto, è eutanasia, per
non dire della fucilazione. In più, uno come Gesù, venne
minuziosamente torturato e umiliato, prima di essere
inchiodato. Sono vicini a lui le migliaia di scomparsi nel
ventre delle prigioni e delle sale di tortura, come minimo
psicologica, ma anche fisicamente accurata, che non mancano
dove c'è il potere degli uni sugli altri. Dicono gli studiosi che i
racconti della passione di Gesù sono le pagine più antiche dei
vangeli, e credo che abbiano probabilità di essere veritiere,
anche perché non indulgono sui particolari atroci, li dicono
solo sobriamente. Un uomo buono e illuminato, che aveva fatto
solo del bene, venne schiacciato ferocemente, ad opera dei
potenti, si capisce, perché la bontà e la verità li offende,
ma anche tradito dal popolo che lo aveva seguito e osannato, e
abbandonato persino dai suoi amici più vicini. Una sofferenza
indicibile. Vedere la croce nuda e venerarla in silenzio,
nella liturgia di oggi, fa vedere e sentire, nella sofferenza
di Gesù, l'accumulo di tutte le sofferenze umane, di tutti i
tempi, quelle fisiche, naturali o inflitte volontariamente, e
quelle morali, più invisibili e profonde, intime. Sto bene in
salute, ho tutto, e vengo chiamato a sentire in piccola,
piccolissima parte, il dolore del mondo, di tutte le creature
viventi. A sentire l'offesa fatta all'uomo giusto, all'uomo
buono; il disprezzo volontario, accanito o (forse peggio)
inconsapevole, di quanto c'è di buono, di vero, di bello,
nella vita. E' vivere la tragedia, che fa vacillare. Per
fortuna, e per la mia leggerezza, è una esperienza breve, poi
si passa ad altro, la giornata è fatta di tante cose. Ma
dentro resta un segno, indelebile. E la liturgia, la memoria
di Cristo, ci dice anche che il suo amore per tutti, senza
alcuna discriminazione, l'amore anche per i suoi aguzzini, è
stato superiore a tutto quel male; è ancora superiore,
vivente, più forte del male e della morte cattiva. La memoria
cristiana ci trasmette questo. Noi riceviamo, ascoltiamo,
vorremmo essere così semplici e umili da accogliere davvero,
per viverlo nelle cose di ogni giorno, questo amore di un uomo
come noi, più vivo di noi, così che il male non ci spaventi
più, e il bene non sia un sogno vuoto. Speriamo.
Enrico
venerdì 30 marzo 2018
lunedì 26 marzo 2018
Martin Luther King e Gandhi (27 marzo 2018)
Per il 50° del martirio di King, il prossimo 4 aprile 2018,
rimetto a disposizione questo scritto di dieci anni fa, in cui ancora mi riconosco
(Iniziative delle Chiese Battiste in Piemonte per
il 40° anniversario della morte di Martin Luther King – Torino, 11
aprile 2008, rivisto 22 aprile)
Sommario - Un messaggio di Gandhi agli afro-americani - Gesù
e Gandhi - La scoperta di Gandhi - Spiritualità nera - Pacifismo non
superficiale - Il modello di Cristo reinterpretato - Religione e
storia - La condanna della guerra - Democrazia, violenza, guerra -
Originalità di Martin Luther King - Parole ultime, supreme
**********
Cercherò
di vedere, nel suo cammino di formazione, di pensiero e di azione, il
rapporto di Martin Luther King con Gandhi, l’influenza di Gandhi
sul suo spirito e sulla sua azione.
Ernesto
Balducci scrive che il linguaggio dei sermoni di Martin Luther King
è «piano,
empirico, scevro da profondi concetti». Sembra una svalutazione, ma,
continua Balducci, essi «nascono da una sintesi profonda e svelano
inaspettate possibilità storiche» (Presentazione,
in King, La
forza di amare,
Sei, Torino 1967, p. 14). Si potrebbe dire lo stesso dei discorsi,
conversazioni, lettere e articoli di Gandhi, anch’egli efficace
comunicatore diretto, più che scrittore, di calde verità scoperte
nell’esperienza. Anche King come Gandhi
potrebbe intitolare una sua autobiografia Storia
dei miei esperimenti con la verità.
*
Un messaggio di Gandhi agli afro-americani
Si
scopre subito un curioso casuale punto di contatto fra Gandhi e King:
Gandhi, nel 1929, attraverso una delegazione guidata proprio da
Mordecai Johnson (influente maestro di King), invia un messaggio agli
afro-americani: «Non
lasciate che dodici milioni di Neri si vergognino del fatto di essere
nipoti di schiavi. Non v’è disonore nell’essere schiavo. C’è
disonore nell’essere proprietari di schiavi. Ma non pensiamo in
termini di onore o disonore in rapporto al passato. Rendiamoci conto
che il futuro è con quelli che vorranno essere veritieri, puri e
amorevoli. Giacché, come gli antichi saggi hanno detto, la verità
sempre è, la menzogna non è mai stata. L’amore soltanto vincola,
e verità e amore maturano solo per chi è sinceramente umile».
Molti
afro-americani andavano in pellegrinaggio da Gandhi. Ad un altro
gruppo di loro, sei anni dopo, nel 1935, Gandhi chiese di cantare un
inno cristiano, che amava, Were
you there when they crucified my Lord?
Gandhi era molto sensibile, come dimostrò anche nel suo passaggio a
Roma nel 1931, alla figura di Cristo crocifisso, che in quella
occasione contemplò nella Cappella Sistina. Dopo quel canto, egli
rimase un po’ in silenzio, poi disse: «Forse sarà attraverso il
Nero che il messaggio della nonviolenza non adulterato sarà
consegnato al mondo» (cfr Gabriella
Lavina, Serpente e
colomba. La ricerca religiosa di Martin Luther King,
Edizioni Città del Sole, Napoli 1994,
p, 290-291. Il messaggio di Gandhi del 1929 fu pubblicato nel n. di
luglio 1929 di The
Crisis,
periodico per la promozione della gente di colore).
Non
sembra forse, quel messaggio di Gandhi, un sermone di King? Egli
infatti «ne ripeterà il concetto, fino alla fine, quasi alla
lettera» (Lavina, op. cit., p. 310). Ma la coincidenza curiosa, si
direbbe addirittura provvidenziale e profetica, è che King è nato
il 15 gennaio 1929, ed è un bambino di pochi mesi quando Gandhi,
quasi come Simeone nel tempio col piccolo Gesù tra le braccia (Luca
2, 25-35), pronuncia queste parole ai neri americani, come per
investire Martin Luther King della sua missione, per le vie
invisibili dello spirito. Sono entrambi membri di una popolazione
assoggettata, privata di diritti, di indipendenza, di autonomia.
