lunedì 12 marzo 2018

Riflessione
Il conflitto, tra pericolo e opportunità
Intendo proporre (riproporre) qui una semplice riflessione sul conflitto suggerita nell'immediato dal libro di Marinetta Cannito, La trasformazione dei conflitti. Un percorso formativo (editrice Claudiana. 2017, pp. 211, euro 18,00).
Occorre anzitutto, per aprire un lavoro di elaborazione dei conflitti, di ogni genere, liberare il termine “conflitto” dalla sinonimia con “guerra”, che è diffusa nel linguaggio storico e nell'informazione. Conflitto non vuol dire guerra. È una cultura piegata al fatalismo bellicista quella che cattura la parola riducendola a dire che un conflitto è sempre potenzialmente solo violento, eliminatorio. Se pensi la guerra divinizzata, regina della storia, ogni differenza e tensione è guerra, quasi necessariamente.
«Polemos padre di tutte le cose» é un frammento di Eraclito di circa duemila e cinquecento anni fa. È una sorta di vessillo di tutta la cultura occidentale, e non solo. Il frammento dice che la Guerra, in tutte le sue forme, è l'unico arbitro della vita, di tutte le relazioni umane. La forza violenta è vista più decisiva della ragione dialogante e del riconoscimento. Ma si può imparare a lasciare emergere le diversità con un contenimento e com-ponimento (porre insieme) delle differenti qualità.
L'apprendimento che emerge dalla relazione può essere un continuo processo di elaborazione del conflitto, un luogo di incontro, studio, ricerca ed educazione sugli aspetti intrapsichici, interpersonali, di gruppo, collettivi e istituzionali del conflitto.
Il con-senso, con-sentire, è più piacevole e agevole. L'amore-fusione è un momento magico, in cui si tocca il cielo con un dito (solo un dito…). Però, il con-flitto, in-crocio (una croce!), esiste, accade, si incontra: è un disagio, è spiacevole, ma si può scoprire che è sia un pericolo sia una opportunità.
I -
È un pericolo, perché incontrare un ostacolo può spingere verso una soluzione eliminatoria: tolto il contendente è tolto il conflitto. Ma è proprio vero? La distruzione (morale, giuridica, fisica) del differente, la chiusura-fermeture-serratura dell'identità che si sente contestata dalla differenza, la lascia senza la diversità. Dopo l'illusione della vittoria, mi adagio nella mia auto-somiglianza. L'incapacità di reggere e accogliere la differenza porta alla distruttività dell'altro e del rapporto, quindi anche del soggetto. Senza rapporto è sterilità. Caino senza Abele è fuggiasco, il più solitario dei solitari, perché minacciato dal proprio gesto, che gli si ritorca contro, e solo Dio gli fa compagnia, proteggendolo e inserendolo di nuovo nel rapporto (Genesi 4). Elena Bono, in mirabile poesia ha ascoltato e reso il Lamento di David sul gigante ucciso.
Fare da sé? “Solitudo, sola beatitudo”? In realtà, ogni creatività anche interiore (pensiero, immaginazione) avviene perché un seme differente è entrato nell'utero della interiorità e lo ha fecondato con la etero-geneità (altro genere).
Sartre dice: «L'enfer c'est les autres». Ma dirà anche, come autentico valore obiettivo della sinistra, «fraternitè sans terreur», nel 1980, poco prima di morire. Gli altri sono un tormento? O possiamo, senza la selezione della ghigliottina, ritrovarci fratelli, liberi e uguali? Il bell'ideale rivoluzionario del 1789 della fraternité non ha potuto affermarsi che ristretto nelle patrie in armi e tagliato dai confini sacralizzati, o superati solo dall'impero. È rispuntato, quell'ideale, dopo i massacri del Novecento, nelle grandi dichiarazioni planetarie, ma sempre contraddetto dal vedere l'inferno in altre parti di umanità.
Non-ostante” è il modo bello di incontrare la av-versione, la diversità difficile. “Non-ostante” significa che l'ostacolo non è soltanto hostis, nemico. Richiede una forza attiva impiegata a non distruggere ma a costruire, evitando che il conflitto visto unicamente come pericolo si semplifichi nell'eliminazione riduttiva.
