Riflessione
Il
conflitto, tra pericolo e opportunità
Intendo
proporre (riproporre) qui una semplice riflessione sul conflitto
suggerita nell'immediato dal libro di Marinetta Cannito, La
trasformazione dei conflitti. Un percorso formativo
(editrice
Claudiana. 2017, pp. 211, euro 18,00).
Occorre
anzitutto, per aprire un lavoro di elaborazione dei conflitti, di
ogni genere, liberare il termine “conflitto” dalla sinonimia con
“guerra”, che è diffusa nel linguaggio storico e
nell'informazione. Conflitto non vuol dire guerra. È una cultura
piegata al fatalismo bellicista quella che cattura la parola
riducendola a dire che un conflitto è sempre potenzialmente solo
violento, eliminatorio. Se pensi la guerra divinizzata, regina della
storia, ogni differenza e tensione è guerra, quasi necessariamente.
«Polemos
padre di tutte le cose»
é un frammento di Eraclito di circa duemila e cinquecento anni fa. È
una sorta di vessillo di tutta la cultura occidentale, e non solo. Il
frammento dice che la Guerra, in tutte le sue forme, è l'unico
arbitro della vita, di tutte le relazioni umane. La forza violenta è
vista più decisiva della ragione dialogante e del riconoscimento. Ma
si può imparare
a lasciare
emergere le diversità con un contenimento e com-ponimento (porre
insieme) delle differenti qualità.
L'apprendimento
che emerge dalla relazione può essere un continuo processo di
elaborazione del conflitto, un luogo di incontro, studio, ricerca ed
educazione sugli aspetti intrapsichici, interpersonali, di gruppo,
collettivi e istituzionali del conflitto.
Il
con-senso, con-sentire, è più piacevole e agevole. L'amore-fusione
è un momento magico, in cui si tocca il cielo con un dito (solo un
dito…). Però, il con-flitto, in-crocio (una croce!), esiste,
accade, si incontra: è un disagio, è spiacevole, ma si può
scoprire che è sia un pericolo
sia una opportunità.
I
-
È
un pericolo,
perché incontrare un ostacolo può spingere verso una soluzione
eliminatoria: tolto il contendente è tolto il conflitto. Ma è
proprio vero? La distruzione (morale, giuridica, fisica) del
differente, la chiusura-fermeture-serratura
dell'identità che si sente contestata dalla differenza, la lascia
senza la diversità. Dopo l'illusione della vittoria, mi adagio nella
mia auto-somiglianza. L'incapacità di reggere e accogliere la
differenza porta alla distruttività dell'altro e del rapporto,
quindi anche del soggetto. Senza rapporto è sterilità. Caino senza
Abele è fuggiasco, il più solitario dei solitari, perché
minacciato dal proprio gesto, che gli si ritorca contro, e solo Dio
gli fa compagnia, proteggendolo e inserendolo di nuovo nel rapporto
(Genesi 4). Elena Bono, in mirabile poesia ha ascoltato e reso il
Lamento
di David sul gigante ucciso.
Fare
da sé? “Solitudo, sola beatitudo”? In realtà, ogni creatività
anche interiore (pensiero, immaginazione) avviene perché un seme
differente è entrato nell'utero della interiorità e lo ha fecondato
con la etero-geneità (altro genere).
Sartre
dice: «L'enfer c'est les autres». Ma dirà anche, come autentico
valore obiettivo della sinistra, «fraternitè sans terreur», nel
1980, poco prima di morire. Gli altri sono un tormento? O possiamo,
senza la selezione della ghigliottina, ritrovarci fratelli, liberi e
uguali? Il bell'ideale rivoluzionario del 1789 della fraternité
non ha potuto affermarsi che ristretto nelle patrie in armi e
tagliato dai confini sacralizzati, o superati solo dall'impero. È
rispuntato, quell'ideale, dopo i massacri del Novecento, nelle grandi
dichiarazioni planetarie, ma sempre contraddetto dal vedere l'inferno
in altre parti di umanità.
“Non-ostante”
è il modo bello di incontrare la av-versione, la diversità
difficile. “Non-ostante” significa che l'ostacolo non è soltanto
hostis, nemico. Richiede una forza attiva impiegata a non distruggere
ma a costruire, evitando che il conflitto visto unicamente come
pericolo si semplifichi nell'eliminazione riduttiva.