Accomuna
i due personaggi la condizione di appartenenza ai poveri e oppressi.
King, nero, discendente da schiavi, e Gandhi, extraeuropeo, membro di
un popolo colonizzato, hanno in comune più di quanto li separa.
Prima del metodo di lotta per il loro diritto, prima della coscienza,
della cultura, della spiritualità, della forza della pazienza, hanno
in comune la condizione di partenza. E noi cristiani vediamo che
quella condizione di servo è la condizione umana assunta dal Figlio
di Dio: non solo l’umanità, ma la condizione di servo: «Lui che
si trovava nella forma di Dio, non stimò un bene irrinunciabile [non
tenne per sé come una rapina, come una preda da non spartire]
l’essere come Dio [la sua eguaglianza con Dio], ma svuotò se
stesso prendendo forma di servo, diventando simile agli uomini; ed
essendo quale uomo, si umiliò facendosi obbediente fino alla morte e
alla morte di croce» (Filippesi, 2, 5-8).
Il
fatto che Dio assuma l’umanità del servo – scrive Raniero La
Valle – significa che «gli uomini considerati più lontani, più
dissimili e incommensurabili a Dio in questo mondo, proprio loro non
si possono separare dall’amore di Dio, (...) proprio loro, i servi,
gli schiavi, i neri, gli indigeni, le donne, i bambini, gli esclusi,
gli esuberi, i poveri, i profughi, sono i cittadini del regno» (Se
questo è un Dio,
Ponte alle Grazie, 2008, p. 158).
Appartenendo
a popoli di servi, sia King che Gandhi, hanno questa somiglianza col
Cristo, e gli somigliano anche perché, nel servire i loro popoli nel
cammino della dignità, nel “pellegrinaggio alla nonviolenza”,
anch’essi operano con un amore forte come la morte, che patiscono
entrambi, ingiusta e violenta, a vent’anni di distanza l’uno
dall’altro.
*
Gesù e Gandhi
«Gesù
forniva lo spirito, Gandhi il metodo» (M. L. King, Stride toward
freedom. The Montgomery Story,
1958, p. 67; trad. ital. Marcia verso la libertà, 1968
). È nota questa sintesi, per King, del rapporto tra Gesù, il
vangelo, la nonviolenza evangelica, e la lezione dell’esperienza di
Gandhi. Mentre gli autori afro-americani valorizzano in King la
denuncia del razzismo della società bianca, gli autori
euro-americani identificano King con la nonviolenza, intesa come
ripudio della violenza. Per questi autori, la nonviolenza sarebbe il
frutto della tradizione sociale cristiana, e precisamente della
cultura teologica protestante di King, che avrebbe preso il concetto
da Gandhi, ma solo strumentalmente. Quella formula sintetica di King
su Gesù e Gandhi darebbe ragione a questi autori.
Però
la nonviolenza non è automaticamente correlata al cristianesimo
storico, che ha trasmesso nella storia il messaggio di Gesù. King è
un cristiano che vive il suo cristianesimo nell’esperienza
nonviolenta, che è già nell’evangelo ma è chiarita, riscoperta,
applicata alla politica e alla storia, sviluppata nella pratica
collettiva, rammemorata da Gandhi agli stessi cristiani, i quali
nella storia l’avevano largamente rinnegata (cfr Lavina, op. cit.,
p. 38).
King
dichiara, nel 1963, «Sono felice di dire che il movimento
nonviolento in America non è derivato da forze secolari ma dal cuore
della Chiesa Nera. (...) I grandi princìpi di amore e giustizia che
stanno al centro del movimento nonviolento sono profondamente
radicati nella nostra tradizione giudeo-cristiana». Dice «dal cuore
della Negro Church». Gabriella Lavina ne deduce che «le fonti del
pensiero di King non si esauriscono in quelle incontrate in
seminario» (p. 64). Nella tradizione giudeo-cristiana c’era la
radice, ma non c’era lo sviluppo, che è avvenuto nella impresa dei
popoli schiavi di liberarsi dalla violenza evitando di cadere schiavi
della violenza.
È
vero, come molti hanno detto, che il movimento ha creato King e non
King il movimento. Ma M.L. King è emerso nel movimento cristiano
nero nonviolento per chiarezza di visione e di spirito. Egli è guida
nonviolenta nel cristianesimo, come Gandhi nell’induismo e Badshah
Khan (ingiustamente meno conosciuto) nell’islam.
Scrive
King: «La tradizione religiosa del nero gli ha mostrato che la
resistenza nonviolenta dei primi cristiani ha costituito un’offensiva
morale di una tale devastante forza da far vacillare l’impero
romano. La storia americana gli ha insegnato che la nonviolenza,
sotto forma di boicottaggi e proteste, ha disorientato la monarchia
britannica e posto le basi per la liberazione delle colonie
dall’ingiusta dominazione. E, nel corso di questo secolo, l’etica
nonviolenta del Mahatma Gandhi e dei suoi seguaci ha fatto tacere le
armi dell’impero britannico in India e ha liberato oltre 350
milioni di persone dal colonialismo» (testo citato in King, Il
sogno della nonviolenza. Pensieri,
a cura di Coretta King, Feltrinelli 2006, p. 76-77).
E
scrive anche: «Noi abbiamo un potere, è un potere che non si trova
nelle bottiglie Molotov, ma noi abbiamo un potere. Un potere che non
si trova nelle pallottole o nelle pistole, ma noi abbiamo un potere.
È un potere antico come la sapienza di Gesù di Nazareth e moderno
come le tecniche del Mahatma Gandhi» (ivi, p. 71).
Dunque,
Gandhi aiuta Martin Luther King non solo a riscoprire e valorizzare
le radici cristiane della nonviolenza, ma a capirla meglio
correggendo un modo errato di pensarla, come vedremo tra poco.
*
La scoperta di Gandhi
Quando
parla della sua vita, a più riprese, Martin Luther King ne parla
come di un pellegrinaggio, e precisamente un “pellegrinaggio alla
nonviolenza”. Con questo titolo King pubblicò in successive
versioni un testo autobiografico (apparso in italiano in due
differenti versioni nel volume citato La
forza di amare,
e nella rivista Azione
nonviolenta,
aprile-maggio 1968, poi, insieme a Lettera
dal carcere di Birmingham,
del 1963, nel n. 14 dei Quaderni
di Azione Nonviolenta,
Edizioni del Movimento Nonviolento, 1993, dal quale cito). In esso,
King riferisce dei suoi studi superiori in teologia e filosofia,
intrapresi nel 1948, delle ampie letture, tra cui il Saggio
sulla disobbedienza civile,
di Thoreau (che già aveva ispirato Gandhi; e attraverso Gandhi, King
capì Thoreau più come trascendentalista che come anarchico; v.
