Libri
Pier
Cesare Bori, La
tragedia del potere
(Dostoevskij
e il Grande Inquisitore)
EDB 2015, pp. 45, euro 5,50
Le
Edizioni Dehoniane Bologna (www.dehoniane.it)
hanno avuto l'ottima idea di riprendere in piccoli volumetti brevi
lavori di Pier Cesare Bori (1937-2012), grande studioso, con la
visione di un profondo universalismo spirituale, che considero il più
serio fattore di cultura di pace. Dopo Il
dialogo al pozzo. Gesù e la Samaritana secondo Tolstoj
(2014), ora abbiamo La
tragedia del potere. Dostoevskij e il Grande Inquisitore
(2015, pp. 45, euro 5,50, originale 2005).
Nel
cap. 4, Roma
o Mosca,
Bori nota che il Cristo di Dostoevskij, quando entra a Siviglia, fa
pure miracoli, con un misterioso sapere e potere. E nota che
Dostoevskij attacca Anna
Karenina,
nel Diario
di uno scrittore,
per le posizioni contrarie alla guerra contro i turchi: «Non
è russo chi non riconosce la necessità di conquistare
Costantinopoli».
E quando Dostoevskij «si
consulta con il procuratore del santo sinodo sulla redazione de I
fratelli Karamazov
non si fa egli stesso assertore di un nazionalismo
religioso-ortodosso e slavofilo, in cui a Roma si sostituisce Mosca?»
chiede Bori.
Scrive
Leonid Grossman che quando Dostoevskij pubblicista svolge i temi
dello stato moderno (tribunali, stampa, scuola, nazionalità, chiesa,
propaganda rivoluzionaria) «risolve
invariabilmente tutti questi fondamentali problemi della vita interna
della Russia autocratica nel severo spirito della tendenza ufficiale.
(...) Riecheggia l'idea centrale di Pobedonoscev sulla futura
creazione di una forte Russia per mezzo della integrazione della
chiesa ortodossa nella vita russa. (.....) Il procuratore del sinodo
scrive nelle sue lettere che all'epoca della composizione de I
fratelli Karamazov,
Dostoevskij "veniva da me ogni sabato sera e tutto agitato mi
raccontava le nuove scene del romanzo"».
Conclude Grossman che «gli
ideali di Dostoevskij sono alti e umani, mentre l'insegnamento che si
desume è erroneo e inconsistente».
Tuttavia «tutto
ricopre l'appassionato amore dell'autore per gli uomini»
e anche «la
capacità di penetrare in profondità negli animi sofferenti».
Dostoevskij (commenta Bori) «fa
parlare non solo l'amore di Gesù per l'umanità, ma persino l'amore
del Grande Inquisitore per l'umanità».
E
ricorda, Bori stesso, studioso e ammiratore di Tolstoj, di avere fin
da giovane teologo, un grande debito verso la Leggenda
del Grande Inquisitore.
Negli anni Sessanta, nello slancio di passione ecumenica, andò con
un amico al collegio degli studenti di teologia della Facoltà
Valdese, a Roma. «Chi
ci accolse ci diede una lezione indimenticabile. Dare un segno di
unità al mondo? Ma anche la torre di Babele era stato un tentativo
di dare segno di unità, distrutto da Dio! Uscimmo dalla discussione
sbigottiti e sconfitti».
Sembrò loro di pensare come il Grande Inquisitore, quando dice:
«Ultimerà
la torre chi li sfamerà e noi li sfameremo, in nome Tuo, facendo
credere di farlo in nome Tuo».
Da
quel giorno, Bori si dice «dalla
parte della purezza, piuttosto che della pienezza, della verità
piuttosto che della comunione ad ogni costo».
Ritiene opportuno «prendere
distanza dagli aspetti polemici, storicamente datati, che la Leggenda
porta con sé dalla sua origine. Credo che sia importante partire da
se stessi, interrogare se stessi, piuttosto che accusare altri».
E
conclude proponendo, in una pagina, tre modi aggiornati di rifiutare
le tentazioni del miracolo, del mistero, del potere: «portare
quel che si può portare di vita dello spirito, anche se non si è
capaci di portare liberazione materiale»;
«non
proporre dogmi o credenze, ma una fede come tensione e apertura»;
«imparare
a essere una minoranza - fosse anche di uno - che non vuole diventare
maggioranza e che, chiedendo libertà per se stessa, la chiede ancor
più per gli altri».
Mi sembra che in queste linee sia detta la personalità e l'opera di
Pier Cesare Bori.
Enrico
Peyretti, 11 dicembre 2016
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