II
-
È
anche una opportunità,
il conflitto. Esso è un'aggiunta,
l'aggiunta del diverso-nuovo, è il sale della co-scienza (dal sapere
di sé al sapere comune con l'altro). È la fecondazione di ogni
identità (identica a se stessa muore). È il disturbo dell'alterità
che turba, ma porta anche al piacere dell'ampliamento. È prima una
croce, poi una nuova vita (risurrezione non come ritorno indietro).
L'alterità esterna al mio spazio e al mio modo di essere, mi
interpella e mi chiama, mi smuove e mi modifica. La verginità non è
un valore, né sul piano biologico, né su quello relazionale e
vitale in senso pieno. La mia vita è fatta da e con la vita degli
altri. “Vive
la différence”.
Stare
solo in una compagnia di identici (robot; soldati in “uniforme”)
è riposante (ma è davvero riposante?), però è povero, deprivato.
Vivere è viaggiare fuori di sé e del cerchio. La famiglia si apre
naturalmente, ed è fioritura nei figli differenti e nei loro “altri”
percorsi. Dunque, sono un pericolo - sebbene abbiano una utilità e
un diritto, fino ad un certo punto - chiese, partiti, scuole,
nazioni, culture, linguaggi, religioni, gusti, la famiglia stessa, se
l'identificazione non è aperta all'incontro.
III
-
Anche
il problema di Dio, e comunque l'interrogativo su una Realtà piena e
avvolgente, incontra la problematica del conflitto tra pericolo e
opportunità.
Se
Dio è l'alterità assoluta, il “totalmente altro”, e troppo
altro, diventa insignificante, estraneo. “Nessuno lo ha mai visto”,
ma per il messaggio evangelico si è manifestato nell'uomo Gesù
(Giovanni 1,18), e «se ci amiamo tra noi è in noi» (1 Giovanni
4,12). Dio, visto così, è alterità e intimità. Se è talmente
altro da superarmi in modo assoluto, è così potente, arbitrario,
pauroso, che lo sento in conflitto con la mia vita, e devo rifiutarlo
per salvare dignità e libertà. È pericoloso. Unico scampo è che
non esista. Se è altro in quanto più vivo di me, più buono, più
bello, più benefacente, più misericordioso, riconoscibile in linea
di proseguimento con le mie migliori aspirazioni umane, allora è
incontro, è dono, motivo di fiducia, vicinanza, intimità, di nuova
vita che mi persuade come più vera della morte.
IV
-
Il
conflitto è tema al centro della ricerca della nonviolenza positiva,
condizione della pace giusta. Questa è essenzialmente la gestione
costruttiva dei conflitti: non dico soluzione, scioglimento, ma
gestione. Ovvero, trasformazione da pericolo a opportunità, da
minaccia e paura, a incontro e arricchimento, sebbene faticoso come
ogni apprendimento.
Realisticamente,
la vita personale come la vita dei gruppi umani ha bisogno di
respirare – sistole e diastole – tra il riposo dell'identità e
l'impegno della alterità. Questo passaggio duale, ma necessario,
rappresenta la completezza della vita e di una pace dinamica, non
immobile. La
pace, infatti, non è mai pace. È un concetto escatologico, come la
felicità: non è mai raggiunta, mai piena, eppure è vera, reale,
nel movimento che la cerca e la pregusta, la anticipa e ne soffre
l'incompiutezza. Pace, felicità, vita, sono nomi di un Vivente che
impropriamente, genericamente, chiamiamo Dio, sempre
pensato-impensato, alto-intimo, lontano-vicino.
Il
conflitto è l'incrocio di: io-altro, qui-là, noto-ignoto,
reale-ideale, certezza-incertezza, ecc., pace-non pace. Perciò è il
bivio tra opportunità e pericolo, acquisto e perdita,
incontro-scontro, apertura-chiusura, ecc.
Il
conflitto è l'essenza dell'esistenza: la scelta tra la violenza che
lo riduce (vorrebbe ridurlo) all'uno, e la nonviolenza che lo apre al
rapporto. Il conflitto appare come indefinito, malleabile, offerto
alla differente gestione, alla trasformazione dalla forma violenta,
istintiva, impaurita, subitanea, pericolosa, statica, chiusa,
solipsistica, alla forma nonviolenta, aperta, costruttiva, opportuna,
mobile, relazionale, reciproca.
Enrico
Peyretti, 12 marzo 2018
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