Lavina, op. cit., p. 240, 262-263 ); lesse Marx, Nietzsche, gli
utilitaristi, Hobbes, Rousseau.
Aveva
sentito parlare di Gandhi, ma non lo aveva mai studiato seriamente,
quando, nella primavera del 1950 (Lavina, op. cit., p. 287), ascoltò
a Philadelphia un sermone del Dr Mordecai Johnson, che era appena
tornato da un viaggio in India e parlò della vita e
dell’insegnamento di Gandhi. «Il suo messaggio era così profondo
ed elettrizzante che lasciai la riunione e acquistai una mezza
dozzina di libri sulla vita e le opere di Gandhi», scrive King. «Fui
profondamente affascinato dalle sue campagne di resistenza
nonviolenta». «Il mio scetticismo riguardo la potenza dell’amore
gradualmente diminuì e giunsi, per la prima volta, a capire la sua
efficacia nel campo della riforma sociale».
Aggiunge
che, prima, credeva che l’etica di Gesù fosse efficace soltanto
nei rapporti individuali, «ma, dopo aver letto Gandhi, vidi che ero
completamente in errore». «Gandhi fu probabilmente la prima persona
della storia ad elevare l’etica dell’amore di Gesù al di sopra
dei rapporti individuali e a trasformarla in una forza sociale su
larga scala, potente ed efficace, (...) strumento potente per operare
un mutamento sociale collettivo». In Gandhi «scoprii il metodo per
la riforma sociale, del quale ero andato alla ricerca per tanti
mesi». «Giunsi a sentire che questo era l’unico metodo,
moralmente e praticamente valido, a disposizione delle persone
oppresse nella loro lotta per la libertà» (Pellegrinaggio
alla nonviolenza,
p. 21-22).
Nell’autunno
dello stesso 1950, King fa una relazione su Gandhi in un corso sulle
“personalità religiose”, con una bibliografia notevolmente
ampia, e ne approfondisce la personalità e il pensiero. Tuttavia, il
suo interesse per Gandhi non lo fa ancora impegnare, come altri
studenti, in nessuna organizzazione “pacifista” (Lavina, op.
cit., p. 286-287 e 308).
*
Spiritualità nera
Restiamo
un momento sulla figura di questo maestro di King, Mordecai Johnson:
predicatore battista, personalità della cultura afro-anericana,
conscio di dovere ricostruire una visione del mondo libera dai
condizionamenti della schiavitù, esprime la delusione degli
afro-americani al termine della prima guerra mondiale, ma non
condivide atteggiamenti di protesta radicale. Negli anni venti aveva
dichiarato: «Un più largo gruppo tra noi crede nella religione e
crede nei princìpi della democrazia, ma non nella religione
dell’uomo bianco
e non nella democrazia
dell’uomo bianco».
Egli
è persuaso che il credo schiavista è il credo tacito dell’intera
nazione americana, e che «il Nero non può aspettarsi di acquisire
libertà economica, politica e spirituale in America». All’epoca,
partecipava al movimento per la fondazione della Republic
of Africa.
Anche la concezione di Dio era contrapposta a quella dei bianchi: «un
Dio che si
oppone allo sfruttamento
e che ama
tutta l’umanità».
I bianchi affermano i princìpi, ma nella realtà li applicano per
millimetri e con riluttanza. Mordecai Johnson era persuaso della
imminente sconfitta del colonialismo grazie a «un uomo religioso in
India che non conosceva violenza». L’abolizione della segregazione
avrebbe distrutto le fondamenta stesse della civiltà americana e
della supremazia bianca nel mondo, perciò era tanto paventata e
impedita. Un vero superamento del sistema non poteva venire dalla
legislazione, ma da convinzione morale e forza spirituale; non
sarebbe bastato l’assenso della maggioranza, ma occorreva un
«salto» nella «qualità dell’anima» (cfr Lavina, op. cit., pp.
288-290). È evidente l’affinità col sentire di King. Grazie a
queste correnti spirituali che incontra, King trova nella comunità
afro-americana un interesse e una disponibilità allo spirito di
Gandhi.
*
Pacifismo non superficiale
King
fa anche lui un viaggio in India nel 1959, per studiare le tecniche
nonviolente di G, ed è ospite di Nehru. Scalzo, rende omaggio al
mausoleo di Gandhi, nel punto in cui fu eretto il rogo funebre, a
Delhi (strano errore quello di Lavina, che parla della “tomba” di
Gandhi, a p. 62).
Continuando
a narrare il suo “Pellegrinaggio alla nonviolenza”, King ci dice
di aver letto la critica che al pacifismo rivolgeva Reinhold Niebuhr
(che pure era stato presidente del Mir, Movimento per la
Riconciliazione). Niebuhr rifiutava il pacifismo soprattutto perché
esso «non
era in grado di rendere giustizia alla dottrina della Riforma sulla
giustificazione per fede, sostituendo ad essa un perfezionismo
settario, che crede che “la grazia divina realmente solleva gli
uomini fuori dalle immorali contraddizioni della storia e pone l’uomo
al di sopra dei peccati del mondo”».
Niebuhr giudicava che Gandhi avesse avuto buon gioco con gli inglesi
perché questi possedevano una coscienza morale. Noi però sappiamo
che il dominio inglese fu anche assai duro, fino a casi estremi come
la strage di Amritsar (1919) e i bombardamenti dei villaggi (cfr
Eknath
Easwaran, Badshah
Khan il Gandhi musulmano,
Sonda, Torino, 1990, pp. 14-15): il bombardamento aereo sistematico
di obiettivi civili fu praticato dagli inglesi, ben prima dei
tedeschi a Guernica, su Kabul e Jalalabad nel 1919 dalla Royal Air
Force, e su villaggi della Frontiera, sostenendo che con quelle
popolazioni non si poteva condurre la “guerra civilizzata”. Alla
conferenza sul disarmo aereo, Ginevra 1933, non la Germania ma la
Gran Bretagna si oppose alla proposta di bando del bombardamento
aereo su civili.
Dapprima
confuso dalla critica di Niebuhr, King ne vide poi più chiaramente
gli errori, e scrive: «Egli interpretava il pacifismo come una
specie di non-resistenza passiva al male» e una «ingenua fiducia
nel potere dell’amore». Questo era un «grande fraintendimento»,
scrive King: «Il mio studio di Gandhi mi aveva convinto che il vero
pacifismo non è non-resistenza al male, ma resistenza nonviolenta al
male. Fra le due posizioni c’è enorme differenza».