II -
È anche una opportunità, il conflitto. Esso è un'aggiunta, l'aggiunta del diverso-nuovo, è il sale della co-scienza (dal sapere di sé al sapere comune con l'altro). È la fecondazione di ogni identità (identica a se stessa muore). È il disturbo dell'alterità che turba, ma porta anche al piacere dell'ampliamento. È prima una croce, poi una nuova vita (risurrezione non come ritorno indietro). L'alterità esterna al mio spazio e al mio modo di essere, mi interpella e mi chiama, mi smuove e mi modifica. La verginità non è un valore, né sul piano biologico, né su quello relazionale e vitale in senso pieno. La mia vita è fatta da e con la vita degli altri. “Vive la différence”.
Stare solo in una compagnia di identici (robot; soldati in “uniforme”) è riposante (ma è davvero riposante?), però è povero, deprivato. Vivere è viaggiare fuori di sé e del cerchio. La famiglia si apre naturalmente, ed è fioritura nei figli differenti e nei loro “altri” percorsi. Dunque, sono un pericolo - sebbene abbiano una utilità e un diritto, fino ad un certo punto - chiese, partiti, scuole, nazioni, culture, linguaggi, religioni, gusti, la famiglia stessa, se l'identificazione non è aperta all'incontro.
III -
Anche il problema di Dio, e comunque l'interrogativo su una Realtà piena e avvolgente, incontra la problematica del conflitto tra pericolo e opportunità.
Se Dio è l'alterità assoluta, il “totalmente altro”, e troppo altro, diventa insignificante, estraneo. “Nessuno lo ha mai visto”, ma per il messaggio evangelico si è manifestato nell'uomo Gesù (Giovanni 1,18), e «se ci amiamo tra noi è in noi» (1 Giovanni 4,12). Dio, visto così, è alterità e intimità. Se è talmente altro da superarmi in modo assoluto, è così potente, arbitrario, pauroso, che lo sento in conflitto con la mia vita, e devo rifiutarlo per salvare dignità e libertà. È pericoloso. Unico scampo è che non esista. Se è altro in quanto più vivo di me, più buono, più bello, più benefacente, più misericordioso, riconoscibile in linea di proseguimento con le mie migliori aspirazioni umane, allora è incontro, è dono, motivo di fiducia, vicinanza, intimità, di nuova vita che mi persuade come più vera della morte.
IV -
Il conflitto è tema al centro della ricerca della nonviolenza positiva, condizione della pace giusta. Questa è essenzialmente la gestione costruttiva dei conflitti: non dico soluzione, scioglimento, ma gestione. Ovvero, trasformazione da pericolo a opportunità, da minaccia e paura, a incontro e arricchimento, sebbene faticoso come ogni apprendimento.
Realisticamente, la vita personale come la vita dei gruppi umani ha bisogno di respirare – sistole e diastole – tra il riposo dell'identità e l'impegno della alterità. Questo passaggio duale, ma necessario, rappresenta la completezza della vita e di una pace dinamica, non immobile. La pace, infatti, non è mai pace. È un concetto escatologico, come la felicità: non è mai raggiunta, mai piena, eppure è vera, reale, nel movimento che la cerca e la pregusta, la anticipa e ne soffre l'incompiutezza. Pace, felicità, vita, sono nomi di un Vivente che impropriamente, genericamente, chiamiamo Dio, sempre pensato-impensato, alto-intimo, lontano-vicino.
Il conflitto è l'incrocio di: io-altro, qui-là, noto-ignoto, reale-ideale, certezza-incertezza, ecc., pace-non pace. Perciò è il bivio tra opportunità e pericolo, acquisto e perdita, incontro-scontro, apertura-chiusura, ecc.
Il conflitto è l'essenza dell'esistenza: la scelta tra la violenza che lo riduce (vorrebbe ridurlo) all'uno, e la nonviolenza che lo apre al rapporto. Il conflitto appare come indefinito, malleabile, offerto alla differente gestione, alla trasformazione dalla forma violenta, istintiva, impaurita, subitanea, pericolosa, statica, chiusa, solipsistica, alla forma nonviolenta, aperta, costruttiva, opportuna, mobile, relazionale, reciproca.
Enrico Peyretti, 12 marzo 2018

Nessun commento:

Posta un commento