Però,
Niebuhr influenzò su diversi punti il pensiero di King, in maniera
costruttiva: egli riconosce che il grande contributo di Niebuhr
consiste nel «rifiuto del falso ottimismo» teologico nella
concezione dell’uomo. Questo aiutò King «a riconoscere le
illusioni di un superficiale ottimismo concernente la natura umana, e
i pericoli di un falso idealismo». Egli vedeva che molti pacifisti
«avevano un ottimismo infondato riguardo all’uomo e tendevano
inconsciamente verso l’ipocrisia». Per questo motivo King non
entrò mai a far parte di una organizzazione pacifista. Egli scrive
ancora: «Dopo aver letto Niebuhr, cercai di arrivare a un pacifismo
realistico. In altre parole, giunsi a considerare la posizione
pacifista non senza peccato, ma come il minor male nelle attuali
circostanze. Sentii allora, e sento ora, che i pacifisti troverebbero
maggior consenso, se non affermassero di essere liberi dai dilemmi
morali che i non-pacifisti cristiani affrontano» (Pellegrinaggio
alla nonviolenza,
pp. 22-23)
Concludendo
questo testo con la descrizione di sei aspetti fondamentali della
nonviolenza, King dimostra di avere studiato e compreso a fondo lo
spirito e i metodi di Gandhi, che vede in armonia con l’agape
cristiana, l’amore fino ai nemici (ivi, pp. 25-28).
Quando
ancora, negli anni ’50, King è occupato nell’approfondimento del
pensiero di Niebuhr, incontra quel suo interrogativo, confermato
dalla storia, relativo alla Realpolitik: «Se
per distruggere una forza [un egoismo] ce ne vuole un’altra [altri
egoismi], che garanzie ci sono che la seconda forza possa essere resa
più morale della prima?». Niebuhr si accontenta della proposta di
contenere la coercizione necessaria nei limiti minimi compatibili con
i fattori morali e razionali. King, avvicinandosi a Gandhi, comprende
che il problema si sposta dal dilemma irrealistico
coercizione/persuasione a quello «tra coercizione violenta e
coercizione nonviolenta» (cfr Lavina, op. cit., pp. 353-354). La
nonviolenza, infatti, è una forza, è anche una forza che piega e
costringe l’avversario. Ma è una costrizione che non infligge
sofferenza ingiusta, non viola la libertà altrui, ma certamente
preme sull’oppressore col rendergli, mediante la resistenza, più
costosa la continuazione dell’oppressione che il suo abbandono o
attenuazione (v. il mio Esperimenti
con la verità. Saggezza e politica di Gandhi,
Ed. Pazzini, 2005, pp. 48 e 51-52, e Giuliano Pontara, Il
pensiero etico-politico di Gandhi,
saggio introduttivo a Gandhi, Teoria
e pratica della nonviolenza, Einaudi
1996, p. CII- CIV). Questa è la coercizione nonviolenta, che non è
una violenza mascherata, non è affatto costringere l’avversario a
fare la mia volontà per mezzo della sofferenza che gli infliggo; è
invece mettere l’avversario nella condizione di vedere che, se
infligge a me sofferenza ingiusta, anche lui deve incontrare un
costo, un prezzo, che gli conviene evitare. La parte che lotta per la
giustizia resiste all’ingiustizia accollandosi la sofferenza
invece di infliggerla; ma così il dominare e far soffrire uno che
non subisce passivamente, fa spendere più energia e mezzi al
dominatore, fino a indurlo, per convenienza se non per coscienza, a
scendere a patti e negoziare una relazione meno ingiusta o più
giusta.
*
Il modello di Cristo reinterpretato
L’affinità
«intima, e non presuntuosa o “strategica”»
tra King e Gandhi si era stabilita sulla base di una
reinterpretazione del modello di Cristo: non più il modello della
acquiescenza umile e passiva, della sua disposizione alla sofferenza
(Lavina, op. cit. p. 295). Secondo il teologo Howard Thurman,
frequentato da King, le chiese cristiane avevano «tradito gli
ultimi, con la loro enfasi sul paradiso, il perdono, l’amore e
simili». Addirittura, diceva che «trovava molto poco di
significativo o intelligente negli insegnamenti della chiesa
concernenti Gesù Cristo».
Thurman
aveva personalmente chiesto a Gandhi: «Qual è il più grande
ostacolo che Gesù ha in India?». E Gandhi aveva risposto
«istantaneamente»: «Il cristianesimo» (Lavina , op. cit. p. 297).
È noto che Gandhi, profondo ammiratore di Gesù, era convinto che il
cristianesimo ortodosso «ha travisato il messaggio di Gesù. (...)
Quando ebbe l’appoggio di un imperatore romano, esso diventò una
fede imperialista, quale rimane tutt’ora. Naturalmente ci sono
nobili seppur rare eccezioni, ma l’orientamento generale è quello
che ho indicato» (Gandhi, Antiche
come le montagne, Ed. di Comunità,
1965, p. 83). Thurman possedeva una lettera di Gandhi indirizzata a
Muriel Lester, nella quale leggeva lo stesso atteggiamento di
«completa e devastante sincerità», di devozione alla verità, che
fu di Gesù col discorso del “sì se è sì, no se è no”, senza
modifiche né aggiunte.
Sicuramente
Gandhi ha, come Gesù, la capacità di soffrire per gli altri e di
testimoniare con questa forza coraggiosa la verità del suo
messaggio, ma, contro ogni collaborazione passiva al male, esorta a
ribellarsi anche con la violenza piuttosto che subire l’ingiustizia,
ma ricorda sempre che c’è una terza migliore possibilità, che è
la forza della nonviolenza. In prima istanza deve esserci la risposta
attiva al male, in seconda istanza deve esserci la scelta della
risposta nonviolenta invece che violenta (cfr Jean-Marie Muller, Il
principio nonviolenza. Una filosofia della pace,
Pisa University Press, 2004, pp. 287-288). King ha insegnato e ha
vissuto il coraggio di saper soffrire per la giustizia, insieme alla
franca “assertività”, come viene definito l’atteggiamento che
Erich Fromm chiama «aggressività benigna», azione costruttiva,
differente dalla aggressione maligna, distruttiva (cfr tutta la terza
parte di Anatomia della distruttività
umana, Mondadori 1979).
Il
«potere su se stessi» è l’insegnamento più
forte che Thurman raccoglie da Gandhi, e che, attraverso la
mediazione gandhiana, vede anche più lucidamente in Gesù. La
coscienza interiore di Gesù, la sua totale comunione con Dio, sono
quel “potere di”, e non “potere su” qualcun altro, che gli
consente di resistere alle tentazioni, di sostenere la sua missione
fino al coraggio di morire per amore, di amare totalmente l’umanità
e la verità. Così, come scrive Benjamin Mays (un’altra
personalità influente su King), se anche si volesse giudicare
fallita la campagna nonviolenta di Gandhi, «il fatto che Gandhi
abbia dato alle masse indiane una nuova concezione del coraggio,
nessuno può onestamente negarlo. Disciplinare la gente a guardare in
faccia la morte, a morire, ad andare in carcere per la causa, senza
paura e senza ricorrere alla violenza, è un risultato di prima
grandezza. E quando una razza oppressa smette di avere paura, è
libera. I princìpi cardinali della nonviolenza sono amore e
impavidità» (cfr Lavina, op. cit., p. 307).
Analogamente,
scrive Galtung: «Una rivolta del tipo auspicato da Gandhi ha inizio
dall’acquisizione di un forte potere su se stessi, e la chiave è
il rispetto di se stessi, connesso con un forte sistema di credenza»
(Johan Galtung, Gandhi oggi,
Ed. Gruppo Abele, 1987, p. 175, citato da Lavina, p. 373).
A
questi aspetti cruciali dell’insegnamento e dell’esperienza di
Gamdhi, M. L. King mostrerà di consentire profondamente, anzitutto
con le sue decisioni, le azioni personali e gli incoraggianti esempi
agli altri, poi anche in alcune grandi pagine, come, per esempio, il
capitolo Antidoti per la paura,
in La forza di amare
(già citato), e, in questo stesso libro, quella specie di
intimazione d’amore agli avversari: «Noi faremo fronte alla vostra
capacità di infliggere sofferenza con la nostra capacità di
sopportare le sofferenze, andremo incontro alla vostra forza fisica
con la nostra forza d’animo. Fateci quello che volete e noi
continueremo ad amarvi. (...) Ma siate sicuri che vi vinceremo con la
nostra capacità di soffrire. Un giorno, noi conquisteremo la
libertà, ma non solo per noi stessi: faremo talmente appello al
vostro cuore e alla vostra coscienza che alla lunga conquisteremo
voi,
e la nostra vittoria sarà una duplice vittoria» (La
forza di amare, p. 87).
Quando
traccia un bilancio dell’esperienza di Montgomery, K intreccia
costantemente l’insegnamento di Gandhi con quello di Gesù. Sempre
più chiaramente, ai suoi occhi, l’amore di cui parlò Gesù si è
andato identificando con la nonviolenza e la disponibilità al
sacrificio di Gandhi (cfr Lavina, op. cit., p. 557)
*
Religione e storia
Abbiamo
visto, dunque, che l’interesse per Gandhi aveva radici profonde
nella comunità afro-americana, e che King lo mutua anzitutto dal suo
ambiente, anche se vi aggiunge un’attenzione viva e personale. Ma
solo più tardi, nel vivo dell’azione diretta, questo impatto verrà
alla luce più pienamente, e sarà pienamente compreso dallo stesso
King. Da Gandhi si sente affascinato. Ne studia le campagne
sudafricane, poi le lotte indiane. Dichiara «profondamente
significativo» per lui il concetto di Satyagraha che, eguagliando
verità (satya) e amore, egli traduce immediatamente in «forza della
verità, ovvero forza
dell’amore»,
espressione sua caratteristica. Come abbiamo già sentito, riconosce
in Gandhi «la prima persona nella storia ad elevare l’etica
dell’amore di Gesù, al di sopra della semplice interazione tra
individui, a forza sociale potente ed efficace su una larga scala.
Per Gandhi l’amore era uno strumento potente per la trasformazione
sociale e collettiva». Dice che grazie a Gandhi scoprì «nell’amore
e nella nonviolenza (...) il metodo per la riforma sociale di cui ero
stato alla ricerca per tanti mesi» (Cfr Lavina, op. cit., p. 319 e
338).
«Qualsiasi
religione che professa l’interesse per le anime degli uomini e non
per le condizioni sociali ed economiche che sfregiano l’anima, è
una religione spiritualmente moribonda in attesa del giorno della
sepoltura. È stato affermato giustamente: “Una religione che
finisce con l’individuo, muore”» (Pellegrinaggio
alla nonviolenza,
p. 18).
«Io
non riesco a vedere alcun conflitto tra la nostra devozione a Gesù
Cristo e la nostra azione presente. In effetti, io vedo una relazione
necessaria. Se si è veramente devoti alla religione di Gesù si
cercherà di liberare la terra dai mali sociali. Il vangelo è
sociale tanto quanto personale. Stiamo soltanto facendo in tono
minore quello che Gandhi fece in India, e certamente egli è
considerato da molti un santo» (Stride
toward freedom, citato,
p. 98; in Lavina, p. 477).
*
La condanna della guerra
Sappiamo
che King passò, nell’ultimo periodo, dalla lotta per i diritti
civili dei neri, alla condanna della guerra, che era allora la guerra
del Vietnam. Probabilmente fu questo che gli costò la vita. In un
discorso del 4 aprile 1967, un anno esatto prima di essere ucciso,
diceva di condurre «un processo appassionato alla mia amata
nazione», di essere «costretto a vedere sempre più nella guerra il
nemico diretto dei poveri», di dover denunciare «il più grande
produttore di violenza del mondo d’oggi: il governo della mia
stessa nazione». Il problema era «salvare l’anima dell’America».
Ripercorre
la storia del Vietnam, fino al momento presente, in cui «siamo stati
vittime della nostra omicida arroganza occidentale, che avvelena da
tanto tempo la scena internazionale». «Il vero senso, il valore
reale della compassione e della nonviolenza è aiutarci a comprendere
il punto di vista del nemico, ascoltare le sue ragioni, conoscere il
modo con cui ci giudica». «Siamo noi che abbiamo cominciato la
guerra. Sta a noi prendere l’iniziativa per fermarla. (...)
L’immagine dell’America non sarà mai più l’immagine della
rivoluzione, della libertà e della democrazia, ma della violenza e
del militarismo». «Un’autentica rivoluzione dei valori significa,
in ultima istanza, che le nostre fedeltà debbono divenire
ecumeniche, e non semplicemente parziali, perché è sviluppando una
fedeltà primordiale all’umanità tutta intera che le nazioni
preserveranno il meglio della loro originalità». (Martin Luther
King, Oltre
il Vietnam,
Ed. La Locusta, Vicenza 1968, pp. 9, 11, 14, 19, 27, 32, 45).
*
Democrazia, violenza, guerra
In
queste parole molto gravi di King si vede pure l’influenza
implicita di Gandhi.
Sulla
«vera democrazia»
Gandhi aveva scritto il 12 novembre 1938: «La democrazia e la
violenza non possono coesistere. Gli stati che oggi sono formalmente
democratici, o sono destinati a divenire apertamente totalitari,
oppure, se vogliono divenire veramente democratici, devono avere il
coraggio di divenire nonviolenti»
(Gandhi, Teoria
e pratica della nonviolenza,
citato, pp. 270-271).
Nell’appello
del 7 luglio 1940 aveva proposto all’Inghilterra, aggredita dalla
Germania nazista, un coraggioso metodo alternativo di resistenza
nonviolenta, che non avrebbe comportato la contaminazione ma la più
radicale resistenza al nazismo: «Voi volete eliminare il nazismo, ma
non riuscirete mai ad eliminarlo adottando i suoi stessi metodi. (…)
La guerra non può essere vinta in altro modo. In altre parole voi
dovrete divenire più crudeli dei nazisti», se vorrete contrastarli
con la guerra (ivi, pp. 248-251).
E
prima ancora, il 18 maggio dello stesso 1940, con un severo giudizio
che non si può liquidare in fretta, Gandhi affermava ciò che è più
grave, cioè che questa contaminazione non è soltanto l’effetto
della guerra, ma è già nella concezione politica alla base delle
democrazie che non escludono la violenza: «La democrazia, finché è
sostenuta dalla violenza, non può fare l’interesse dei deboli o
proteggerli. La mia concezione della democrazia è che sotto di essa
il più debole deve avere le stesse possibilità del più forte.
Questo può avvenire soltanto attraverso la nonviolenza. (…) Nel
vostro paese [gli Stati Uniti] la terra appartiene a pochi
capitalisti. Lo stesso avviene in Sud Africa. Queste grandi proprietà
possono essere mantenute soltanto con la violenza, velata o aperta.
La democrazia occidentale, nelle sue attuali caratteristiche, è una
forma diluita di nazismo o di fascismo. Al più è un paravento per
mascherare le tendenze naziste e fasciste dell’imperialismo. (…)
Le vostre guerre non riusciranno mai a salvaguardare la democrazia»
(ivi, pp. 140-141).
Sono
giudizi severi, che possiamo anche discutere, noi occidentali, ma
dobbiamo ascoltarli per esaminarci. Martin Luther King è una delle
poche voci occidentali che hanno osato prendere in esame gli
avvertimenti di Gandhi sulla qualità delle nostre democrazie così
attrezzate per la guerra, nelle menti, nelle economie e nelle armi.
*
Originalità di King
Si
potrebbero osservare altri aspetti del rapporto tra King e Gandhi.
Mentre Gandhi fece del suo ascetismo, sebbene sereno e gioviale, una
condizione necessaria per la pratica della nonviolenza, K era
«empaticamente vicino alla terra. Egli conosceva il valore della
preghiera e del digiuno, ma non era da meno di nessun uomo negli
ordinari piaceri della vita. Non sentiva alcuna necessità di
rinunciare a un abbigliamento elegante, al buon cibo o al sesso per
essere efficacemente nonviolento» (William Robert Miller, che ha
scritto Gandhi
and King,
un articolo del 1969, cit. da Lavina, op. cit., p. 524). Si sa che
King fu spiato dalla polizia in qualche presunta avventura
extraconiugale, per ricattarlo. Coretta affermò di essere certa che
Martin Luther non aveva mai mancato di amare la sua famiglia.
King
non considera negativo o immorale il potere, il quale «inteso in
modo corretto, non è altro che la capacità di realizzare uno scopo»
(citato in Lavina, op. cit., pp. 524-525). In questo senso ammira
anche Nietzsche, ma è evidente che King pensa al “potere di”,
che deve essere di tutti (la “onnicrazia” di Aldo Capitini), e
non al “potere su”, di alcuni su altri, che non può essere di
tutti ed è perciò sempre vicino alla violenza.
In
questo ordine di idee, King, come già Gandhi, suggerisce una
importante distinzione tra forza e violenza: la forza è una qualità
della vita, è costruttiva, moralmente è la virtù della fortezza,
mentre la violenza è distruttiva e offensiva, immorale. Questa
distinzione è occultata, artatamente confusa e persino capovolta
dalla cultura violenta, che affida assurdamente alla distruzione la
difesa della vita.
*
Parole ultime, supreme
Sembra
che ogni grande, prima di toccare il culmine della sua esistenza e
della sua opera, che agli occhi del mondo è la sua fine, debba
vivere l’angoscia del fallimento: così è toccato a Gandhi, a
Francesco d’Assisi, a Gesù stesso, e anche a Martin Luther King,
nell’ultimo periodo. Egli pensò anche di fare un digiuno come
Gandhi, per fermare forme violente di lotta da parte dei neri. E
sembra che ognuno di questi grandi ritrovi la luce nel momento
supremo. Sembra che la loro morte riveli la loro vita.
Gandhi,
colpito con una pistola Beretta italiana, il 30 gennaio 1948, morì
invocando il nome di Dio: «He Ram», che da vent’anni aveva
l’abitudine di ripetere mentalmente, anche durante il sonno. M. L.
King, il 3 aprile 1968, il giorno prima di essere ucciso, disse in un
discorso (nel quale è evidente la citazione di Mosè, in
Deuteronomio 34, ma anche di Stefano, in Atti 7,55): «Non so quel
che accadrà ora. Abbiamo giorni difficili davanti a noi. ma davvero
non ha importanza per me adesso, perché sono stato sulla cima della
montagna. E non mi preoccupo. Come chiunque altro, mi piacerebbe
vivere a lungo: la longevità ha un suo valore. Ma non mi importa di
questo, adesso. Voglio solo fare la volontà di Dio. E lui mi ha
concesso di salire sulla montagna. E io ho guardato oltre. E ho visto
la terra promessa. Potrei non arrivarci insieme a voi. Ma stasera
voglio che sappiate che noi, come popolo, arriveremo alla terra
promessa. E stasera sono felice. Non mi impensierisco per nulla, non
temo alcun uomo. I miei occhi hanno visto la gloria dell’avvento
del Signore» (dall’ultimo discorso a Memphis, Tennessee, 3 aprile
1968, in Martin Luther King, Il
sogno della nonviolenza,
citato, p. 92).
Enrico
Peyretti, 2 aprile 2008, poi 8 e 22 aprile 2008
lunedì 12 marzo 2018
Riflessione
Il
conflitto, tra pericolo e opportunità
Intendo
proporre (riproporre) qui una semplice riflessione sul conflitto
suggerita nell'immediato dal libro di Marinetta Cannito, La
trasformazione dei conflitti. Un percorso formativo
(editrice
Claudiana. 2017, pp. 211, euro 18,00).
Occorre
anzitutto, per aprire un lavoro di elaborazione dei conflitti, di
ogni genere, liberare il termine “conflitto” dalla sinonimia con
“guerra”, che è diffusa nel linguaggio storico e
nell'informazione. Conflitto non vuol dire guerra. È una cultura
piegata al fatalismo bellicista quella che cattura la parola
riducendola a dire che un conflitto è sempre potenzialmente solo
violento, eliminatorio. Se pensi la guerra divinizzata, regina della
storia, ogni differenza e tensione è guerra, quasi necessariamente.
«Polemos
padre di tutte le cose»
é un frammento di Eraclito di circa duemila e cinquecento anni fa. È
una sorta di vessillo di tutta la cultura occidentale, e non solo. Il
frammento dice che la Guerra, in tutte le sue forme, è l'unico
arbitro della vita, di tutte le relazioni umane. La forza violenta è
vista più decisiva della ragione dialogante e del riconoscimento. Ma
si può imparare
a lasciare
emergere le diversità con un contenimento e com-ponimento (porre
insieme) delle differenti qualità.
L'apprendimento
che emerge dalla relazione può essere un continuo processo di
elaborazione del conflitto, un luogo di incontro, studio, ricerca ed
educazione sugli aspetti intrapsichici, interpersonali, di gruppo,
collettivi e istituzionali del conflitto.
Il
con-senso, con-sentire, è più piacevole e agevole. L'amore-fusione
è un momento magico, in cui si tocca il cielo con un dito (solo un
dito…). Però, il con-flitto, in-crocio (una croce!), esiste,
accade, si incontra: è un disagio, è spiacevole, ma si può
scoprire che è sia un pericolo
sia una opportunità.
I
-
È
un pericolo,
perché incontrare un ostacolo può spingere verso una soluzione
eliminatoria: tolto il contendente è tolto il conflitto. Ma è
proprio vero? La distruzione (morale, giuridica, fisica) del
differente, la chiusura-fermeture-serratura
dell'identità che si sente contestata dalla differenza, la lascia
senza la diversità. Dopo l'illusione della vittoria, mi adagio nella
mia auto-somiglianza. L'incapacità di reggere e accogliere la
differenza porta alla distruttività dell'altro e del rapporto,
quindi anche del soggetto. Senza rapporto è sterilità. Caino senza
Abele è fuggiasco, il più solitario dei solitari, perché
minacciato dal proprio gesto, che gli si ritorca contro, e solo Dio
gli fa compagnia, proteggendolo e inserendolo di nuovo nel rapporto
(Genesi 4). Elena Bono, in mirabile poesia ha ascoltato e reso il
Lamento
di David sul gigante ucciso.
Fare
da sé? “Solitudo, sola beatitudo”? In realtà, ogni creatività
anche interiore (pensiero, immaginazione) avviene perché un seme
differente è entrato nell'utero della interiorità e lo ha fecondato
con la etero-geneità (altro genere).
Sartre
dice: «L'enfer c'est les autres». Ma dirà anche, come autentico
valore obiettivo della sinistra, «fraternitè sans terreur», nel
1980, poco prima di morire. Gli altri sono un tormento? O possiamo,
senza la selezione della ghigliottina, ritrovarci fratelli, liberi e
uguali? Il bell'ideale rivoluzionario del 1789 della fraternité
non ha potuto affermarsi che ristretto nelle patrie in armi e
tagliato dai confini sacralizzati, o superati solo dall'impero. È
rispuntato, quell'ideale, dopo i massacri del Novecento, nelle grandi
dichiarazioni planetarie, ma sempre contraddetto dal vedere l'inferno
in altre parti di umanità.
“Non-ostante”
è il modo bello di incontrare la av-versione, la diversità
difficile. “Non-ostante” significa che l'ostacolo non è soltanto
hostis, nemico. Richiede una forza attiva impiegata a non distruggere
ma a costruire, evitando che il conflitto visto unicamente come
pericolo si semplifichi nell'eliminazione riduttiva.
II
-
È
anche una opportunità,
il conflitto. Esso è un'aggiunta,
l'aggiunta del diverso-nuovo, è il sale della co-scienza (dal sapere
di sé al sapere comune con l'altro). È la fecondazione di ogni
identità (identica a se stessa muore). È il disturbo dell'alterità
che turba, ma porta anche al piacere dell'ampliamento. È prima una
croce, poi una nuova vita (risurrezione non come ritorno indietro).
L'alterità esterna al mio spazio e al mio modo di essere, mi
interpella e mi chiama, mi smuove e mi modifica. La verginità non è
un valore, né sul piano biologico, né su quello relazionale e
vitale in senso pieno. La mia vita è fatta da e con la vita degli
altri. “Vive
la différence”.
Stare
solo in una compagnia di identici (robot; soldati in “uniforme”)
è riposante (ma è davvero riposante?), però è povero, deprivato.
Vivere è viaggiare fuori di sé e del cerchio. La famiglia si apre
naturalmente, ed è fioritura nei figli differenti e nei loro “altri”
percorsi. Dunque, sono un pericolo - sebbene abbiano una utilità e
un diritto, fino ad un certo punto - chiese, partiti, scuole,
nazioni, culture, linguaggi, religioni, gusti, la famiglia stessa, se
l'identificazione non è aperta all'incontro.
III
-
Anche
il problema di Dio, e comunque l'interrogativo su una Realtà piena e
avvolgente, incontra la problematica del conflitto tra pericolo e
opportunità.
Se
Dio è l'alterità assoluta, il “totalmente altro”, e troppo
altro, diventa insignificante, estraneo. “Nessuno lo ha mai visto”,
ma per il messaggio evangelico si è manifestato nell'uomo Gesù
(Giovanni 1,18), e «se ci amiamo tra noi è in noi» (1 Giovanni
4,12). Dio, visto così, è alterità e intimità. Se è talmente
altro da superarmi in modo assoluto, è così potente, arbitrario,
pauroso, che lo sento in conflitto con la mia vita, e devo rifiutarlo
per salvare dignità e libertà. È pericoloso. Unico scampo è che
non esista. Se è altro in quanto più vivo di me, più buono, più
bello, più benefacente, più misericordioso, riconoscibile in linea
di proseguimento con le mie migliori aspirazioni umane, allora è
incontro, è dono, motivo di fiducia, vicinanza, intimità, di nuova
vita che mi persuade come più vera della morte.
IV
-
Il
conflitto è tema al centro della ricerca della nonviolenza positiva,
condizione della pace giusta. Questa è essenzialmente la gestione
costruttiva dei conflitti: non dico soluzione, scioglimento, ma
gestione. Ovvero, trasformazione da pericolo a opportunità, da
minaccia e paura, a incontro e arricchimento, sebbene faticoso come
ogni apprendimento.
Realisticamente,
la vita personale come la vita dei gruppi umani ha bisogno di
respirare – sistole e diastole – tra il riposo dell'identità e
l'impegno della alterità. Questo passaggio duale, ma necessario,
rappresenta la completezza della vita e di una pace dinamica, non
immobile. La
pace, infatti, non è mai pace. È un concetto escatologico, come la
felicità: non è mai raggiunta, mai piena, eppure è vera, reale,
nel movimento che la cerca e la pregusta, la anticipa e ne soffre
l'incompiutezza. Pace, felicità, vita, sono nomi di un Vivente che
impropriamente, genericamente, chiamiamo Dio, sempre
pensato-impensato, alto-intimo, lontano-vicino.
Il
conflitto è l'incrocio di: io-altro, qui-là, noto-ignoto,
reale-ideale, certezza-incertezza, ecc., pace-non pace. Perciò è il
bivio tra opportunità e pericolo, acquisto e perdita,
incontro-scontro, apertura-chiusura, ecc.
Il
conflitto è l'essenza dell'esistenza: la scelta tra la violenza che
lo riduce (vorrebbe ridurlo) all'uno, e la nonviolenza che lo apre al
rapporto. Il conflitto appare come indefinito, malleabile, offerto
alla differente gestione, alla trasformazione dalla forma violenta,
istintiva, impaurita, subitanea, pericolosa, statica, chiusa,
solipsistica, alla forma nonviolenta, aperta, costruttiva, opportuna,
mobile, relazionale, reciproca.
Enrico
Peyretti, 12 marzo 2018
venerdì 9 marzo 2018
Libri
Pier
Cesare Bori, La
tragedia del potere
(Dostoevskij
e il Grande Inquisitore)
EDB 2015, pp. 45, euro 5,50
Le
Edizioni Dehoniane Bologna (www.dehoniane.it)
hanno avuto l'ottima idea di riprendere in piccoli volumetti brevi
lavori di Pier Cesare Bori (1937-2012), grande studioso, con la
visione di un profondo universalismo spirituale, che considero il più
serio fattore di cultura di pace. Dopo Il
dialogo al pozzo. Gesù e la Samaritana secondo Tolstoj
(2014), ora abbiamo La
tragedia del potere. Dostoevskij e il Grande Inquisitore
(2015, pp. 45, euro 5,50, originale 2005).
Nel
cap. 4, Roma
o Mosca,
Bori nota che il Cristo di Dostoevskij, quando entra a Siviglia, fa
pure miracoli, con un misterioso sapere e potere. E nota che
Dostoevskij attacca Anna
Karenina,
nel Diario
di uno scrittore,
per le posizioni contrarie alla guerra contro i turchi: «Non
è russo chi non riconosce la necessità di conquistare
Costantinopoli».
E quando Dostoevskij «si
consulta con il procuratore del santo sinodo sulla redazione de I
fratelli Karamazov
non si fa egli stesso assertore di un nazionalismo
religioso-ortodosso e slavofilo, in cui a Roma si sostituisce Mosca?»
chiede Bori.
Scrive
Leonid Grossman che quando Dostoevskij pubblicista svolge i temi
dello stato moderno (tribunali, stampa, scuola, nazionalità, chiesa,
propaganda rivoluzionaria) «risolve
invariabilmente tutti questi fondamentali problemi della vita interna
della Russia autocratica nel severo spirito della tendenza ufficiale.
(...) Riecheggia l'idea centrale di Pobedonoscev sulla futura
creazione di una forte Russia per mezzo della integrazione della
chiesa ortodossa nella vita russa. (.....) Il procuratore del sinodo
scrive nelle sue lettere che all'epoca della composizione de I
fratelli Karamazov,
Dostoevskij "veniva da me ogni sabato sera e tutto agitato mi
raccontava le nuove scene del romanzo"».
Conclude Grossman che «gli
ideali di Dostoevskij sono alti e umani, mentre l'insegnamento che si
desume è erroneo e inconsistente».
Tuttavia «tutto
ricopre l'appassionato amore dell'autore per gli uomini»
e anche «la
capacità di penetrare in profondità negli animi sofferenti».
Dostoevskij (commenta Bori) «fa
parlare non solo l'amore di Gesù per l'umanità, ma persino l'amore
del Grande Inquisitore per l'umanità».
E
ricorda, Bori stesso, studioso e ammiratore di Tolstoj, di avere fin
da giovane teologo, un grande debito verso la Leggenda
del Grande Inquisitore.
Negli anni Sessanta, nello slancio di passione ecumenica, andò con
un amico al collegio degli studenti di teologia della Facoltà
Valdese, a Roma. «Chi
ci accolse ci diede una lezione indimenticabile. Dare un segno di
unità al mondo? Ma anche la torre di Babele era stato un tentativo
di dare segno di unità, distrutto da Dio! Uscimmo dalla discussione
sbigottiti e sconfitti».
Sembrò loro di pensare come il Grande Inquisitore, quando dice:
«Ultimerà
la torre chi li sfamerà e noi li sfameremo, in nome Tuo, facendo
credere di farlo in nome Tuo».
Da
quel giorno, Bori si dice «dalla
parte della purezza, piuttosto che della pienezza, della verità
piuttosto che della comunione ad ogni costo».
Ritiene opportuno «prendere
distanza dagli aspetti polemici, storicamente datati, che la Leggenda
porta con sé dalla sua origine. Credo che sia importante partire da
se stessi, interrogare se stessi, piuttosto che accusare altri».
E
conclude proponendo, in una pagina, tre modi aggiornati di rifiutare
le tentazioni del miracolo, del mistero, del potere: «portare
quel che si può portare di vita dello spirito, anche se non si è
capaci di portare liberazione materiale»;
«non
proporre dogmi o credenze, ma una fede come tensione e apertura»;
«imparare
a essere una minoranza - fosse anche di uno - che non vuole diventare
maggioranza e che, chiedendo libertà per se stessa, la chiede ancor
più per gli altri».
Mi sembra che in queste linee sia detta la personalità e l'opera di
Pier Cesare Bori.
Enrico
Peyretti, 11 dicembre 2016
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